venerdì 27 luglio 2012

Il confine della casa

Come spesso accade quando andiamo in Germania, siamo andati a trovare la signora C. 
La signora C. vive a Nordhorn, una cittadina al confine con i Paesi Bassi. Quando andiamo da lei, per pranzo ci cucina degli involtini di carne con i cetriolini, crauti rossi e patate e il caffè con la torta nel pomeriggio, prima di salutarla e, su suo consiglio, attraversare il confine per far benzina perché costa meno. 
Nel quartiere delle vie con i nomi di fiori, aveva una bella casettina color cioccolato a due piani e il tetto spiovente; con le finestre ornate con tendine bianche dal bordo ricamato, vasi di fiori sui davanzali bassi e ovunque statuine di gatti. Fino a poco tempo fa sui morbidi tappeti persiani del salotto e della sala da pranzo si aggirava la vecchia gatta J. Sul retro aveva un giardino che la signora C. curava ancora nonostante i suoi novant'anni. In questo giardino riposa anche il cane J. 
Originaria della Slesia, allora tedesca, la signora C. si è vista portare via la casa costruita da suo padre, quando la regione venne ceduta alla Polonia, al termine della seconda guerra. Emigrando a ovest, perse tutti e quattro i suoi figli, per stenti e fame. A Nordhorn si è risposata e ha avuto altri figli. Oggi ha deciso di vendere la sua casa divenuta troppo grande e di trasferirsi in una residenza per anziani, dove paga l'affitto per un appartamentino nascosto dietro una porta anonima che sembra quella di una stanza d'ospedale.
Si accede attraverso una porta scorrevole che dà su una grande sala con un banco informazioni e diversi tavolini con sedie. Lungo un corridoio si leggono le insegne delle diverse stanze che si susseguono: fisioterapia, farmacia.. Un altro corridoio conduce agli appartamenti. Si cammina morbidamente su una moquette rosa pesco. Si sente odore di pipì. Diverse ospiti della struttura gironzolano appoggiate a girelli e deambulatori e si salutano da sotto chiome bianchissime. Troviamo la porta della signora C. e bussiamo. Ci apre e, sebbene siamo in ritardo, si fa radiosa in volto e ci abbraccia calorosamente.
Niente involtino, oggi: ci porta al ristorante. Entrambi speriamo in una kneipe  proprio tedesca. Non è che non possa cucinare: l'appartamentino è composto da un ingresso, che ha lo stesso tappetino di quello che c'era in casa sua, dove togliamo le scarpe intrise di pioggia; un salotto con un angolo cucina con due soli fornelli, un frigo, un lavandino e diversi scaffali che ospitano tutti gli elettrodomestici di una cucina tedesca. C'è un tavolino quadrato con tre sedie, poi un comodo divano con tavolino e due poltrone. Più oltre c'è la cameretta: letto singolo ortopedico con leve e marchingegni, uno specchio, una cassettiera, un armadio. Le foto di figli e nipoti sono ancora ovunque. Il giardino si è trasformato in una fila di vasi sul davanzale. Ma c'è una palma che non riesce a prendere vigore e si affloscia gialla sulla moquette. "Forse non ha abbastanza luce" diagnostica la signora C. Dalla finestra si vede il giardino interno della residenza, che la pioggia rende verdissimo. Dopo un po' ci si dimentica di essere altrove, e ci si ripensa di nuovo a casa della signora C. Ma quando si apre la porta di casa, l'incantesimo finisce, e ci si imbatte di nuovo nella processione su rotelle di bianche chiome. Anche la signora C. ha una chioma bianca, e occhi azzurrissimi. Le diventano vispi e ci invita ad uscire dal retro, passando davanti all'ufficio della polizia.
Il ristorante è chiuso, mangiamo in un fast food. Poi saliamo in macchina e la signora C. ci chiede di guidare fino davanti la sua ex-casa. Piove. E' ancora tutto uguale. Si vuole assicurare che anche il patio di ingresso non sia stato modificato: guido un po' più avanti. Non vuole scendere. Ci allontaniamo. Attraversiamo il confine passando davanti ad un negozio che espone una promozione gigante: parazetamol 0,99€! Andiamo al supermercato del giardinaggio di Denekamp, dove le cassiere parlano un perfetto tedesco. La signora C. acquista un'enorme e rigogliosa palma, con un bel vaso rosso. Quando torniamo a casa, questo prende il posto del suo predecessore, in cima ad uno sgabello.

giovedì 14 giugno 2012

Entroterra Giambellino

E' giunta a cottura ed è pronta per essere consumata la ricetta filmica di Immaginariesplorazioni. Dopo la presentazione del libro Nella tana del drago, esce finalmente anche il film. La ricetta comprende coscienza etnografica, piglio artistico e interesse all'abitare e all'architettura. Per mesi ci siamo aggirati con la telecamera nelle nebbie dei nuovi fabbricati e di quelli abbandonati, nei rimasugli di una civiltà contadina stretta nella morsa della gentrificazione, nel cuore pulsante serale dei centri nevralgici e dei vuoti inspiegabili. Abbiamo esplorato immaginari, ce ne siamo formati di nuovi. 
Il risultato: Entroterra Giambellino.

giovedì 7 giugno 2012

Intimità e noia


Raccontando questi itinerari, quello che spero è di trasmettere un certo modo di camminare, di attraversare lo spazio, di esplorare, che è precisamente anche un modo di guardare, di soffermarsi, di dare peso. A volte in queste passeggiate capita di non trovare nulla, ed è difficile farne un reportage. Non per questo vale di meno la pena di procedere nell'attraversamento, insomma, di godersi la passeggiata.


Sono tornata laddove la scorsa passeggiata si era spinta, prima di ritornare indietro: le case occupate di piazza Ferravilla. Incuriosita dalla particolarità di questi edifici, ho voluto concedermi più tempo per osservarli. Queste villette stile liberty dell'Aler si dispiegano da un lato e dall'altro di uno stretto viottolo pedonale (via Apollodoro), che collega la piazza con via Andrea del Sarto. Le case giacciono quasi tutte in stato di abbandono, a parte quelle riqualificate dagli occupanti e una che è la sede del Centro Aiuto Drogati onlus e del suo sportello migranti. Le altre espongono targhette importanti: Cgil, Cisl, Uil, la stessa Aler (c'è perfino un'associazione per l'accoglienza dei ricercatori stranieri), ma le istituzioni cui si riferiscono non sembrano mettere piede qui da un po' di tempo. É incredibile, perché queste case sono bellissimeAl ritorno a casa ho potuto saperne di più grazie a questo articolo.

Sono tornata da queste parti anche perché la retrostante piazza Asperi mi ricorda una zona di Bruxelles che avevo attraversato di notte in auto. Le case basse, folte di vegetazione, addobbate con opere d'arte, disegni, colori; pavimentazione di sanpietrini, calma e spazio sopra la testa. C'è un certo raccoglimento, un'intimità, che ritrovo in tutte le vie circostanti: via Tiepolo, via del Sarto, via Verrocchio, al cui limitare si erge la possente Aeronautica Militare, in marmo bianco imperiale e le simbologie guerresche.

Si svela il segreto di questa intimità: l'interruzione del suo essere piazza di piazza Novelli, costretta in un cantiere che tiene temporaneamente separate le strade che da essa, a raggiera, si dipanano. Tutto è marciapiede, tutto è parcheggio. Non vi è transito. Si può sostare con calma con biciclette e cagnolini in mezzo alla strada, come fanno alcuni ragazzini in via Giuditta Sidoli. E' come una città provvisoria, interrotta. C'è calma, dunque, e vento. Ci sono balconi e gente affacciata –le villette sono ormai nascoste dai palazzoni– le strade sono vuote e sonnacchiose come in un pomeriggio d'estate. Fotografo una serie di decorazioni poste sopra i portoni d'ingresso di alcune abitazioni, come dei simboli araldici, stemmi delle famiglie che vi dimorano. L'ultimo della serie è, in maniera sommamente ironica –trovo– un ragno di bronzo sulla sua ragnatela. Non c'è niente di emozionante da vedere, mi lascio passeggiare mollemente godendomi il vento. Osservo come progressivamente le case davanti a me sono raggiunte e aggredite da una giungla di edere e gelsomini e altre piante, come se la Natura, approfittando della disattenzione degli esseri umani, stesse lentamente riprendendo il sopravvento, piano per non destare sospetti.




