Ufficio anagrafe di Milano Zona 2, via Padova 118.
Una grande sala d'attesa, stracolma. Ottengo il numero 77; il tabellone indica il 26. Metto la mente in modalità "pazienza" e decido che quella sarebbe stata una buona occasione per osservare la gente che abita nel mio nuovo quartiere. Faccio una rapida statistica dei presenti: 85% di stranieri, 15% di italiani, di cui due su tre sono anziani.
Mi siedo accanto ad una signora asiatica (filippina?). Una conoscente si avvicina e le due cominciano a parlare ad alta voce nella loro lingua e io rimango in mezzo.
Da quando, ragazzina, mi sono scoperta piacevolmente incuriosita dalla novità dell'arrivo di persone di tante lingue e colori, non avevo mai pensato di poter provare un giorno questa sensazione.
Mi guardo intorno e cerco gli italiani presenti. Scorgo una signora anziana con lo sguardo perso nel vuoto. Me la figuro venti anni fa nello stesso ufficio mezzo vuoto che chiacchiera in dialetto con le coetanee.
Mi balena nell'animo un fastidio. Leggero, fugace. Ma l'ho visto bene. Provo vergogna, cerco di razionalizzare. E' razzismo questo forse? Sarà stata una pazzia fantascientifica della mia immaginazione ma per un attimo mi sono sentita in minoranza nel mio Paese.
E adesso rifletto. A guardare bene, in quella stanza non c'era un 15% di italiani e una restante percentuale di stranieri, ma un 15% di cinesi, un 15% di marocchini, un 15% di bengalesi e così via. Ognuno di loro provava forse la mia stessa sensazione di straniamento.
Ciononostante non posso fare a meno di comparare la sala d'attesa di ieri con una festa per le famiglie vista a Bruxelles, in cui tutte le componenti culturali della società belga erano ben riconoscibili, eppure tutti parlavano francese e tutti partecipavano alla stessa festa.
Questo "tutti" è una costruzione, sicuramente si trattava solo di famiglie con figli piccoli, non so dire cosa ne fosse dei venti-trentenni, essendo rimasta così poco a Bruxelles. E poi parlare il francese ha un significato ben preciso nella società belga, legato a dinamiche anche di repressione culturale e forse di assimilazione per i migranti. Ma a nessuno era vietato di essere contemporaneamente musulmano, rom o africano. E la festa era davvero gioiosa, attraversandola si aveva la sensazione che il dialogo fra culture fosse possibile.
Mi piace avere questo punto di vista critico sull'argomento, perché penso che sia davvero importante e delicato, e se si vuole davvero inaugurare un dialogo che non sia un fantoccio messo su frettolosamente per venire incontro ad un'urgenza, quella di una democrazia idealizzata, bisogna davvero affinare il proprio sguardo e il proprio linguaggio e non attestarsi su ingenuità contraddittorie e facilmente smontabili dal razzista di turno.
Mi riferisco ad un atteggiamento di certa sinistra intellettualoide che propugna un'idea di sé di apertura mentale e progressismo. Si sposa la causa migrante e proletaria senza mai averla vissuta in prima persona, senza indagare gli interstizi, le implicazioni minime. Migranti e proletari diventano loro malgrado semplici concetti per una proiezione brillante di sé. Risultando così sfruttati per l'ennesima volta, dal radical chic di turno. Da chi ha le mani pulite e candide come il culetto di un neonato. In realtà andando a vedere da vicino assomiglia più che altro ad una specie di turismo grossolano e pietista.
Da questo punto di vista potrei vantarmi di vivere in un quartiere multietnico, dicendo in giro che è una figata, che tutti si vogliono bene e non ci sono problemi e i leoni non mordono come in certe raffigurazioni bibliche dei testimoni di Geova.
