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martedì 22 maggio 2012

Risalendo le briciole della festa



Scegliamo di inaugurare la nostra camminata con i luoghi dedicati a Fausto e Iaio: possono essere i giardini di piazza Durante da poco dedicati a loro due, “per sempre ragazzi”, vittime della violenza fascista nel 1978; oppure la strada in cui la morte li ha cercati mentre tornavano a casa quel giorno: via Mancinelli, oggi luminosa, piena di murales con i loro ritratti, che inizia con il deposito dell'Atm, con i tram che riposano sulle rotaie, che non smettono il loro fascino pur nel trambusto della velocità odierna. La forza rotaia, tutta potenziale. Un che di antico, oggi lentissimi. Un moderno del passato. E termina su un'abbazia di mattoni rossi, la Casoretto, che se si svicola svela la chiesa annessa, un sagrato dove uomini e donne sulla cinquantina scambiano battute divertenti, un campo sportivo che gronda di mamme e bambini e un cinema che non ospita ormai che ortiche ed erbacce. Con il caldo e l'afa malsopportati durante tutta la giornata, o il tedio del neon di un interno universtario, è bello ondeggiare insieme alle fronde fitte degli alberi di viale Lombardia. Se si decide di tirare dritto fino a piazza Piola, si possono osservare queste bellissime villette in stile liberty tutte verdi e piene di giardini. Intervallate da post-moderne geometrie e scaloni.
Cerchiamo una bottega per acquistare qualcosa che ci dia ristoro. Troviamo solo un supermercato e passando oltre ci accorgiamo che nasconde una targa commemorativa dei martiri della Resistenza, all'ingresso del parcheggio, sopra all'uscita di servizio, seminascosta dalla grondaia. Poco più avanti si apre la bellissima piazza Leonardo da Vinci, che dà il nome al campus del Politecnico, preceduto da una chiesa abbandonata coperta di piastrelline di maiolica verde su cui sono affisse una gigantografia di Songoku e un altro faccione. L'area pedonale dove c'è anche il teatro s. Leonardo ha delle panche, su cui un libraio ambulante ha disposto i suoi libri e ora, prima che smonti canticchiando Ohi ohi, campo d'aria riesce a vendermi senza sforzo alcuno Modelli di cultura di Ruth Benedict edizione Feltrinelli 1979 per due euro. Viene tutti i giorni tranne il sabato e la domenica e quando piove. Entriamo nell'edificio antistante: c'è una piazza coperta con dei tavoli dove gli studenti spremono le ultime energie della giornata in discussioni davanti a libri e pc, e ci infiliamo in una sala dove c'è l'esposizione Lezione di Galileo Galilei sulla struttura dell'Inferno. Finché il custode non ci caccia fuori che deve chiudere. Un cantiere interrompe la strada e avvolge una libreria. Annesso c'è il Centro Balneare Estivo Romano. Questo cantiere, aperto dal 2003 per la costruzione di un parcheggio sotterraneo, ha provocato danni agli edifici circostanti; una vicenda che è costata “la testa” a due funzionari comunali, colpevoli di non aver vigilato sui lavori come di dovere. Torniamo alla piazza. La festa di agraria si è appena consumata e i superstiti giacciono qua e là sul prato o giocano a pallone o si fanno burle. Sembra una a me più familiare piazza Verdi bolognese su un prato milanese. Restiamo un po' lì sdraiati poi attraversiamo la piazza per intero, salutando le sculture. Attraversiamo la strada e scopriamo un'incantevole pista di pattinaggio. 
Su viale Romagna troppo grande ci intrufoliamo in una via laterale, Mangiagalli e poi Dubini, attirati da un cartello vendesi apposto su un caseggiato che sembra un pezzo di centritalia, un po' Romagna davvero, e infine una serie di porte colorate abbinate ai fiori che espongono. Sbuchiamo fuori e i cortili delle case popolari ci trascinano per un momento nei ricordi dell'infanzia; con la vista: le reti di ferro e gli orti al posto del cemento; con l'olfatto: certi odori di cibo e di panni al vento che mai viene spazzato via. All'angolo un'insegna di un panettiere è ancora accesa: è il segno che dobbiamo cenare. Il panettiere Magdi dopo le 19 fa lo sconto su pizze e focacce. Oggi ha preparato cinquemila panini per gli studenti di agraria in festa, di cui parla con molto affetto. D'altronde anche lui ha tre figli di cui due all'università. Ci sediamo su due divani di cemento sulla banchina alberata del viale e consumiamo le nostre focacce mentre il traffico ci scorre ai due lati. Più oltre andiamo a far visita ai ragazzi delle scuole superiori che hanno occupato delle splendide ville Aler in piazza Ferravilla che giacevano in completo stato di malora e abbandono. Lisa ci saluta all'ingresso, ci fa entrare e ci conduce in ogni stanza e anfratto visitabile. Presto qui sorgerà una sala prove, un laboratorio di falegnameria e cartonatura e nascerà un bambino. Ritorniamo su viale Romagna e piazza Leonardo da Vinci. Il ritorno a casa è fra le piccole vie che sbucano fuori a Lambrate. Siamo stanchi e ci fermiamo a fare la pipì al Birrificio Lambrate, che troviamo molto bello e decidiamo di tornarci presto. La città universitaria quando chiude è deserta. È un susseguirsi di edifici che dormono col vento. Ma dopo il Birrificio ricomincia a brulicare la vita fino alla stazione di Lambrate.