Mi pongo come vuoto obiettivo quello di raggiungere una macchia verde che si vede in fondo a via Giuseppe Piolt de' Bianchi. Due ragazzine mi sfarfallano a fianco sorpassandomi rompendo il silenzio e come risvegliandomi. Una delle due la ritrovo correre nella direzione opposta mentre al telefono cerca disperatamente un riferimento spaziale per orientare il suo interlocutore. Impossibile, qui ci sono solo palazzi che si distinguono solo per le decorazioni di stucco sugli ingressi sontuosi.
Emergendo da questa monotonia sono stupita di trovare questo personaggio di bronzo semi-inginocchiato di fronte ad un blocco di marmo. Lo aggiro e scopro che si tratta del monumento a Giuseppe Grandi, e che mi trovo appunto in piazza Grandi. Mi piace lo spazio: è una lieve altura che eleva sopra il sottostante corso XXII Marzo. É strano trovarsi in questa prospettiva a Milano. E poi apprezzo molto questi lastroni di marmo ancora caldi di sole. Mi sdraio per riprendere l'energia che mi serve per tornare a casa, mentre osservo le fronde piene di vento degli alberi altissimi.








         Prima di riprendere l'autobus su viale Campania, Wow! Lo spazio fumetto mi richiama ad un'ultima incursione. Dentro trovo dei palazzi arancioni costruiti con i lego presidiati da un lucertolone bianco e i suoi piccoli. Poi, nascosto fra i cespugli, c'è il regno dei bambini, che, infischiandosi del fatto che si tratta di una pista per skaters, li hanno emarginati in un angolo e hanno trasferito qui la loro festa di compleanno, e solo la promessa di un gelato li richiama tutti fuori verso le rispettive mamme.

martedì 22 maggio 2012

Fotografismo capillare



Risalendo le briciole della festa



Scegliamo di inaugurare la nostra camminata con i luoghi dedicati a Fausto e Iaio: possono essere i giardini di piazza Durante da poco dedicati a loro due, “per sempre ragazzi”, vittime della violenza fascista nel 1978; oppure la strada in cui la morte li ha cercati mentre tornavano a casa quel giorno: via Mancinelli, oggi luminosa, piena di murales con i loro ritratti, che inizia con il deposito dell'Atm, con i tram che riposano sulle rotaie, che non smettono il loro fascino pur nel trambusto della velocità odierna. La forza rotaia, tutta potenziale. Un che di antico, oggi lentissimi. Un moderno del passato. E termina su un'abbazia di mattoni rossi, la Casoretto, che se si svicola svela la chiesa annessa, un sagrato dove uomini e donne sulla cinquantina scambiano battute divertenti, un campo sportivo che gronda di mamme e bambini e un cinema che non ospita ormai che ortiche ed erbacce. Con il caldo e l'afa malsopportati durante tutta la giornata, o il tedio del neon di un interno universtario, è bello ondeggiare insieme alle fronde fitte degli alberi di viale Lombardia. Se si decide di tirare dritto fino a piazza Piola, si possono osservare queste bellissime villette in stile liberty tutte verdi e piene di giardini. Intervallate da post-moderne geometrie e scaloni.
Cerchiamo una bottega per acquistare qualcosa che ci dia ristoro. Troviamo solo un supermercato e passando oltre ci accorgiamo che nasconde una targa commemorativa dei martiri della Resistenza, all'ingresso del parcheggio, sopra all'uscita di servizio, seminascosta dalla grondaia. Poco più avanti si apre la bellissima piazza Leonardo da Vinci, che dà il nome al campus del Politecnico, preceduto da una chiesa abbandonata coperta di piastrelline di maiolica verde su cui sono affisse una gigantografia di Songoku e un altro faccione. L'area pedonale dove c'è anche il teatro s. Leonardo ha delle panche, su cui un libraio ambulante ha disposto i suoi libri e ora, prima che smonti canticchiando Ohi ohi, campo d'aria riesce a vendermi senza sforzo alcuno Modelli di cultura di Ruth Benedict edizione Feltrinelli 1979 per due euro. Viene tutti i giorni tranne il sabato e la domenica e quando piove. Entriamo nell'edificio antistante: c'è una piazza coperta con dei tavoli dove gli studenti spremono le ultime energie della giornata in discussioni davanti a libri e pc, e ci infiliamo in una sala dove c'è l'esposizione Lezione di Galileo Galilei sulla struttura dell'Inferno. Finché il custode non ci caccia fuori che deve chiudere. Un cantiere interrompe la strada e avvolge una libreria. Annesso c'è il Centro Balneare Estivo Romano. Questo cantiere, aperto dal 2003 per la costruzione di un parcheggio sotterraneo, ha provocato danni agli edifici circostanti; una vicenda che è costata “la testa” a due funzionari comunali, colpevoli di non aver vigilato sui lavori come di dovere. Torniamo alla piazza. La festa di agraria si è appena consumata e i superstiti giacciono qua e là sul prato o giocano a pallone o si fanno burle. Sembra una a me più familiare piazza Verdi bolognese su un prato milanese. Restiamo un po' lì sdraiati poi attraversiamo la piazza per intero, salutando le sculture. Attraversiamo la strada e scopriamo un'incantevole pista di pattinaggio. 
Su viale Romagna troppo grande ci intrufoliamo in una via laterale, Mangiagalli e poi Dubini, attirati da un cartello vendesi apposto su un caseggiato che sembra un pezzo di centritalia, un po' Romagna davvero, e infine una serie di porte colorate abbinate ai fiori che espongono. Sbuchiamo fuori e i cortili delle case popolari ci trascinano per un momento nei ricordi dell'infanzia; con la vista: le reti di ferro e gli orti al posto del cemento; con l'olfatto: certi odori di cibo e di panni al vento che mai viene spazzato via. All'angolo un'insegna di un panettiere è ancora accesa: è il segno che dobbiamo cenare. Il panettiere Magdi dopo le 19 fa lo sconto su pizze e focacce. Oggi ha preparato cinquemila panini per gli studenti di agraria in festa, di cui parla con molto affetto. D'altronde anche lui ha tre figli di cui due all'università. Ci sediamo su due divani di cemento sulla banchina alberata del viale e consumiamo le nostre focacce mentre il traffico ci scorre ai due lati. Più oltre andiamo a far visita ai ragazzi delle scuole superiori che hanno occupato delle splendide ville Aler in piazza Ferravilla che giacevano in completo stato di malora e abbandono. Lisa ci saluta all'ingresso, ci fa entrare e ci conduce in ogni stanza e anfratto visitabile. Presto qui sorgerà una sala prove, un laboratorio di falegnameria e cartonatura e nascerà un bambino. Ritorniamo su viale Romagna e piazza Leonardo da Vinci. Il ritorno a casa è fra le piccole vie che sbucano fuori a Lambrate. Siamo stanchi e ci fermiamo a fare la pipì al Birrificio Lambrate, che troviamo molto bello e decidiamo di tornarci presto. La città universitaria quando chiude è deserta. È un susseguirsi di edifici che dormono col vento. Ma dopo il Birrificio ricomincia a brulicare la vita fino alla stazione di Lambrate.

giovedì 10 maggio 2012

Via da Buenos Aires


Stavolta il pretesto è di tornare da porta Venezia senza passare per corso Buenos Aires, allora si decide di tentare la logica della via parallela, e si finisce per venire risucchiati da incroci inediti, abbinamenti inaspettati e incontri che ti costringono a zigzagare incessantemente, senza pietà per le proprie gambe, ormai provate da una giornata di lavoro, di fronte alle quali ci si giustifica solo invocando la necessità che il turismo sia capillare.

