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martedì 7 gennaio 2014

Tra parentesi, che, per inciso che è davvero inciso, tra parentesi non è. Illusioni ottiche in etnografia.


Oggi sveglia alle cinque, per essere alle sette alla fermata dei taxi di Fetih Mahallesi, dove mi aspettava S. per prendere insieme il taxi che lo avrebbe portato al lavoro. Avevo pensato che fare un'intervista in taxi avrebbe reso l'idea della distanza, del cambiamento delle abitudini di una persona dopo la demolizione della sua casa e del suo posto di lavoro. Per paura di non riuscire ad arrivare in tempo parto con troppo anticipo e arrivo mezz'ora prima dell'appuntamento. È completamente buio. Faccio qualche ripresa della stazione dei taxi. Mi avvicino. Dico che aspetto un amico e mi siedo su una panchina all'aperto. Parlo con i tassisti, che mi invitano ad entrare nella stanzetta in cui si danno il cambio e bevono tè. Insistono perché non vogliono che prenda freddo. Mi dicono: –Guarda che da noi è buono il tè!–
Sono curiosi di sapere che cosa ci faccio lì con una macchina fotografica alle 6:30 del mattino. Uno di loro mi chiede se sono giornalista o simili –“gatezeci, mazeteci”– io mi limito a dire che faccio una ricerca all'università sul kentsel dönüşüm. Lui fa: – Ooo! –
Poi quando arriva S. mi dicono: –Ah, a lui dovevi fare l'intervista!!– lo conoscono bene, dato che sono nove mesi che fa avanti e indietro tutti i giorni in taxi, domenica compresa.
S. è molto fiducioso, soddisfatto e grato. Certo c'è l'ombra del dispiacere per la distruzione di una comunità di vicinato, della libertà di chi possiede la casa in cui abita. Ma veramente non sembra sconvolto dalla trasfigurazione del suo paesaggio personale.
Che faccio? La mia tesi non viene confermata, perlomeno nel semplice incontro verbale. Se faccio un filmato di S. che va in taxi al lavoro, è chiaro che voglio mostrare quanto si è fatta difficile per lui la vita. Ma se lui sembra contento? Ok, faccio vedere che è contento, che dice bene del progetto di sviluppo del suo quartiere. Ma lo stravolgimento del suo paesaggio personale, che gli consentiva di abitare il mondo e non perdersi, non viene rilevato, non l'ho rilevato, non esiste. O forse esiste ma non è così che viene fuori. Franco La Cecla, nel suo libro “Perdersi” arguisce che l'attitudine dell'abitare un luogo, e quindi anche il suo opposto, il perdersi, appunto, appartenga alla sfera dell'inconscio (non posso riprendere esattamente il testo perché l'ho dimenticato sull'autobus – ho perso “Perdersi”) e che di conseguenza non può essere spiegata, quindi indagata con i normali strumenti di ricerca. Per questo avevo pensato che il filmico avrebbe potuto rivelare qualcosa che sfuggiva. Ma come?