domenica 4 marzo 2012

Io sono Nessuno

Ho iniziato un corso per diventare Antenna di quartiere, o meglio, mediatrice sociale diffusa. Un prolungamento del mio braccio di antropologa sulla realtà circostante che mi va proprio a genio. Durante un momento in cui spiegavamo le ragioni per cui eravamo lì ho detto la mia: sono qui perché penso sia un modo eccellente di radicarmi nel posto in cui abito e di mettere in pratica il mio ideale di cittadinanza, che è quella attiva e interessata a migliorare il luogo in cui si vive. Una ragazza più o meno della mia età mi accusa bruscamente di "pormi in un atteggiamento giudicatorio", perché ciò che dico implica che l'unico modo di essere cittadini sia quello e che non sono veri cittadini quelli che non vogliono/possono impegnarsi. Io rispondo "Sì, è esattamente quello che sto dicendo: sono convinta fermamente che per promuovere la democrazia bisogni occuparsi, avere cura della cosa comune, a partire dalla sua dimensione locale." E lei ribadisce:"Ma così stai giudicando." "Ebbene sì, sto giudicando; non ci trovo nulla di male in questo, non potrei vivere senza giudicare." Poco più tardi qualcuno evoca, come obiettivo auspicabile, la "sospensione del giudizio". La necessità di "evitare di giudicare" per non creare un clima intimidatorio nei confronti di chi vuole condividere le proprie esperienze era già stata menzionata da uno dei formatori in un momento precedente.
Ora, tutto questo, devo ammettere, mi ha turbato molto. Io mi sento intimidita. Se devo sospendere il giudizio non posso nemmeno mettermi a ridere per una cosa che mi sembra ridicola, o ironica, o demenziale. Perché ognuno di questi termini presuppone una valutazione, una decisione, un giudizio. Se il professore a lezione racconta che le feste sono l'elemento fondante anche delle rivoluzioni, per questo all'inizio della Rivoluzione Francese la prima cosa che si faceva erano le feste, io scoppio a ridere, ma questo non significa che ritiri la mia volontà di seguirlo nel suo ragionamento e capire dove vuole arrivare.
Secondo questo stesso professore l'identità esiste dove c'è memoria. La memoria si costruisce a sua volta selezionando alcuni eventi rispetto ad altri, scegliendoli come caratterizzanti e fondanti di una tradizione. La tradizione non fa come la Storia, che non privilegia nessun fatto e li considera tutti, perseguendo un'idea di oggettività e organicità del processo in questione. La tradizione preferisce dei fatti ad altri, e li attualizza richiamandoli dal passato attraverso il rito (da qui la festa, di cui sopra).
La memoria, e quindi l'identità, da questo punto di vista –aggiungo io – hanno origine da un giudizio. Eliminare il giudizio si può, anche se in modo limitato. Ma il prezzo da pagare è la perdita dell'identità.
Ma se mi trasformo in un contenitore vuoto che può accogliere tutto, con chi, e come posso dialogare?
Il dialogo prevede un Io e un Tu. Ma come posso essere Io se non scelgo un'opinione, se non decido un interesse. Come posso essere interessata ad un Tu?
Ernest Gellner, un antropologo britannico che era antipatico a tutti, e a cui più di un collega rispose in malo modo, chiamava questo atteggiamento "eccesso di spirito caritatevole". L'antropologo, quando riporta ciò che dicono gli appartenenti ad altre culture, non può evitare di esprimere un giudizio su quanto da essi asserito. Ciò che tende a fare l'antropologo, secondo Gellner, nel caso in cui ritenga che "l'indigeno" dica una cosa cattiva, senza senso, ignorante, etc, è di forzare il contesto, spingere ai limiti della logica il suo atteggiamento caritatevole, fino a tradurre l'asserzione indigena come qualcosa di buono, piacevole al gusto del lettore occidentale. E' l'atteggiamento che conduce al relativismo spinto, quello che giustifica tutto, quello che si limita a riportare (come se poi questo non comportasse problemi!). Per ritornare al mio professore: è l'atteggiamento che si può permettere lo storico. Ma il cittadino? Il cittadino, come la mia detrattrice di oggi, pensa che attraverso questo atteggiamento passi la tolleranza. Ma negando la nostra identità, che semplificando chiamo di Italiani, per essere coerenti dovremmo negare anche le identità degli altri. Da dove deriva questo paradosso? Secondo Gellner è quello mai risolto dei "fondamenti del liberalismo tollerante e comprensivo, di cui l'antropologia è parte e risale per lo meno al pensiero dell'Illuminismo". Se l'Illuminismo fondava l'Uomo nella Natura, allora doveva ammetterne una variabilità a fronte delle differenze di habitat, ma allo stesso tempo dichiararne l'Unità e l'Uguaglianza. Questo dilemma mai superato ritorna infatti oggi nei discorsi sulla coesione, sull'integrazione e sulla tolleranza. E ha questa conseguenza: "Gli antropologi sono stati poco liberali nei confronti della loro società e conservatori nei riguardi delle società che stavano osservando". Certo fissare l'Altro in una configurazione fissa e amovibile può fare comodo nel momento in cui bisogna pensarlo e rappresentarlo – "i marocchini fanno così, i peruviani pensano così"– ma non va a vantaggio della costruzione di un dialogo e di una mediazione. Ritorniamo a quel materno oblativo acritico e irriflessivo che non va a fondo e non fonda niente, ma può appagarci nell'illusione che siamo aperti e tolleranti. In realtà questa strada conduce verso il rifiuto di ogni forma di conoscenza.
Come il Ciclope ben sa, è meglio non fidarsi di Nessuno.