Poniamo il caso che siamo stati allo Spazio Oberdan e ci siamo diretti verso la metropolitana. Scopriamo un'enorme piazza sotterranea dove combriccole di ragazzini provano coreografie di gruppo o passi di break dance. Giriamo intorno e li guardiamo tutti facendo oscillare la testa a ritmo di musica. Fino a che ci ritroviamo di nuovo all'imboccatura della metropolitana, lo prendiamo come un invito e decidiamo di tornare a piedi. Di fronte allo spazio Oberdan c'è una libreria antiquaria con libri illustrati bellissimi, tra cui un Pinocchio, una Storia della Pizza, un Libro della Giungla.

Ma noi ci sentiamo richiamati dal campanellìo degli aperitivi dei bar su via Vittorio Veneto. Sfiliamo lungo le vetrine che mostrano piatti ricolmi di cibo e infilandoci fra il via vai di camerieri e tavolini passiamo oltre. Al primo incrocio svoltiamo verso la linearità e la sobrietà della distesa di vie perpendicolari che ci si apre davanti. Una volta questo era il Lazzaretto, di cui rimane ancora oggi la chiesetta ottagonale di San Carlo (al Lazzaretto, appunto). Se prima ci venivano a macinare la loro sorte i malati di peste e di lebbra, oggi è un fiorire di negozi e attività composite e accattivanti. Ci sono il negozio di dischi Nashville con la vetrina tappezzata di autografi di artisti passati per Milano, c'è il negozio di b-movies con tutto il cinema dalla B alla Zeta, ma soprattutto c'è la musica.

Ci sono negozi, call center, ristoranti e take-away che portano i nomi delle capitali di Eritrea ed Etiopia. Da Asmara TelePhone un uomo sta suonando una specie di cetra verniciata di nero e tenuta insieme da un nastro isolante. Ci invita ad entrare. Ci suona due pezzi che ci spiega essere musica suonata nei matrimoni: il genere si chiama Eros, lo strumento krar, a sei corde. Di solito è accompagnato dalle percussioni e tutti ballano. Ci mostra anche il vestito bianco tradizionale della sposa, appeso e incellophanato ad una parete di quello che sembrava essere solo un call-center. Mi pento di aver detto di sapere come funziona una chitarra perché l'uomo decide di mettermi in mano il suo krar e mi invita a suonarlo. Non ha i tasti e le note si individuano premendo le dita sulle corde sospese, non appoggiate al manico, mentre la parte che si suona è sul legno. L'opposto di una chitarra. Restituisco il krar in preda all'imbarazzo, sentiamo un ultimo pezzo, ringraziamo e andiamo a mangiare all'Isola Verde, take-away dove vieni invitato a fare “come da noi e a lasciare stare coltello e forchetta”: il proprietario ci mostra il lavabo che si aziona a ginocchio. Consumiamo il nostro zigni sotto a tre fotografie di Asmara nel 1945. Poi ci laviamo di nuovo le mani, impariamo a dire grazie in eritreo e ci complimentiamo con la cuoca in italiano, ripromettendoci di diventare degli habitués. Mentre digeriamo leggiamo l'alfabeto amarico sulla porta di un negozio che vende anche musica con l'invito in inglese a non copiarla! Per un piatto veloce si può mangiare anche un'ottima pizza al Santa Maria, che fa anche kebab. Proseguiamo su via Tadino, fino ad attraversare viale Tunisia e ad incrociare via san Gregorio, che svela un angolo con un incredibile altarino: è la fantasia iconica di una chiesa ortodossa, in felice contrasto con la regolarità del paesaggio circostante. La chiesa è adiacente ad una scuola. Tra la scuola e la chiesa in mattoni rossi c'è una striscia di giardino, nascosta dietro un cancello coperto di edera finta. Se sono andata fino a lì per spiare è perché ho sentito il verso di un uccello sconosciuto – chi ha visto il film “Up” avrebbe come me immediatamente esclamato:– Il beccaccino!–

Palazzi sontuosi e palazzi più popolari si susseguono, fino a che imbocchiamo via Boscovich ed infine il parco di via Benedetto Marcello, con le sue belle panchine fatte per uomini soli, seduti qua e là, a distanza. Sotto la folta vegetazione aspettiamo l'imbrunire, poi riprendiamo il cammino verso casa. All'incrocio con via Vitruvio scopriamo il quartier generale di Magdi Cristiano Allam: la sede del suo partito Amo L'Italia e dei suoi Italiani Veri. La piazza del mercato vuota sulla sinistra, il palazzo Liberty con il caffé Liberty di via Petrella. Il parrucchiere bengalese che chiude alle 21 e che propone in vetrina tutti i tagli fantasmagorici che è in grado di fare, mentre un cliente si assicura davanti allo specchio che i suoi baffi siano a posto. Siamo in piazza Caiazzo, scivoliamo lungo gli alberi di via Pergolesi e ormai manca poco a Loreto..


venerdì 4 maggio 2012

Turismo capillare

Kız Reporter deve arrotondare un po' le entrate, allora si è messa a fare la guida turistica..a suo modo. Ha trovato uno spazio sul sito di MilanoFree, proprio qui, dove potrete leggere il primo degli itinerari proposti. Un po' meno antropologico, un po' più fiction, un po' più visuale: lo scritto è pensato come l'obiettivo di una videocamera, o di una macchina fotografica..e ognuno nell'immagine è libero di leggere ciò che desidera.

Si arriva a trent'anni in una città nuova, segreta, un po' introversa. Ci si arrangia un lavoretto, una casa in affitto, le prime poche conoscenze. Si fa la residenza. Si visitano i posti notevoli. E poi?
Poi ci si mette a camminare. Si apre la porta, si scendono le scale, si esce sulla strada. Si cammina. Non importa dove: si segue un certo fiuto. Non si ha questo fiuto? Certo, ci vuole allenamento. Intanto qui vi offro una guida, un esempio di come si può fare. Un itinerario alla volta, casuale. Ogni pretesto vale. Si va a cercare un negozio e poi si torna apposta dalla strada sbagliata.
Il pretesto di oggi è scrollarsi di dosso il traffico e dirigersi verso qualcosa di alto –un albero o un palazzo, come vedremo.
La Torre Solare
Si parte da via Padova: lasciamo via Cambini alle spalle, dove il lunedì c'è il mercato rionale, e si trova anche l'aneto, venduto su una cassetta di legno fra le file di bancarelle da un venditore arabo, e si entra via Cavezzali. C'è un bowling: voglio vedere se come tutti i bowling odora di fritto e ha musica tecno a tutto volume; decido di entrare, ma mi basta schiudere la porta per ricevere la mia conferma. Di tecno non c'è solo la musica: c'è anche il grosso palazzo che stende la sua spessa ombra su piazza Sesia. Dietro di lui continuano le figure quadrilaterali delle facciate di altri palazzi simili. Seguo allora il profilo dei rami verdi e sonanti che sbucano dal muro di cinta dell'ospedale Turro. Sono alberi altissimi. Le foglie sfrigolano e il traffico è già un ricordo lontano. Il verde prende sempre di più il sopravvento sul cemento: percorrendo via Jesi scovo un edificio catturato dall'edera, che fa da sfondo ad un furgone decorato con fiori sul parabrezza e una scritta in arabo. É tutto disegnato e scritto: e la penna è di volta in volta l'adesivo, l'edera o la bomboletta spray. Sfocio nel verde del parco della Martesana: qui la mia altezza la trovo nella Torre Solare, un palazzo di edilizia popolare costruito negli anni '80. Deve il suo nome al progetto iniziale di renderlo autonomo dal punto di vista energetico grazie ad un sistema di pannelli solari. Ai piedi dei suoi diciotto piani le giostre gonfiabili di Stobbia si sgonfiano, alla fine della giornata di divertimento, e un grosso alieno verde si affloscia in avanti mentre un bambino osserva la scena dalla sua biciclettina.
Più oltre mi imbatto in una popolazione di panettoni di cemento dipinti da personaggi di Southpark; di fronte si apre l'anfiteatro della Martesana, che di domenica ospita una ciclofficina per chi vuole cimentarsi. Oppure si possono imparare le danze folcloristiche peruviane, come il Huayño. Proseguo oltre e mi imbatto nell'incredibile muro fucsia del parco della Martesana, che si staglia sul verde e fugge verso via Valtorta. E qui ci faccio una pausa, rimanendo a chiedermi il perché di quel colore, mentre sullo sfondo alcuni ragazzi accendono lo stereo e ascoltano musica metal sudamericana.