La mia preoccupazione non è solo di tipo “detectiva”, ma anche militante: il mio scopo è fare rendere conto dei pericoli, per la qualità della vita degli esseri umani, legati a questo processo di normalizzazione delle forme dell'abitare. Lo voglio fare osservando da vicino cosa una comunità si trova a vivere quando viene interessata da un progetto di sviluppo di tali dimensioni.
Allora le ragioni della mera ricerca etnografica e quelle politiche si sovrappongono. Ma sono davvero distinte? Cos'è un'etnografia? È la storia del mio rapporto con un luogo, per il tempo che mi prefiggo di studiarlo. É la storia della mia visione del mondo applicata ad un luogo. È la storia del mio abituarmi a quel luogo, del mio fare habit, del mio iniziare ad abitarlo. Non sono sicura che esista, nella ricerca, qualcosa di diverso. La realtà etnografica è questo. Se voglio qualcosa di diverso devo smettere di fare l'etnografa e cercarmi un lavoro a Fikirtepe, cercare di farmi degli amici, etc.
Allora la mia preoccupazione circa il riuscire o meno a mostrare la realtà etnografica con questo viaggio in taxi viene meno, ed è tutta una questione di onestà intellettuale non dare a pensare, magari con il montaggio, che le cose stiano diversamente.
La sera ho incontrato gli attivisti di Pangea Ekoloji, in particolare una ragazza, Eda (nome fittizio), che si è dimostrata molto disponibile e interessata al mio argomento di ricerca.
Le ho detto che mi stupisco continuamente del fatto che le persone con cui parlo siano mediamente contente delle conseguenze del progetto di sviluppo, perché anche se un po' sballottate, alla fine ricevono uno o più appartamenti di lusso. Lei mi guarda con espressione di sfiducia e dice: – Sì, ma non lo sai che non è proprio così, che col piffero ricevono la casa.–
Io rispondo che anche a me sembra fin troppo bello per essere vero, però dalle testimonianze raccolte finora sembra proprio così. Ho parlato con abitanti, con le compagnie edilizie e con un'associazione di cittadini, benché appaia un po' di parte, un soggetto ambiguo che forse riceve dei benefici dal suo assumere il ruolo di “rappresentante dei cittadini”, facendo gli occhi dolci alle compagnie di costruzione, assicurando che non ci sono problemi e sono tutti felici.
Eda mi parla come se io poverina fossi persa senza contatti. In realtà i contatti che mi mancano sono quelli “contro”, i detrattori del progetto di sviluppo del quartiere e le loro motivazioni. Uno dei motivi per cui avevo deciso di interessarmi a Fikirtepe è che sapevo dell'entusiasmo dei suoi abitanti, quindi questa mancanza di contestazione è stata un po' una conferma. Eda era lì a garanzia del fatto che un fronte “contro” esiste, e siamo d'accordo che presto ne sarò anch'io a conoscenza. Quella è la sua visione di Fikirtepe, che esclude i consenzienti, le compagnie edilizie, gli operai dei cantieri e i sogni degli abitanti di una casa più moderna. La vera Fikirtepe per lei è quella che lotta, e io, che di questa sua Fikirtepe non so niente, sono “persa senza contatti” e non so ancora nulla su Fikirtepe.
Inizialmente avevo contattato Eda per effettivamente allargare i miei contatti. Vale a dire Eda sarebbe stata fuori dalla mia ricerca o avrebbe occupato la posizione che occupo io, quella di chi osserva. Invece questo suo atteggiamento la rende immediatamente interessante anche in un altro modo, perché essa stessa è promotrice di una pratica sul luogo, quella di investire il luogo della propria ideologia (comunismo militante, Gezi Parkı). Tra parentesi anche se tra parentesi non è, questo contraddice la mia impressione iniziale circa il disinteresse degli abitanti del centro che hanno partecipato alle rivolte di maggio per quello che succede nella periferia. Eda dice: –A Tarlabaşı non abbiamo potuto organizzare granché perché quelli sono tutti nomadi, non sono attaccati al luogo, per loro non fa differenza abitare qui o là.–
Nomino Sulukule, ma non si sofferma molto. Ma c'è anche la fretta che sta per cominciare la riunione degli attivisti. Ne riparleremo presto.



mercoledì 25 dicembre 2013

Sospensione


Questo post è uscito già qualche giorno fa su Q Code Mag, che ospiterà i miei scritti a intervalli di una decina di giorni. Vi invito ad esplorare altri interessantissimi contributi fornendovi il link: www.qcodemag.it. Kız Reporter è nella sezione dedicata ai blog.

