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martedì 31 maggio 2011

Mavi Marmara-fratellanza a Taksim

"Aspetta Palestina, la Mavi Marmara sta arrivando"
I manifesti oggi erano già scomparsi dai muri prima abbondantemente tappezzati. Ma evidentemente ero solo io ad essermi persa il dato che riguardava l'ora: l'appuntamento era per le 21 e 30 a Tünel per camminare fino a Taksim, dove poi li ho trovati. Uniti per la Mavi Marmara e la sua nuova missione, contro l'embargo imposto da Israele a Gaza, nel primo anniversario dell'attacco in cui persero la vita alcuni attivisti turchi. Non so se esagero, ma saranno stati almeno trentamila gli uomini, le donne e i bambini radunati davanti ad un podio da cui parlavano gli organizzatori della manifestazione: la fondazione islamica Ihh. Adesso penso di avere finalmente chiaro cosa significhi essere fieramente religiosi. Tanta potenza e tanto fragore nell'urlare gli slogan, a dire la verità, mi hanno un po' spaventata. Crocicchi o schiere di donne chiuse nel loro niqab nero, come unico colore la striscia di pelle scoperta intorno agli occhi e la fascia verde con i versi del corano intorno alla testa. Uomini con la barba e la taqiya in testa, e ovunque uno sventolare di bandiere palestinesi, bandiere verdi con le scritte in arabo, fiaccole, bandiere turche, striscioni dell'Ihh. Io sono impressionata ma mi sento al sicuro, anche se non sarei nient'altro che un'infedele là in mezzo. Ma d'altronde non tutti in quella piazza erano così radicali. Lo erano senz'altro in molti, ad esempio quelli che sventolavano la bandiera nera della jihad palestinese che si rifà a Fatih Shikaki, o quelli che urlavano "Allah è grande" e "Allah è uno solo", e lasciatemi dire che ogni lotta fatta in nome della religione per me è fondamentalista. Anche se non sembrano curarsene gli altri infedeli che salgono sul palco a dire che anche loro sono per la causa, e tra loro ci sono uno scandinavo che parla in inglese, un italiano che esordisce con "Restiamo umani", in ricordo di Vittorio Arrigoni, e un inglese che parla arabo; il tutto prontamente tradotto in turco. La folla esulta, si scalda. Intorno non vedo polizia..mi sembra strano dato che solo ieri, per una manifestazione di venti donne operaie delle poste che rischiano il licenziamento, erano schierati una cinquantina di poliziotti. Quando mi allontano dalla piazza noto i poliziotti: un gruppetto di una quindicina che sbadigliano da una strada laterale.

lunedì 30 maggio 2011

Il vigile urbano

Non mi era mai capitato a Istanbul di vedere un vigile urbano dirigere il traffico. E' successo oggi mentre attraversavo per l'undicesima volta (perché dimenticavo a casa qualcosa o perché ero rimasta chiusa fuori) la stessa strada. Una strada a tre corsie -più o meno, naturalmente non sono tracciate- per ogni senso di marcia con spartitraffico, senza attraversamento pedonale e tantomeno senza semaforo per i pedoni. Ma unico punto obbligato per l'attraversamento. Divento sempre più scaltra ogni volta che attraverso. Mentre, tutta presa nella foga animalesca di uscire dal groviglio di auto, sono riuscita ad approdare sullo spartitraffico, mi sono resa conto che un rumore emergeva su quello dei clacson e dei motori vecchi: il fischietto del vigile urbano. C'era qualcosa di strano però nella sua strategia: stava lasciando defluire il traffico proveniente dalla strada laterale salvo poi fermarlo a metà per mettersi a fischiare con più vigore alle auto ferme al rosso della grande carreggiata agitando la mano per farle passare. Quando la sirena di due volanti della polizia mi ha riempito le orecchie ho capito il perché di quella mossa apparentemente insensata. Passate loro, infatti, il vigile urbano ha ribloccato le auto ferme al rosso e ha fatto ripartire le altre che vi si immettevano. E ha fatto passare i pedoni. Solo allora ho notato il fulcro della scena: un'auto ferma in mezzo alle corsie, cofano aperto e motore fumante; nessuno dentro. Dopo aver attraversato ho visto l'uomo che correva con un vaso da fiori colmo d'acqua urlando "ce l'ho ce l'ho". L'aveva preso in prestito dalle zingare che vendono i fiori in piazza. E' corso a dar da bere al radiatore, mentre il traffico aveva ricominciato a muoversi. L'ho cercato, ma non l'ho visto più: il vigile urbano si era già dileguato.