lunedì 16 aprile 2012

Paleoantropologia

Werner Herzog, nel suo film dedicato alla meraviglia delle Grotte di Chauvet, chiede ad un giovane archeologo abbastanza irriverentemente:–E quale sarebbe il tuo background personale?– E lui, prima deglutisce nervosamente – come sono io stessa abituata a fare ogni volta che qualcuno mi inquisisce sulle mie competenze in un fuori luogo marcato; ma gli inquisitori si sentono sempre legittimati – ma poi prosegue: –Ero nel circo. No, non ero domatore di leoni. Ero giocoliere. Facevo numeri di giocoleria.–

Adesso fa parte della crew che studia le grotte nascoste nella spettacolare gola del fiume Ardeche, in Francia, dove tre anni fa sono stati scoperti incredibili graffiti. Herzog parla di proto-cinema, perché la tecnica compositiva ricorda quella futurista per imprimere moto alle figure ritratte, come il Cane al guinzaglio di Giacomo Balla. 

Solo che i disegni rupestri di Chauvet datano tren-ta-cin-que-mi-la anni, e sono, mi si lasci dire, anche più belle, di straordinario potere grafico e incredibilmente accurate anatomicamente (a parte un mammuth con i piedi come ruote-benché pare siano state inventate molto più tardi).

Il giovane archeologo-ex-giocoliere ha bisogno di immergersi nel sogno se vuole arrivare a immaginare che cosa pensavano quegli uomini e donne e bambini che sono passati in quella grotta. Cita un etnografo che in Australia ha chiesto ad un aborigeno "Perché dipingi?" – domanda da scienziato. E l'aborigeno risponde: –Io non sto dipingendo. E' lo spirito che lo fa per me.–

Forse sbagliamo le domande. O forse siamo troppo intrisi di Storia, come dice Herzog, mentre si aggira con una telecamerina poco migliore della mia negli antri della caverna cosparsa di tracce, troppo intrisi per capire che fra quel graffio di orso e quel disegno c'è una distanza di cinquemila anni. La Storia  può essere solo un punto di vista fra gli altri, come insegna un altro tedesco illustre, Nietzsche (Sull'utilità e il danno della storia per la vita), di cui si può anche fare a meno o modularne il significato e la portata.

Quanto può essere arduo allora questo decentramento. Non basta nemmeno per capire perché uomini e donne diversi da noi, ma contemporanei, perché loro dipingono. Ma forse il perché non conta, e basta intravedere un angolo del loro mondo, cosa vedevano, cosa osservavano, cosa ritenevano necessario riportare in un disegno. E poi confrontare le estetiche. Due idee di bellezza distanti trentacinquemila anni l'una dall'altra. Che cosa ci dicono sull'Uomo?

lunedì 19 marzo 2012

Parco della Martesana

Razzismo incrociato

Lunedì mattina, supermercato Pam nel cuore di via Padova, ore 8:48 del mattino. Sono in coda alla cassa con un vasetto di yogurt, ché devo ancora fare colazione. Davanti a me due ragazzi maghrebini stanno per pagare la loro spesa: una cassetta di birra e quattro bottiglie di vino; tra me e loro una signora con due tre cose per la casa, dietro di me la fila continua con altre signore più o meno anziane. I ragazzi cominciano a scherzare con il cassiere, un uomo sui trentacinque. Dopo alcune frasi di circostanza che strappano qualche mezzo sorriso, uno dei due:
– Eh, cosa bisogna fare.. il lavoro non c'è, è andato via, la cooperativa ha chiuso.. Rimane solo l'alcool! Il resto, solo Dio lo sa! –
L'altro passa al cassiere la tessera del supermercato.
Il cassiere: – Aspetta allora, ridammi le birre che c'è lo sconto, con la tessera. –
Il primo – Ma sì, è uguale! –
Il cassiere – No, non è uguale, costa meno! –
– Ma per quelli che non c'hanno soldi! Io ce li ho i soldi! Vedi, ho quindici euro, e quindici euro spendo per la mia colazione! Cosa li tengo a fare!–
– Finche c'è salah(??)
Insomma, dice una parola in arabo, poi continua in arabo a parlare con il suo compare. Poi dice qualcosa in francese e di nuovo si rivolge al cassiere:
– Visto, parlo francese, italiano..tutto! Solo il tedesco se me lo chiedi non lo so..! –
Il cassiere, didattico:
– Devi parlare italiano, capito? perché qui siamo in Italia. –
Riscuote l'approvazione di tutte le donne in fila (tranne me) che in coro sparso fanno – eh-eh..–
Il ragazzo:
– Ma io parlo arabo, inglese, francese..e tu non lo sai il tedesco? Devi parlare il tedesco!–
– No, io so l'italiano e mi basta. –
– L'italiano e il tedesco; io ho studiato la storia! –
Il cassiere: – Ma dovevi studiare l'italiano, non la storia –
Una signora cospira: – E la buona educazione! –
L'ultima battuta del primo dei due:
–Sì sì, vai dai germans.. E buon divertimento!–
Il cassiere: – Vedi te, io sto lavorando!–
Gli animi si scaldano, i mormorii si intensificano, parte qualche insulto dalle care vecchiette (in quel momento noto che quella dietro di me ha posato una bottiglia di whiskey sul nastro) e il cassiere si fa paladino della pace e con un gesto invita alla calma aggiungendo :
– Lasciamogli fare colazione in pace.. – Poi urla: – E' di là l'uscita! –
Loro, smarriti, proseguono fino a che le ripetute intimazioni del cassiere non li convincono (l'uscita consueta è bloccata da dei lavori in corso, ma non può essere evidente a nessuno e anch'io per un attimo mi chiedo se non li stia prendendo per il culo). Quando sono fuori, la signora davanti a me, ormai già sul punto di pagare dice cattivissima: – Rompono già le scatole alle nove del mattino? –
Il cassiere, sicuro dell'approvazione riscossa, continua i suoi commenti di circostanza. Io, rimasta in silenzio fino a quel momento per una irrefrenabile curiosità di vedere fino a che punto poteva evolvere la vicenda, rimango in silenzio, non ringrazio, non rispondo agli auguri di buona giornata ed esco per l'uscita giusta.
Attacchi di razzismo incrociato, ma il fuoco indigeno è più impietoso. Ecco l'artiglieria, ridotta ai concetti propulsori degli attacchi sferrati:
1) chi compra alcol al mattino e non è un italiano e ha meno di settant'anni, non merita rispetto;
2) chi è allo sbando perché ha perso il lavoro merita riprovazione e non solidarietà;
3) chi ti sta parlando in perfetto italiano, riuscendo a miscelare ironia in francese e in arabo, ma ha la pelle scura è comunque un ignorante;
4) gli italiani sono tutti fascisti;
5) i tedeschi sono tutti nazisti;
6) tedeschi e italiani erano alleati durante i rispettivi totalitarismi, per questo gli italiani se la intendono bene con i tedeschi;
7) gli stranieri rompono le scatole tutto il giorno, non-sapevo-quando-cominciassero-adesso-lo-so;
8) gli stranieri sono tutti uguali (alcolizzati, disoccupati, maleducati, ignoranti e scuri) gli italiani no, ma sono tutti educati e sanno bene l'italiano.
Una signora che vive nel mio palazzo, immigrata dalla Basilicata ormai più di quarant'anni orsono, è convinta che io sia straniera, benché le parli come mia mamma mi ha insegnato (mia mamma è italiana). Un giorno mi ha chiesto se sapevo cosa fosse la salsa. Un giorno si vantava con una sua amica: – Ci capiamo io e lei – riferendosi a me.
Quanto è difficile rendere elastica una mente?