Mulime si vergogna un po' ma ci fa entrare volentieri; si scusa sorridendo e dicendo: “È una casa di poveri”. Mesut, che fa il guardiano per la compagnia edile di questo cantiere, dice sarcasticamente che questi hanno vinto la lotteria. Da poveri e ignoranti abitanti semi-abusivi di gecekondu si ritrovano proprietari di appartamenti lussuosissimi in una di quelle che stanno per diventare le zone più pregiate della città. Alcuni ricevono anche più di un appartamento in funzione della grandezza del terreno e della famiglia.
Orhan però venderà gli appartamenti che gli spettano e se ne andrà a vivere ad Adapazarı, fuori Istanbul, dove vivono i parenti della moglie, Şefika. Là c'è la casa che assomiglia a quella in cui immagina di poter vivere: unico piano (terreno), un giardino con alberi da frutta, dove si può bere il tè e ricevere gli ospiti. Dove può tenere i suoi canarini (ne ha due nel soggiorno) e anche un cane. Nella nuova Fikirtepe non potrebbe mai vivere. La moglie è velata e loro sono molto religiosi. Come fanno ad abitare in un posto dove la gente va in piscina mezza nuda e si vanno a far fare i massaggi. “Ci vergogneremmo. Inoltre da qui alla fine della strada saluto e scambio due parole con almeno cinquanta persone. Con questi appartamenti, ognuno il suo, con chi parlo? Io ho bisogno di una casa che apro la porta e sono subito in strada, vicino alla gente.”
Orhan ha le idee così chiare e questo mi aiuta molto. In molte delle persone che intervisto c'è quella sospensione, quell'incapacità di raccontare di sé, della propria casa e del proprio quartiere come era prima, e di immaginare quello che sarà dopo. Mulime, dalla sua casa che si affaccia sul vuoto creato dalle ruspe, in riga con le altre case a cui tocca la prossima demolizione, non sa nemmeno di preciso quando inizieranno i lavori, né dove andrà temporaneamente in affitto. Ha circa sessantacinque-sessant'anni e vive con il marito Hasan.
Il padre di Orhan ha novant'anni, non capisce bene, ma conosce l'espressione kentsel dönüşüm (trasformazione urbana), usata dal figlio per spiegare cosa ci facciamo in casa sua. La casa l'ha costruita lui, che ha partecipato alla “guerra tedesca” e di cui nel salotto c'è una foto di quando aveva ventidue anni con il fez e i calzari e gli şalvar.
Me lo immagino nei diversi spostamenti: da casa sua a chissà dove in affitto per due o tre anni, poi nella lussuosa casa del suo quartiere trasfigurato in attesa di essere venduta, poi finalmente ad Adapazarı, nel suo grande giardino a bere tè e sgridare il cane. Me lo immagino chiedere lentamente con un filo di voce, come aveva fatto di fronte a me e a un amico fotografo di passaggio a Fikirtepe, seduti di fronte a lui con i nostri apparecchi neri in mano: “Ne için? Per che cosa?”
Invece Husein proprio non capisce la mia domanda quando gli chiedo: “Ma non sarà un po' difficile per le persone anziane?” Riformulo tre volte pensando che sbaglio qualcosa con la lingua, poi mi rendo conto che non riesce proprio a capire quale possa essere il problema. Eppure racconta che, essendo lui stesso costruttore ed essendosi costruito da sé la propria casa, non è riuscito a guardare mentre la demolivano, perché sarebbe stato troppo doloroso.
Lui non vuole guardare indietro, e nemmeno sa bene cosa aspettarsi. Non riesce a descrivermi il suo quartiere, non capisce le mie domande. Ma ha fede in Dio e sembra sicuro che ciò che Dio vorrà dargli lo soddisferà.