PUBBLICITA' (antropologica)
Andando a studiare il Diverso, l'Altro all'università si affinano tutti gli strumenti cognitivi per capire l'Altro, per pensarlo, per non farsi trarre in inganno dai tranelli della nostra mente così strutturalmente votata al pregiudizio. Il rischio è però quello di diventare troppo raffinati per non apparire ridicoli, effeminati e insensati alle persone alle quali ci prefiggevamo di avvicinarci. Allora capita di trovarsi in un luogo abitato da stranieri e sentirsi molto cool, parlare con un operaio e raccontare il fatto come se stessimo scrivendo una cartolina. Il buon senso antropologico aiuta a svelare l'inganno e tiene tutti quanti in guardia. In questo senso vivere qui è per me davvero un'occasione, per purificarmi davvero dal pregiudizio, chiamare le cose con il loro nome e intraprendere un dialogo sincero con la multiculturalità in cui sono immersa.
"..metterci nei loro panni, un'impresa snervante che non riesce mai perfettamente." C.Geertz
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giovedì 10 novembre 2011
martedì 21 settembre 2010
Dove si fa il çay
Eccoci finalmente al confine orientale della Turchia. Fra pochi chilometri inizia la Georgia, e precisamente l'Adjaristan, regione autonoma a maggioranza musulmana, con capitale Batum.
Siamo ad Arhavi, sul Mar Nero, uno centri della cultura Laz. A chiunque tu chieda, ti risponde di essere Laz. È incredibile la gioia e la facilitá con cui si inizia a chiacchierare; in un attimo siamo trasportati da un intera famiglia con il loro furgone in cima al loro villaggio, sulle montagne dove si coltiva il té.
Lassú incontriamo altri proprietari, come il vecchio dagli indescrivibili baffetti seduto davanti al suo deposito del té aspettando che ''i russi'' tornino con il raccolto della giornata.
Qui tutti li chiamano russi, o addirittura sovietici, ma in realtá sono georgiani, e vengono da diverse cittá, da Batum, o addirittura da Tbilisi, attirati dal buon guadagno: 50 TL al giorno.
Sono tutti accovacciati in fila dal mattino presto in cittá e aspettano che qualcuno passi a raccoglierli e portarseli su in montagna, nelle piantagioni. Rimangono qui tre mesi, dormono in hotel. Non parlano turco, o molto poco. Il piú anziano di loro parla bene e ci racconta un po'. Uno di loro ci insegue e ci chiede quanto vogliamo per portarlo in Italia.
Qui c'é una grande serenitá, tutti si salutano cortesemente per la strada, anche salendo e scendendo dalla montagna. Si lamentano un po' dell'apertura dei confini con la Russia, e ne parlano come se si trattasse di un avvenimento recente. Da quel momento sono arrivate la prostituzione e i suoi mali, dicono. Eppure qui l'unica presenza straniera siamo noi e questi lavoratori. Certo la situazione é diversa in cittá come Hopa o Trabzon.
Vorremmo visitare la Çaykur, una delle fabbriche del té. Ma gli addetti alla sicurezza ci dicono che é vietato, come lo è per i georgiani lavorarci dentro. Per loro c'é solo la piantagione.
Siamo ad Arhavi, sul Mar Nero, uno centri della cultura Laz. A chiunque tu chieda, ti risponde di essere Laz. È incredibile la gioia e la facilitá con cui si inizia a chiacchierare; in un attimo siamo trasportati da un intera famiglia con il loro furgone in cima al loro villaggio, sulle montagne dove si coltiva il té.
Lassú incontriamo altri proprietari, come il vecchio dagli indescrivibili baffetti seduto davanti al suo deposito del té aspettando che ''i russi'' tornino con il raccolto della giornata.
Qui tutti li chiamano russi, o addirittura sovietici, ma in realtá sono georgiani, e vengono da diverse cittá, da Batum, o addirittura da Tbilisi, attirati dal buon guadagno: 50 TL al giorno.
Sono tutti accovacciati in fila dal mattino presto in cittá e aspettano che qualcuno passi a raccoglierli e portarseli su in montagna, nelle piantagioni. Rimangono qui tre mesi, dormono in hotel. Non parlano turco, o molto poco. Il piú anziano di loro parla bene e ci racconta un po'. Uno di loro ci insegue e ci chiede quanto vogliamo per portarlo in Italia.