domenica 4 marzo 2012

Io sono Nessuno

Ho iniziato un corso per diventare Antenna di quartiere, o meglio, mediatrice sociale diffusa. Un prolungamento del mio braccio di antropologa sulla realtà circostante che mi va proprio a genio. Durante un momento in cui spiegavamo le ragioni per cui eravamo lì ho detto la mia: sono qui perché penso sia un modo eccellente di radicarmi nel posto in cui abito e di mettere in pratica il mio ideale di cittadinanza, che è quella attiva e interessata a migliorare il luogo in cui si vive. Una ragazza più o meno della mia età mi accusa bruscamente di "pormi in un atteggiamento giudicatorio", perché ciò che dico implica che l'unico modo di essere cittadini sia quello e che non sono veri cittadini quelli che non vogliono/possono impegnarsi. Io rispondo "Sì, è esattamente quello che sto dicendo: sono convinta fermamente che per promuovere la democrazia bisogni occuparsi, avere cura della cosa comune, a partire dalla sua dimensione locale." E lei ribadisce:"Ma così stai giudicando." "Ebbene sì, sto giudicando; non ci trovo nulla di male in questo, non potrei vivere senza giudicare." Poco più tardi qualcuno evoca, come obiettivo auspicabile, la "sospensione del giudizio". La necessità di "evitare di giudicare" per non creare un clima intimidatorio nei confronti di chi vuole condividere le proprie esperienze era già stata menzionata da uno dei formatori in un momento precedente.
Ora, tutto questo, devo ammettere, mi ha turbato molto. Io mi sento intimidita. Se devo sospendere il giudizio non posso nemmeno mettermi a ridere per una cosa che mi sembra ridicola, o ironica, o demenziale. Perché ognuno di questi termini presuppone una valutazione, una decisione, un giudizio. Se il professore a lezione racconta che le feste sono l'elemento fondante anche delle rivoluzioni, per questo all'inizio della Rivoluzione Francese la prima cosa che si faceva erano le feste, io scoppio a ridere, ma questo non significa che ritiri la mia volontà di seguirlo nel suo ragionamento e capire dove vuole arrivare.
Secondo questo stesso professore l'identità esiste dove c'è memoria. La memoria si costruisce a sua volta selezionando alcuni eventi rispetto ad altri, scegliendoli come caratterizzanti e fondanti di una tradizione. La tradizione non fa come la Storia, che non privilegia nessun fatto e li considera tutti, perseguendo un'idea di oggettività e organicità del processo in questione. La tradizione preferisce dei fatti ad altri, e li attualizza richiamandoli dal passato attraverso il rito (da qui la festa, di cui sopra).
La memoria, e quindi l'identità, da questo punto di vista –aggiungo io – hanno origine da un giudizio. Eliminare il giudizio si può, anche se in modo limitato. Ma il prezzo da pagare è la perdita dell'identità.
Ma se mi trasformo in un contenitore vuoto che può accogliere tutto, con chi, e come posso dialogare?
Il dialogo prevede un Io e un Tu. Ma come posso essere Io se non scelgo un'opinione, se non decido un interesse. Come posso essere interessata ad un Tu?
Ernest Gellner, un antropologo britannico che era antipatico a tutti, e a cui più di un collega rispose in malo modo, chiamava questo atteggiamento "eccesso di spirito caritatevole". L'antropologo, quando riporta ciò che dicono gli appartenenti ad altre culture, non può evitare di esprimere un giudizio su quanto da essi asserito. Ciò che tende a fare l'antropologo, secondo Gellner, nel caso in cui ritenga che "l'indigeno" dica una cosa cattiva, senza senso, ignorante, etc, è di forzare il contesto, spingere ai limiti della logica il suo atteggiamento caritatevole, fino a tradurre l'asserzione indigena come qualcosa di buono, piacevole al gusto del lettore occidentale. E' l'atteggiamento che conduce al relativismo spinto, quello che giustifica tutto, quello che si limita a riportare (come se poi questo non comportasse problemi!). Per ritornare al mio professore: è l'atteggiamento che si può permettere lo storico. Ma il cittadino? Il cittadino, come la mia detrattrice di oggi, pensa che attraverso questo atteggiamento passi la tolleranza. Ma negando la nostra identità, che semplificando chiamo di Italiani, per essere coerenti dovremmo negare anche le identità degli altri. Da dove deriva questo paradosso? Secondo Gellner è quello mai risolto dei "fondamenti del liberalismo tollerante e comprensivo, di cui l'antropologia è parte e risale per lo meno al pensiero dell'Illuminismo". Se l'Illuminismo fondava l'Uomo nella Natura, allora doveva ammetterne una variabilità a fronte delle differenze di habitat, ma allo stesso tempo dichiararne l'Unità e l'Uguaglianza. Questo dilemma mai superato ritorna infatti oggi nei discorsi sulla coesione, sull'integrazione e sulla tolleranza. E ha questa conseguenza: "Gli antropologi sono stati poco liberali nei confronti della loro società e conservatori nei riguardi delle società che stavano osservando". Certo fissare l'Altro in una configurazione fissa e amovibile può fare comodo nel momento in cui bisogna pensarlo e rappresentarlo – "i marocchini fanno così, i peruviani pensano così"– ma non va a vantaggio della costruzione di un dialogo e di una mediazione. Ritorniamo a quel materno oblativo acritico e irriflessivo che non va a fondo e non fonda niente, ma può appagarci nell'illusione che siamo aperti e tolleranti. In realtà questa strada conduce verso il rifiuto di ogni forma di conoscenza.
Come il Ciclope ben sa, è meglio non fidarsi di Nessuno.

