Ho iniziato un corso per diventare Antenna di quartiere, o meglio, mediatrice sociale diffusa. Un prolungamento del mio braccio di antropologa sulla realtà circostante che mi va proprio a genio. Durante un momento in cui spiegavamo le ragioni per cui eravamo lì ho detto la mia: sono qui perché penso sia un modo eccellente di radicarmi nel posto in cui abito e di mettere in pratica il mio ideale di cittadinanza, che è quella attiva e interessata a migliorare il luogo in cui si vive. Una ragazza più o meno della mia età mi accusa bruscamente di "pormi in un atteggiamento giudicatorio", perché ciò che dico implica che l'unico modo di essere cittadini sia quello e che non sono veri cittadini quelli che non vogliono/possono impegnarsi. Io rispondo "Sì, è esattamente quello che sto dicendo: sono convinta fermamente che per promuovere la democrazia bisogni occuparsi, avere cura della cosa comune, a partire dalla sua dimensione locale." E lei ribadisce:"Ma così stai giudicando." "Ebbene sì, sto giudicando; non ci trovo nulla di male in questo, non potrei vivere senza giudicare." Poco più tardi qualcuno evoca, come obiettivo auspicabile, la "sospensione del giudizio". La necessità di "evitare di giudicare" per non creare un clima intimidatorio nei confronti di chi vuole condividere le proprie esperienze era già stata menzionata da uno dei formatori in un momento precedente.
Ora, tutto questo, devo ammettere, mi ha turbato molto. Io mi sento intimidita. Se devo sospendere il giudizio non posso nemmeno mettermi a ridere per una cosa che mi sembra ridicola, o ironica, o demenziale. Perché ognuno di questi termini presuppone una valutazione, una decisione, un giudizio. Se il professore a lezione racconta che le feste sono l'elemento fondante anche delle rivoluzioni, per questo all'inizio della Rivoluzione Francese la prima cosa che si faceva erano le feste, io scoppio a ridere, ma questo non significa che ritiri la mia volontà di seguirlo nel suo ragionamento e capire dove vuole arrivare.
Secondo questo stesso professore l'identità esiste dove c'è memoria. La memoria si costruisce a sua volta selezionando alcuni eventi rispetto ad altri, scegliendoli come caratterizzanti e fondanti di una tradizione. La tradizione non fa come la Storia, che non privilegia nessun fatto e li considera tutti, perseguendo un'idea di oggettività e organicità del processo in questione. La tradizione preferisce dei fatti ad altri, e li attualizza richiamandoli dal passato attraverso il rito (da qui la festa, di cui sopra).
La memoria, e quindi l'identità, da questo punto di vista –aggiungo io – hanno origine da un giudizio. Eliminare il giudizio si può, anche se in modo limitato. Ma il prezzo da pagare è la perdita dell'identità.
Ma se mi trasformo in un contenitore vuoto che può accogliere tutto, con chi, e come posso dialogare?
Il dialogo prevede un Io e un Tu. Ma come posso essere Io se non scelgo un'opinione, se non decido un interesse. Come posso essere interessata ad un Tu?
Ernest Gellner, un antropologo britannico che era antipatico a tutti, e a cui più di un collega rispose in malo modo, chiamava questo atteggiamento "eccesso di spirito caritatevole". L'antropologo, quando riporta ciò che dicono gli appartenenti ad altre culture, non può evitare di esprimere un giudizio su quanto da essi asserito. Ciò che tende a fare l'antropologo, secondo Gellner, nel caso in cui ritenga che "l'indigeno" dica una cosa cattiva, senza senso, ignorante, etc, è di forzare il contesto, spingere ai limiti della logica il suo atteggiamento caritatevole, fino a tradurre l'asserzione indigena come qualcosa di buono, piacevole al gusto del lettore occidentale. E' l'atteggiamento che conduce al relativismo spinto, quello che giustifica tutto, quello che si limita a riportare (come se poi questo non comportasse problemi!). Per ritornare al mio professore: è l'atteggiamento che si può permettere lo storico. Ma il cittadino? Il cittadino, come la mia detrattrice di oggi, pensa che attraverso questo atteggiamento passi la tolleranza. Ma negando la nostra identità, che semplificando chiamo di Italiani, per essere coerenti dovremmo negare anche le identità degli altri. Da dove deriva questo paradosso? Secondo Gellner è quello mai risolto dei "fondamenti del liberalismo tollerante e comprensivo, di cui l'antropologia è parte e risale per lo meno al pensiero dell'Illuminismo". Se l'Illuminismo fondava l'Uomo nella Natura, allora doveva ammetterne una variabilità a fronte delle differenze di habitat, ma allo stesso tempo dichiararne l'Unità e l'Uguaglianza. Questo dilemma mai superato ritorna infatti oggi nei discorsi sulla coesione, sull'integrazione e sulla tolleranza. E ha questa conseguenza: "Gli antropologi sono stati poco liberali nei confronti della loro società e conservatori nei riguardi delle società che stavano osservando". Certo fissare l'Altro in una configurazione fissa e amovibile può fare comodo nel momento in cui bisogna pensarlo e rappresentarlo – "i marocchini fanno così, i peruviani pensano così"– ma non va a vantaggio della costruzione di un dialogo e di una mediazione. Ritorniamo a quel materno oblativo acritico e irriflessivo che non va a fondo e non fonda niente, ma può appagarci nell'illusione che siamo aperti e tolleranti. In realtà questa strada conduce verso il rifiuto di ogni forma di conoscenza.
Come il Ciclope ben sa, è meglio non fidarsi di Nessuno.
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