Qui c'é una grande serenitá, tutti si salutano cortesemente per la strada, anche salendo e scendendo dalla montagna. Si lamentano un po' dell'apertura dei confini con la Russia, e ne parlano come se si trattasse di un avvenimento recente. Da quel momento sono arrivate la prostituzione e i suoi mali, dicono. Eppure qui l'unica presenza straniera siamo noi e questi lavoratori. Certo la situazione é diversa in cittá come Hopa o Trabzon.
Vorremmo visitare la Çaykur, una delle fabbriche del té. Ma gli addetti alla sicurezza ci dicono che é vietato, come lo è per i georgiani lavorarci dentro. Per loro c'é solo la piantagione.
domenica 20 giugno 2010
Picnic fuori porta. Vietato fotografare
Questo fine settimana abbiamo provato l'esperienza di prendere l'auto e guidare fino a che non siamo usciti fuori da Istanbul. Vomitati fuori dalla metropoli che credevamo interminabile, ci siamo trovati a salterellare su strade inusitate e malridotte a salutare le mucche acquatiche dal finestrino, per poi approdare in questo centro abitato da polizia, educatori e militari; un centro di riabilitazione per giovani e bambini in cui non ci siamo fermati per raggiungere subito i ragazzini al pic-nic organizzato sulla riva di uno stagno in una foresta protetta; uno spazio in cui i ragazzini erano controllati a vista dalle guardie. I bambini avevano numerose cicatrici sulle braccia. L'ho realizzato quando una di loro si è presa la briga di salutarci uno ad uno con due baci sulle guance e un hoş geldiniz, pantaloni bianchi maglietta bianca, capelli neri con un ciuffo maschile, un sorriso di pace e tutti quei tagli, piccoli, ordinati, uno sotto all'altro. Poi ho guardato altre braccia e ho capito perché appena arrivati la prima cosa che gli educatori ci hanno detto è stata di fare attenzione ai taglierini che ci eravamo portati per il laboratorio di creta.
Ci siamo seduti sui tavoli e abbiamo mangiato dei fagioli, dell'insalata di yogurt e aneto, del pane e dell'anguria, guardandoci attorno sull'attenti come animaletti, nel caos dei tamburelli dei canti e dei balli. Delle ragazzine Rom fieramente ballando marcavano la loro appartenenza etnica e la loro superiorità nel canto, nel ballo nel ritmo, nei suoni con le mani, nella sensualità. Le ragazzine volevano le sigarette, volevano baciare, volevano sposare. Volevano scappare nel bosco. Gli psicologi, uno biondo che pare fosse un turco-russo, una donna con i capelli perfetti castano chiaro occhi azzurri, guardavano seri dai lati del marasma; talvolta partecipavano alle danze. Una ragazzina dallo sguardo triste e gli occhi verdi e grandi ha deciso che sarei stata io la sua mascotte e mi trascinava ovunque: dal bagno al banco con le angurie alla danza. Lo stesso è successo ai miei compagni: ognuno di loro era stato adottato. Lo yabanci-pet, cosa piuttosto diffusa tra i bimbi di qui. Abbiamo iniziato il nostro laboratorio di danza ma è durato pochissimo: tre esercizi di raffinata ricercatezza non potevano competere con Kazim Koyuncu e altre popolarissime canzoni da ballare. Le ragazze hanno apprezzato, i giochi di fiducia, di contatto, di abbandono del corpo, ma poi via a sgambettare in riga e schioccare le dita.
Un'esperienza indimenticabile, importante, con la quale ho incontrato da vicino una realtà di cui sentivo solo parlare. I bambini che hanno problemi con la giustizia, ma che ritirano la pagella, ma che a differenza dei bambini di un qualunque dove, quando commenti i voti ti rispondono “Ma tu non crucciarti, che questo è un mio problema, non il tuo!”.