martedì 28 febbraio 2012

Hebler, colui che imprigionò gli Ebrei

Valentina, Fatima e Giulia stanno giocando silenziosamente a "Nomi, cose, città..", ovvero il gioco per cui peschi una lettera e devi individuare un elemento con quell'iniziale per ognuna di alcune categorie stabilite. Sono calme, chine sul banco quadrato, vigilando compostamente che nessuna sbirci le intuizioni dell'altra. Ad un certo punto Giulia si volta verso di me e mi chiede a bassa voce: – Come si chiama quello che aveva imprigionato tutti gli Ebrei?– Io temo di non avere capito e penso che si riferisca a qualche episodio biblico, quindi inizio a scervellarmi tra nomi di faraoni e profeti. Giulia mi viene incontro e mi dà un altro indizio: – Quello che c'entra con il giorno della Memoria..–
La guardo e le appiattisco, con la voce che scappa giù per la gola, il nome che cercava: Hitler.
Lei esulta e si china a scrivere. Ma vedo che pasticcia; mi guarda con un leggero panico: non sa come si scrive, non si ricorda come si chiama; scrive Hebler, poi cancella, poi riscrive l'acca ed esita. Infine pressata dallo scadere del tempo, aggiunge una successione casuale di lettere. Mi accorgo che la categoria è "film" e che prima di quella parola che sta per Hitler c'è scritto "la lista di".
Conclusione: Giulia dalla Giornata della Memoria ha imparato che un uomo cattivo ha imprigionato tutti gli Ebrei, che questo signore ha un nome impronunciabile che inizia per acca, e che è per questo che si fa la giornata della memoria.
Ad un moto di sdegno segue una considerazione a favore della piccola: i suoi genitori avranno forse trentacinque anni, non sono nati in Europa e i loro genitori probabilmente sono nati dopo il '45. I miei nonni avevano vissuto la guerra, ed era stata un'esperienza dirompente nelle loro vite. Le maestre a scuola ci invitavano ad intervistare i nostri nonni riguardo alla guerra, al fascismo. Ne parlavamo con i testimoni diretti, diventava concreto anche per noi. L'idea che un pericolo così grande abbia sfiorato le vite dei miei cari. Il diario di Anne Frank era il mio libro preferito quando avevo più o meno i suoi anni, e da esso dipende forse la mia vocazione alla scrittura. Oggi, a disposizione degli alunni, ci sono: le fotografie. Ma nessuno che parli per loro. Sull'onda di quale commozione Giulia potrebbe sentire il desiderio di leggere il Diario di una coetanea Ebrea nell'Olanda occupata?
Ricordare la Shoah serve a creare l'humus per rimanere sensibili ad ogni olocausto. E' un'occasione di elaborazione di contenuti; se vogliamo, un pretesto. Per educare a non riporre che una limitata fiducia nell'essere umano, che può superare la sua natura e diventare mostruoso. Per educare a non abbassare mai la guardia e contribuire ogni giorno al miglioramento dell'umanità.
Ma se viene meno la vicinanza temporale, il contatto con i testimoni, può ancora essere efficace? Se in educazione è sempre auspicabile fare leva su esperienze conosciute, famigliari per chi apprende, perché questo proposito dovrebbe venire meno qui? Forse insegnare la Shoah così come è stata insegnata a noi non è più possibile. Siamo a una svolta: svicolando, questa generazione non può più vedere cosa c'è dietro l'angolo. Jonathan sgrana gli occhi quando apprende che la play station e affini sono un'invenzione solo recente. Chiedere a dei piccoli individui che non hanno il senso della Storia di comprendere il senso della Shoah senza averne nemmeno un'esperienza di seconda mano è forse davvero troppo.
D'altronde come servirsi della gran quantità di genocidi  contemporanei e raggiungere la stessa astrazione, gli stessi contenuti universali che il discorso sulla Memoria permette, senza turbare troppo le giovanissime menti?

giovedì 9 febbraio 2012

Kaku il blog analogico

Se tornassimo indietro con l'immaginazione a che cos'era il mondo senza blog –volendo anche senza Facebook– riusciremmo di nuovo a stupirci della bellezza di pubblicare una frase, una riflessione, un articolo, ossia dire qualcosa che diventi immediatamente pubblico. La bellezza è data dalla facilità, dal mancato frapporsi di ostacoli. Un po' come se si fosse realizzato quel sogno segreto che la propria vita sia un film, bello da mostrare, interessante da osservare. 
Non è vero che non ci fossero, prima dell'era 2.0, media per esporre il proprio io direttamente al mondo: non c'è forse bisogno di questo elenco sommario: arte visiva, cinema, fotografia, letteratura.. Teoricamente i mezzi ci sono sempre stati. Ma ognuno di questi elementi appena nominati è un'istituzione, non ha molto di quella immediatezza di accesso e uso che compone la bellezza di cui sopra. E poi io stavo parlando di scrittura. E per quanto possiamo essere caritatevoli e ammettere che anche un disegno è scrittura, io continuo ad aver bisogno della parola scrittura usata nel suo senso più stretto e proprio. Ho appena imparato che in giapponese scrivere si dice kaku, parola che ha un'estensione a molte altre azioni tutte legate all'incisione, al tracciare segni, etc. Quindi comprende anche il significato di disegnare. Rientrerebbero da questo punto di vista nella serie di atti indicati dalla parola 'scrivere' anche le scritte politiche sui muri e i graffiti. 
Nel senso stretto che intendo usare qui invece, includerei le prime e lascerei fuori i secondi. I graffiti sono arte (visiva) murale. Le frasi politiche sui muri sono spesso delle trovate retoriche altamente raffinate,  vengono lette da molte persone e provocano una reazione. Ma difficilmente si susseguono con regolarità o sono collegabili ad un autore.
Il blog –o facebook, twitter..– ha un autore, non esaurisce in una volta ciò che vuole dire e ha una continuità periodica nel tempo.

Posso concludere che prima della rivoluzione 2.0 non esisteva questa forma di scrittura. Avvallando la posizione di chi ritiene che la scrittura plasmi la nostra forma mentis, però, posso dire che dopo questa rivoluzione è possibile un percorso a ritroso: adattare media obsoleti (nel senso di Luhman: cambia il rapporto con lo sfondo) a tecniche di espressione nuove: è ciò che ha fatto un blogger analogico di via Padova, che tiene aggiornato il suo blog analogico quotidianamente, usando come piattaforma le pensiline delle fermate dell'autobus, imperterrito incurante delle pulizie periodiche che rimuovono i suoi post. Vedere per credere: lo stile è quello del blog, l'interesse è il pubblico, l'autore è riconoscibilissimo.

lunedì 30 gennaio 2012

Stand-by

Kız Reporter è momentaneamente impegnata con gli esami universitari e si disinteressa quasi completamente del mondo, abbracciata alla sua scrivania.
Si scusa per il disagio e il senso di assenza provocato.

sabato 21 gennaio 2012

Riconoscimenti

Migliaia di turchi radunati a Parigi, migliaia di turchi radunati a Istanbul. Trova le differenze.
I primi protestano contro la legge approvata alla camera e che sarà in senato lunedì che stabilisce che negare il genocidio armeno del 1915 è un reato. "Non si sono mai visti tanti turchi tutti insieme" ammette il presidente di un'organizzazione culturale turco-parigina.
I secondi commemorano un omicidio, quello di Hrant Dink, giornalista turco-armeno, direttore di Agos, vittima di un'aggressione a Istanbul nel 2007, il cui lungo processo si è concluso in questi giorni, e che inverosimilmente rintraccia come unici responsabili l'allora diciassettenne Oğun Samast e il suo istigatore Yasin Hayal.
I partecipanti gridano tutti insieme "Siamo tutti Hrant Dink, siamo tutti armeni" in turco, in armeno, in curdo...col cuore gonfio aspettano che sia fatta giustizia, che siano riconosciute le vere responsabilità dell'omicidio. Che si possa davvero considerare concluso il processo.
Ha parlato di giustizia in Turchia anche il Commissario per i diritti umani del Consiglio d'Europa Thomas Hammarberg, riferendosi proprio al caso Dink, in particolare alla sproporzione tra le forze impiegate per la detenzione dei sospetti nel caso Ergenekon e la facilità con cui sono stati rilasciati gli imputati del processo Dink, ben 19.
Il commissario paventa un possibile intervento della Corte Europea dei diritti umani se la Turchia non farà qualcosa per limitare il peso dello stato sulla giustizia.
In effetti sembra che le politiche degli ultimi tempi vadano in senso diametralmente opposto, soprattutto a partire dalla svolta rappresentata dalle recenti riforme costituzionali promosse dal governo Erdoğan.