 

sabato 24 aprile 2010

Infanzia sovrana

Ieri in Turchia correva la Festa Nazionale del Bambino. A Istanbul viene celebrata con una grande sfilata in Istiklal Caddesi, e diverse manifestazioni hanno luogo in tutte le scuole. Nel pomeriggio ero seduta sulla scalinata dell'associazione per cui lavoro tentando di strimpellare una chitarra, quando tre chiassose ragazzine sui 13 anni passano lì davanti al ritorno da scuola. Una delle tre interrompe il chiacchiericcio forsennato e intima alle altre di fermarsi perché c'è una che suona la chitarra. Io replico che in realtà non so suonare, ma pare che a loro vada bene così. Indossano un gonnellino bianco a pieghe su collant bianche e scarpe bianche, una maglietta un po' meno uniforme e una casacchina azzurra appesa al dito e lasciata cadere dietro le spalle. Chiedo loro se è la divisa della scuola. Loro rispondono che è quella speciale per la festa del bambino. Mi dicono che l'hanno festeggiata a scuola partecipando ad uno spettacolo e suonando. Adesso sono stanche e festanti si dirigono verso casa, portandosi dietro il cicaleccio tipico di quell'età.

La giornata del bambino, che più precisamente si chiama la Festa della Sovranità Nazionale e del Bambino (Ulusal Egemenlik ve Çocuk Bayramı), è stata voluta dal padre della nazione Mustafa Kemal, per commemorare la fondazione della grande assemblea nazionale avvenuta lo stesso 23 aprile del 1921. La festa è stata poi in seguito dedicata al bambino. L'apoteosi della nazione giunge a livelli altissimi, in accordo con la tendenza tutta turca a fare le cose in grande. Ogni anno alcuni bambini vengono selezionati e sostituiscono le alte cariche dello stato nelle loro funzioni. E non si tratta di una sostituzione solo nominale, in quanto i figli della nazione hanno il potere di promulgare leggi. Naturalmente non sono eletti dal popolo e provengono dagli alti ranghi della società.

Tutto questo mi fa venire in mente i carnevali medievali in cui venivano capovolti i ruoli sociali per vivere un giorno alla rovescia: i ricchi facevano i poveri e i poveri governavano la città. Ma certo, non è la stessa cosa: qui c'è di mezzo l'orgoglio di una nazione.

mercoledì 14 aprile 2010

Barış hemen şimdi!

Cosa ci faccio seduta per terra in piazza Taksim a scandire slogan per la causa curda?



Lunedì Ahmet Türk è stato vittima di un attacco fascista. Allora eccomi con l'aiuto del dizionario a decifrare i motti. E a ripeterli a mia volta. Donne voluminose sollevano un braccio e distendono indice e medio e danno del fascista allo Stato, all'AKP e ai lupi grigi. Urlano “indipendenza”. Stefania è di fianco a me e dice: “Guardare queste donne qui in questo momento e ripensare a quello che possono aver passato mi mette i brividi”. Stefania ha partecipato ad un'inchiesta sociologica in giro per le famiglie curde del quartiere di Kayışdağı, e ha ascoltato troppe volte i loro racconti di arresti, soprusi, torture e uccisioni. “In ogni famiglia c'è un dramma.”

Gli uomini orgogliosi che rigirano il tasbih oggi chiedono le dimissioni del governatore di Samsun.

Perché non ha fatto niente per evitare che un gruppo di esaltati riuscisse a raggiungere con un pugno il naso di Ahmet Türk rompendoglielo. La polizia stava a guardare.

La gente è in piazza e chiede la pace, subito! E intanto, una simile protesta, in un'altra città, ha portato alla morte un ragazzino di 14 anni. L'immagine della madre che tiene in una mano le scarpe del figlio sembra aver colpito particolarmente i quotidiani che riportano tutti la stessa foto.

Ad un certo punto dalla moschea adiacente la piazza, il muezzin, che fino a pochi attimi prima sedeva quieto accanto alla finestrella ad osservare la folla, intona il suo richiamo alla preghiera. Allora i manifestanti si siedono, in silenzio, e aspettano che finisca. Finalmente riesco a guardare la dimensione dell'assembramento, per un attimo, prima che qualcuno mi tiri per un braccio e mi ordini di sedermi. Poi l'idea dell'adunata sediziosa pare piacere e il servizio d'ordine gira fa i manifestanti invitandoli a mantenere seduti. Di fronte alla folla ci sono una quindicina di cameramen e fotografi. Dietro di loro i poliziotti. Molti. E due panzer. Uno di loro ad un certo punto accende il motore e si muove verso la folla. Poi si ferma e rimane lì, a sporcare l'aria, col motore acceso. “Siamo tutti curdi, siamo tutti Ahmet Türk”, rispondono loro. Incontriamo un amico, Yakup, appena uscito dall'università. Si siede con noi e ci aiuta a capire gli slogan. Gli chiediamo: “Come stai?” e lui serissimo: “Bene, ma arrabbiato.”

Nel Dicembre dello scorso anno, a Bulanık, nella regione del lago di Van, due uomini furono uccisi dai colpi d'arma da fuoco di un negoziante esasperato dalla folla in protesta per la chiusura del DPT Demokratik Toplum Partisi, partito filo-curdo accusato di avere contatti con il PKK.

In questi giorni si sta svolgendo a Samsun, sul mar Nero, il processo mosso nei suoi confronti. Ahmet Türk, leader del disciolto partito, si trovava lì come osservatore e aveva appena rilasciato una dichiarazione alla stampa.