martedì 28 febbraio 2012

Hebler, colui che imprigionò gli Ebrei

Valentina, Fatima e Giulia stanno giocando silenziosamente a "Nomi, cose, città..", ovvero il gioco per cui peschi una lettera e devi individuare un elemento con quell'iniziale per ognuna di alcune categorie stabilite. Sono calme, chine sul banco quadrato, vigilando compostamente che nessuna sbirci le intuizioni dell'altra. Ad un certo punto Giulia si volta verso di me e mi chiede a bassa voce: – Come si chiama quello che aveva imprigionato tutti gli Ebrei?– Io temo di non avere capito e penso che si riferisca a qualche episodio biblico, quindi inizio a scervellarmi tra nomi di faraoni e profeti. Giulia mi viene incontro e mi dà un altro indizio: – Quello che c'entra con il giorno della Memoria..–
La guardo e le appiattisco, con la voce che scappa giù per la gola, il nome che cercava: Hitler.
Lei esulta e si china a scrivere. Ma vedo che pasticcia; mi guarda con un leggero panico: non sa come si scrive, non si ricorda come si chiama; scrive Hebler, poi cancella, poi riscrive l'acca ed esita. Infine pressata dallo scadere del tempo, aggiunge una successione casuale di lettere. Mi accorgo che la categoria è "film" e che prima di quella parola che sta per Hitler c'è scritto "la lista di".
Conclusione: Giulia dalla Giornata della Memoria ha imparato che un uomo cattivo ha imprigionato tutti gli Ebrei, che questo signore ha un nome impronunciabile che inizia per acca, e che è per questo che si fa la giornata della memoria.
Ad un moto di sdegno segue una considerazione a favore della piccola: i suoi genitori avranno forse trentacinque anni, non sono nati in Europa e i loro genitori probabilmente sono nati dopo il '45. I miei nonni avevano vissuto la guerra, ed era stata un'esperienza dirompente nelle loro vite. Le maestre a scuola ci invitavano ad intervistare i nostri nonni riguardo alla guerra, al fascismo. Ne parlavamo con i testimoni diretti, diventava concreto anche per noi. L'idea che un pericolo così grande abbia sfiorato le vite dei miei cari. Il diario di Anne Frank era il mio libro preferito quando avevo più o meno i suoi anni, e da esso dipende forse la mia vocazione alla scrittura. Oggi, a disposizione degli alunni, ci sono: le fotografie. Ma nessuno che parli per loro. Sull'onda di quale commozione Giulia potrebbe sentire il desiderio di leggere il Diario di una coetanea Ebrea nell'Olanda occupata?
Ricordare la Shoah serve a creare l'humus per rimanere sensibili ad ogni olocausto. E' un'occasione di elaborazione di contenuti; se vogliamo, un pretesto. Per educare a non riporre che una limitata fiducia nell'essere umano, che può superare la sua natura e diventare mostruoso. Per educare a non abbassare mai la guardia e contribuire ogni giorno al miglioramento dell'umanità.
Ma se viene meno la vicinanza temporale, il contatto con i testimoni, può ancora essere efficace? Se in educazione è sempre auspicabile fare leva su esperienze conosciute, famigliari per chi apprende, perché questo proposito dovrebbe venire meno qui? Forse insegnare la Shoah così come è stata insegnata a noi non è più possibile. Siamo a una svolta: svicolando, questa generazione non può più vedere cosa c'è dietro l'angolo. Jonathan sgrana gli occhi quando apprende che la play station e affini sono un'invenzione solo recente. Chiedere a dei piccoli individui che non hanno il senso della Storia di comprendere il senso della Shoah senza averne nemmeno un'esperienza di seconda mano è forse davvero troppo.
D'altronde come servirsi della gran quantità di genocidi  contemporanei e raggiungere la stessa astrazione, gli stessi contenuti universali che il discorso sulla Memoria permette, senza turbare troppo le giovanissime menti?