martedì 17 gennaio 2012

Non solo uomini davanti alla legge

L'omosessualità ci tira giù intorpiditi dal letto, scuote violentemente le nostre coperte sui nostri corpi infreddoliti e ci costringe a camminare a testa in giù e rivedere tutti i nostri assunti sulla vita e sul mondo. La sua esistenza è la prova che dobbiamo per forza rendere più complesso il nostro modo di pensare, che non è solo un esercizio raffinato di acutezza mentale. L'essere omosessuale è una scelta radicale di lotta per la democrazia, anche proprio malgrado. Sulla condizione dei diritti Lgbt si misura lo stato dei diritti di tutta la cittadinanza.
Per questo è fondamentale includere i diritti legati al genere e all'orientamento sessuale nella legge fondamentale dello Stato, la Costituzione. E si guardi bene che non è solo un aggiungere. Se i diritti in questione sono taciuti, non si può prevedere con quanta affidabilità verranno applicati gli altri. E' una modifica dello sguardo sia da parte di chi la legge la fa, sia da parte di chi la deve rispettare.
In Turchia la lotta per la modifica dell'articolo 10 della Costituzione (Anayasa) sta avendo una vivace accelerazione: le proposte sono state inviate alla Grande Assemblea Nazionale Turca (Tbmm) e prevedono la rinuncia a concetti come "pubblica moralità"a cui si fa riferimento per determinare i diritti dei cittadini. Si tratta di un concetto vago e mutevole nella Storia, perciò riferibile a sempre diversi individui, puntualizza l'associazione Kaos Gl, di Ankara. La loro proposta è di chiamare le cose con il loro nome e quindi riscrivere l'articolo 10 come segue:
Diritti fondamentali di ciascun individuo. Ogni individuo è uguale davanti alla legge, indipendentemente da lingua, etnia, colore della pelle, genere, orientamento sessuale, identità dei genere, visione politica, credo filosofico, religione, setta, stato civile, età, disabilità, etc. (sic
L'attuale elenca "lingua, razza, colore, genere, pensiero politico, credo filosofico, religione, setta e simili ragioni..". Un'aggiunta del 2004 precisa la parità tra uomini e donne di fronte alla legge e nel 2010 si aggiunge un riferimento a disabili e invalidi di guerra e civili.
Questo non è naturalmente l'unico modo per parlare di discriminazione di genere e sessuale: c'è sempre il cinema. Anche se, come si domanda Emrah Güler sulle pagine di Hürriyet, non dovesse esistere un cinema gay turco, nel senso di fatto da cineasti gay che parlino di tematiche gay, il nuovo lavoro dei registi Caner Alper e Mehmet Binay, Zenne Dancer, sarebbe un buon inizio per inaugurare una serie. Il film si basa sulla storia vera del primo omicidio d'onore conosciuto perpetrato nei confronti di un omosessuale. Ahmet Yıldız fu ucciso nel 2008 dal proprio padre, mentre usciva da un bar. Zenne sono i danzatori maschi di danza del ventre.


Intanto le donne mostrano un muso duro di sdegno contro un processo (Fethiye davası) che riguarda un caso di stupro collettivo nella città di Muğla. Mercoledì scorso attiviste della Piattaforma delle Donne di Ankara si sono presentate ad una conferenza della Lega degli Avvocati di Ankara nel momento in cui prendeva la parola il difensore degli imputati, l'avvocato İlker Gürkan. Urlando slogan contro una "giustizia maschile che non è una giustizia"e innalzando cartelli che recitavano"non proteggete lo stupro"hanno decisamente fatto un po' di sano rumore. La ripresa del processo è prevista per il prossimo 17 febbraio.
Guarda il video della protesta qui.

sabato 14 gennaio 2012

Esempio di decostruzione


Fener Balat from Fatih Pınar on Vimeo.

La mia nuova libreria

La mia nuova libreria ha due ripiani stabili, volendo tre, è di legno chiaro e sa di arance rancide. Per questo, prima di disporvi i libri nuovi, ho lasciato un bastoncino di incenso a consumarsi per ovviare all'inconveniente. E' stato un vero affare, al mercato di via Benedetto Marcello. Non c'era ormai più nessuno, solo un altro cliente sbirciava tra le cassette di legno accatastate ma non cercava una libreria, bensì da mangiare. E' riuscito a riempire una cassetta di gambi di carciofo e qualche foglia. Spero che sia tornato a casa soddisfatto quanto me.
Già sorridevo sull'autobus, e non ero l'unica. Due o tre signori arabi ridevano senza pudore e mimavano con le mani il carico che mi portavo appresso, un bambino cicciottello peruviano mi sorrideva come si sorride ad un compagno di giochi e uno dei condomini filippini carico di borse della spesa è corso ad aprirmi il portone e ha fischiato al fratello che è corso a sua volta ad aprirmi il cancelletto interno.
A casa ho lavato le mie due cassette sotto la doccia per staccare le bucce di arancia marce. Una volta asciutte le ho sistemate una sopra l'altra e ci ho messo i miei libri nuovi.
Immaginavo l'uomo del mercato che cucinava con la stessa soddisfazione i suoi gambi di carciofo.

Passa la bellezza

L'anno scorso, era estate, sedevo con un amico sul muretto di un cimitero affacciato sul Bosforo, prendendo fiato dopo una lunga e piacevolissima passeggiata, scendendo da Çengelköy, e ammiravamo con tristezza la costa europea di Istanbul e la sua silhouette deturpata dagli orrendi palazzi di Levent. Zafer mi raccontava di un film che faceva riflettere su quanto l'esistenza dell'uomo sulla terra sia qualcosa di provvisorio e tutto sommato irrilevante. Uno di quei film catastroficamente ambientati in un futuro devastato, in cui la specie umana spariva e la natura riprendeva con calma, con i suoi tempi, tutto quello di cui l'uomo l'aveva privata. Osservavamo il ponte sul Bosforo e lo immaginavamo catturato dalla vegetazione, ridicolo e inutile.
Oggi questa stessa silhouette potrebbe essere rimessa in discussione: il ministro della Cultura e del Turismo Ertuğrul Günay, resosi conto della bruttezza dell'orizzonte della città rispetto a quello proposto in cartolina, avvisa che potrebbero esserci delle demolizioni. L'industria edilizia mica costruisce e basta, dopotutto. Tutto fa soldi. E più l'edificio è grande! E allora perché non abbattere lo stadio del Beşiktaş, che sta proprio dietro al palazzo Dolmabahçe, e che giace sui tunnel sotterranei che dal palazzo fuoriescono. Certo, allora era possibile costruire su un reperto archeologico, perché c'era il partito unico, dice Günay, e per di più in rotta con tutto il passato Ottomano, ma adesso.. certo tutto è cambiato. Lunga vita al Sultano.

Guerra all'opposizione

Incredibile operazione della polizia turca che ha perquisito da ieri mattina all'alba uffici e abitazioni per sospetti legami con il Kck, l'organizzazione delle comunità curde teorizzata da Abdullah Öcalan, considerata dal governo ufficiale terroristica e fuorilegge. Le perquisizioni hanno riguardato 123 persone.
Il risultato è stato di oltre 40 persone detenute che l'agenzia Dicle elenca così:
In Istanbul, BDP Zeytinburnu Branch Chair Nezir Erdemli; BDP City Executives Doğan Çiftçi and Nazire Güneş, Esenyurt Co-Chair Şafak Özanlı and İlyas Demir; Esenyurt Branch Executive Tahsin Karçık; Esenyurt Branch staffer İsmail Çelik; Bağcılar Branch Co-Chair Zekiye İlbasan; Pendik Branch Vice-Chair Kemal Dülger; Esenler Former Chair Celal Alphan; BDP Center Education Committee Member Berat Birtek; BDP staffers Ramazan Yıldız, Neslihan Güner, Bişar Uzun, Rıza Taşdelen; in İzmir-Bornova BDP Branch Executive Fuat Aras; in Diyarbakır 'Eğitim Branch member Gülsüm Çelik; Diyarbakır BDP staffer Zeki Arşimet; in Antep BDP Former Executive Meryem Akgül; in Mersin, Resul Aşkan and BDP Assembly Member Gülistan Balkaş; in Muş BDP Assembly Member Emrullah Bingöl; in Ağrı-Doğubayazıt Municipal Council Nazan Bağlan Söğüt; in Ankara, KESK Consultant İsmet Aslan, BDP Vice-Co-Chair and former Van Deputy Fatma Kurtulan, former BDP Central Committee Member and former Chair of pro-Kurdish Party DEHAP Tuncer Bakırhan; BDP staffer Mahmut Polat; DİHA Ankara reporter Murat Çiftçi.
Come si può vedere la maggior parte sono direttori di circoli del partito Bdp (Barış ve Demokrasi Partisi), presente in parlamento. Fra i parlamentari, anche Leyla Zana si è vista perquisire la casa, e sembra che il suo pc sia stato sequestrato durante l'operazione.
Sono sempre più importanti, se così si può dire, le energie investite dal governo di Recep Tayyıp Erdoğan per liberarsi dei propri avversari. Secondo il primo ministro si tratta solo di un atto dovuto di applicare la legge laddove non viene rispettata. Ma un'operazione così clamorosa spaventa l'opinione pubblica, soprattutto se associata ad un altro clamoroso arresto recentissimo, quello di İlker Başbuğ.