Ci siamo seduti sui tavoli e abbiamo mangiato dei fagioli, dell'insalata di yogurt e aneto, del pane e dell'anguria, guardandoci attorno sull'attenti come animaletti, nel caos dei tamburelli dei canti e dei balli. Delle ragazzine Rom fieramente ballando marcavano la loro appartenenza etnica e la loro superiorità nel canto, nel ballo nel ritmo, nei suoni con le mani, nella sensualità. Le ragazzine volevano le sigarette, volevano baciare, volevano sposare. Volevano scappare nel bosco. Gli psicologi, uno biondo che pare fosse un turco-russo, una donna con i capelli perfetti castano chiaro occhi azzurri, guardavano seri dai lati del marasma; talvolta partecipavano alle danze. Una ragazzina dallo sguardo triste e gli occhi verdi e grandi ha deciso che sarei stata io la sua mascotte e mi trascinava ovunque: dal bagno al banco con le angurie alla danza. Lo stesso è successo ai miei compagni: ognuno di loro era stato adottato. Lo yabanci-pet, cosa piuttosto diffusa tra i bimbi di qui. Abbiamo iniziato il nostro laboratorio di danza ma è durato pochissimo: tre esercizi di raffinata ricercatezza non potevano competere con Kazim Koyuncu e altre popolarissime canzoni da ballare. Le ragazze hanno apprezzato, i giochi di fiducia, di contatto, di abbandono del corpo, ma poi via a sgambettare in riga e schioccare le dita.
Un'esperienza indimenticabile, importante, con la quale ho incontrato da vicino una realtà di cui sentivo solo parlare. I bambini che hanno problemi con la giustizia, ma che ritirano la pagella, ma che a differenza dei bambini di un qualunque dove, quando commenti i voti ti rispondono “Ma tu non crucciarti, che questo è un mio problema, non il tuo!”.
lunedì 5 aprile 2010
Yabancı
“Yabancı” è la prima parola di turco che ho udito quando quattro anni fa sono entrata con il treno nella prima stazione decorata con le sfavillanti bandiere rosse con la luna e la stella bianca, dopo aver passato il confine con la Grecia ed essere piombata in un mare di girasoli e verde brillante. Tutti i backpackers provenienti dall'Europa erano stati a loro volta impacchettati nell'ultimo vagone del treno, lontano dai turchi, lontano dai greci. Alla prima stazione turca, un gruppo di uomini in divisa, i capistazione. Dal loro gruppo si levò una voce, e una parola: “yabancı” (si pronuncia yabangi, con la g dolce). Dopo un breve momento di esultanza per aver compreso il significato della prima parola udita, mi resi conto della situazione: un vagone ghetto di stranieri e una punta di disprezzo in quel modo di indicarci: gli stranieri, eccoli là, come in un gabbione da circo, scorrere tra le varie stazioni e quei girasoli, con quella curiosità, sempre uguale, già vista mille volte, quella faccia schiusa, il mento ammorbidito dallo stupore, subito catturato da una macchina fotografica esibita con vergogna. E poi eccoli in giro per la città, a voltare la faccia dappertutto, camminando come papere. E invece guarda questi turchi che eleganza, guardali saltare su e giù dagli autobus alle fermate ai lati della tangenziale, con l'autista impaziente che non aspetta che anche il secondo piede sia a terra. Guardali appoggiare le valigie vicino alla porta dell'autobus lasciata aperta per il caldo, senza timore che possa cadere fuori, e poi davvero non cade. Guardali girare con i vassoi sul traghetto a distribuire çay e ricordarsi alla perfezione di chi doveva ancora pagare. Guardali con quelle lunghe scarpe a punta ballare al ritmo dell' erbane ed è come se si accomodassero sull'immenso sofà del mondo, guarda come si chiamano da una parte all'altra della strada e si intendono immediatamente. E questi yabancılar che vanno in crisi con le loro valigie, che vogliono pagare subito e si fanno fregare come allocchi. Yabanci è la parola prima, ma mi accompagna fino ad oggi, per la seconda volta a İstanbul, per un altro mezzo anno. Ancora qui a dimenticarmi di tutto, del mio bagaglio, della forma che ho preso, delle cose che ho imparato, per trovarmi intirizzita, goffa e indifesa seduta in autobus dopo aver risposto alla telefonata di mia madre, riagganciare e riscoprire, invece del silenzio attutito dell'autobus, le risatine dei ragazzini che occupano i posti dietro di me e delle due studentesse trentenni davanti a me. E fra una risatina e l'altra riecheggia una parola. Yabanci.
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