lunedì 9 gennaio 2012

Si apre la gara d'appalto per il terzo ponte sul Bosforo

Sfuma il progetto del ponte sullo Stretto, allora si mettono in coda per un altro ponte colosso, gli italiani.
Ci prova l'Astaldi, impresa di costruzioni che domani parteciperà insieme ad altre 17 imprese da tutto il mondo (Giappone, Spagna, GB, Russia, Austria e naturalmente Turchia) alla gara di attribuzione del progetto del terzo ponte sul Bosforo. Un disastro per l'ecumene Istanbul.
L'Astaldi, con una sede ad Ankara, non è nuova alla Turchia, per la quale ha già realizzato l'autostrada che collega Istanbul alla capitale; inoltre nella stessa Istanbul ha in corso l'importante progetto della metropolitana che collegherà Kadıköy con la periferia est della città oltre alla costruzione del ponte sul Corno d'Oro.
Il progetto, già pronto da agosto, non si limita al ponte, ma anche all'autostrada che vi passerà sopra, insinuandosi nell'ultima riserva verde del Bosforo (clicca sul link sopra), e poi non si potrà più tornare indietro.

Pace in casa..

Che Davutoğlu sia stato un po' incauto se ne sono accorti anche gli Sciiti, che oggi hanno fatto sentire la loro riprovazione nei confronti dei tanti atteggiamenti discriminatori del governo nei loro confronti.
Se il ministro degli Esteri parla di come prevenire il conflitto fra sunniti e sciiti in Iraq e in Iran, nel suo Paese questo sembra essere ormai acceso, almeno nelle parole. Selahattin Özgündüz, il leader dei Caferi, gruppo sciita turco che prende il nome dal sesto imam, Jafar al-Sadiq, condanna la politica assimilatoria dello Stato, che si comporterebbe esso stesso come una setta, la setta sunnita. Nella sua polemica Özgündüz chiama a raccolta gli Aleviti che, benché si distanzino dall'Islam sunnita e sciita tradizionale, condividono con gli sciiti, oltre all'attesa del dodicesimo imam, la stessa polemica contro l'imposizione culturale sunnita da parte dello Stato.
Le contraddizioni non hanno mai fine da queste parti.
Per quanto riguarda il dramma di Uludere, da segnalare è l'istituzione, da parte del parlamento, di una sottocommissione per indagare sui tragici eventi avvenuti al confine con l'Iraq, in cui un bombardamento dell'esercito ha ucciso 35 ragazzi.

sabato 7 gennaio 2012

Mersin ha la sua cemevi

Una piccola vittoria per gli Aleviti di Mersin, la cui amministrazione comunale ha deciso di coprire le spese per il loro luogo di culto, la cemevi. Non è una conquista da poco se si pensa se il culto alevita non è nemmeno riconosciuto come religione ufficiale, costringendo i praticanti a scrivere sulla propria carta di identità "musulmano", cosa in cui non si riconoscono.
Riconosciuta dunque come luogo di culto dal consiglio cittadino, si attende ora l'approvazione definitiva del governatore regionale.
La cemevi è molto più di un luogo di preghiera: è un luogo di ritrovo, di socializzazione, di produzione di cultura, di musica, poesia, eventi. Sicuramente il sostegno comunale contribuirà a dare forte slancio a questo suo compito. La presenza degli aleviti dal mio punto di vista è garanzia di freschezza, di apertura di vedute, in grado di contrastare il crescente oscurantismo di mentalità e costumi nella società turca. Certo gli aleviti non sono i soli, ma forse l'unica forza ad essere insieme progressista e legata alle tradizioni.

Il patto di Davutoğlu con gli Sciiti

Il ministro degli Esteri Ahmet Davutoğlu è rientrato ieri dalla sua visita al presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad, presso cui si è trattenuto due giorni.
Esito dell'incontro è l'impegno a lavorare insieme contro le minacce che provengono da sempre più violente opposizioni fra gruppi religiosi, non solo in Iran, ma in tutti quei territori dove l'Iran espande la sua influenza: Siria, Iraq, Libano. Quella che nel corso dell'incontro fra i due politici è stata definita la "Mezzaluna sciita". Secondo Davutoğlu essa potrebbe trasformarsi da minaccia, come appare allo stato attuale, perché acuisce i conflitti interni, a risorsa vantaggiosa, ma solo se Turchia e Iran si impegneranno congiuntamente in questa direzione.
La Turchia infatti è stata perfino indicata dall'omologo iraniano di Davutoğlu Ali Akbar Salehi come luogo ideale per riprendere i negoziati sul nucleare con l'Occidente.
Ma cosa intende il ministro degli Esteri turco per "collaborazione" con gli Sciiti? Forse una dichiarazione di intenti è rappresentata dall'incontro con il leader iracheno sciita Moqtada al-Sadr: d'accordo i due su una politica di amministrazione interna che sia rappresentativa di tutte le forze etniche e politiche presenti nel paese, in modo da evitare l'inasprirsi dei conflitti.
Naturalmente, oltre alle esplosioni a Baghdad di pochi giorni fa (che sembrano essere causate proprio da questo rinnovato conflitto fra sciiti e sunniti nel Paese), parlano di come "sistemare" le popolazioni curde irachene pur continuando a garantirsi l'accesso alle risorse petrolifere dell'area. Non sa Davutoğlu che proprio oggi le madri di Uludere piangono i loro figli? Non proprio un'immagine di pace e armonia interna, non c'è che dire.

venerdì 6 gennaio 2012

Arrestato İlker Başbuğ, ex capo delle forze armate

  E' stato arrestato questa mattina alle 9 il generale İlker  Başbuğ,  fino all'anno scorso capo dell'esercito turco – che in Turchia non coincide con il ministro della Difesa – accusato di complottare contro il governo Erdoğan. 
L'inchiesta che ha portato il gen. Başbuğ agli arresti rientra nell'ambito della cosiddetta Ergenekon, örgüt, "l'organizzazione" ultranazionalista che da sempre si oppone al governo islamico-conservatore dell'Akp (Partito della Giustizia e dello Sviluppo). Secondo quanto riporta Taraf, la svolta nell'inchiesta è avvenuta nel momento in cui due indagini parallele si sono unite: una riguardava accuse di propaganda nera che provenivano da siti internet presumibilmente gestiti dall'esercito, la cosiddetta “İnternet Andıcı“, mentre l'altra tendeva a sgominare i responsabili del tentativo di togliere il potere ad un governo eletto visto come minaccia reazionaria. 
Dopo sette ore di interrogatorio con la stampa nazionale accampata fuori, Başbuğ è stato infine accusato di dirigere un'organizzazione sovversiva e di tentativo di colpo di stato.
Sempre dalle pagine di Taraf, Ahmet Altan si interroga sul motivo per cui tanta scrupolosità nell' inseguire la trasparenza, in vista di una svolta democratica nella gestione della politica turca, non sia perseguita in ogni affare oscuro che avviene nel Paese, come in merito alla recente strage di curdi a Uludere, al confine con l'Iraq, dove 35 ragazzi, niente più che piccoli contrabbandieri, sono stati uccisi da un raid dell'esercito turco. Finora di ufficiale c'è solo che il bombardamento è seguito ad un ordine dell'intelligence. Ma il Mit, il servizio segreto turco, ha negato di aver dato l'ordine. Allora chi ha dato l'ordine, perché? Tutto scompare tra le maglie di quello che viene definito il potere profondo.