giovedì 12 dicembre 2013

Attraversare la strada


Questa mattina mi ha telefonato S. ağabey e mi ha molto rallegrato. Mi ha detto di passare a fare due chiacchiere che l'ultima volta gli ha fatto molto piacere. La sua sala da tè, ormai un rudere nei miei primi giorni a Fikirtepe, ora definitivamente abbattuta, è temporaneamente trasferita nel campo sportivo della scuola di calcio del Fenerbahçe, proprio all'altro lato della strada, dove serve tè e toast ai lavoratori del cantiere. È un uomo timido, sincero, limpido. Da pochi mesi è uscito dalla sua proprietà, un edificio che comprendeva la sua casa e la sua çay ocağı, che si trovava al piano terra.
Gli chiedo a che ora iniziava a lavorare e lui risponde che non c'era orario: era casa sua, bastava che scendesse.. Chi arrivava chiamava e lui scendeva.
Adesso si muove incerto e tentennando non sa se unirsi al gruppo di operai che chiacchierano là fuori. Lo immagino sicuro dietro al suo banco da lavoro, mentre serve gli avventori e ascolta le loro chiacchiere.
Gli avventori erano coloro che lavoravano nei negozi e nelle officine circostanti. Alcuni vengono ancora lì e si scaldano al fuoco improvvisato sulla strada tra il cantiere e il campo sportivo. Il fuoco è fatto con pezzi di legno fuoriusciti dalle demolizioni. Sono tutti seri e rivolgono il sedere al fuoco, mentre intorno è tutto bianco di neve e tempesta, in riga verso il cantiere. Arrivo e saluto, ricambiano ma nessuno sorride. Mi appaiono scontrosi, non oso chiedere cosa ci fanno lì.
S. ağabey inizia tutti i giorni alle 8:30, si sveglia alle 7 e prende ogni giorno il taxi da casa sua, che il tassista ormai non gli chiede più niente, e spende ogni giorno venti lire fra andata e ritorno. No, non ci sono altri mezzi, oppure non ho voglia di prenderli.
A volte se ne va prima di cena, a volte aspetta un po' dopo l'inizio dell'ultimo allenamento.
Mi accoglie nell'angusto retro del suo angolo di lavoro dove ha sistemato un tavolino con tre sgabelli, un portacenere e un calorifero elettrico. Pochi giorni fa alcuni operai erano venuti a reclamare questo angolino, come suppongo facessero ormai d'abitudine, per il namaz. S. abi li ha mandati via dicendo “Ma non vedete che c'è seduta una signora?”.
Gli chiedo se quando tornerà qui ad abitare riaprirà la sua çay ocağı. Lui dice che fra tre anni va in pensione e chi se frega.
Prima di fare questo lavoro aveva lavorato in Libia. Ma faceva troppo caldo laggiù, non ha resistito. S. ha un by-pass e non può più fumare. Ogni tanto ruba gli ultimi due tiri dalla sigaretta della sua amica S. Gli ho chiesto cosa ha provato quando hanno demolito la sua casa e lui: “Ho fumato una sigaretta”.
È arrabbiato perché nella casa in cui sta temporaneamente in affitto, nell'attesa che gli venga assegnata la nuova casa a Fikirtepe, la caldaia dà problemi e la sua richiesta al proprietario si è risolta in un litigio durissimo. Gli chiedo se la compagnia edilizia in questo caso non intervenga e lui risponde che la compagnia si interessa solo delle faccende di soldi (le compagnie edilizie pagano fino a circa 850 lire mensili per l'affitto dei vecchi abitanti del quartiere), e non di queste cose.
Del suo vecchio edificio è rimasta solo la vecchia insegna, che adesso è appesa alla ringhiera di cinta del campo sportivo, vicino all'ingresso.

domenica 8 dicembre 2013

Le demolizioni

Il link al mio post sul blog del Laboratorio di Antropologia Visuale dell'Università di Milano Bicocca.
http://lamaetnografia.blogspot.it/2013/12/primi-girati-da-fikirtepe.html
(contiene video delle demolizioni più interviste)

lunedì 2 dicembre 2013

La pancia di Istanbul/İstanbul'un göbeği


Şükrü e Özkan mi confermano che quello che sto cercando non importa solo me, e davvero ad un certo punto mentre raccontano mi commuovo e mi salgono le lacrime agli occhi, ma per fortuna mi passa del fumo di sigaretta davanti e evito la scena penosa fingendo che si tratti di quello.
Mi raccontano della loro vita sociale distrutta. Come tutto sia cominciato con la chiusura forzata delle eğlence evleri, il cuore della musica Rom di Istanbul. Il 75% degli abitanti di Sulukule trovava la propria fonte di guadagno là dentro. Il restante venticinque era impiegato nel commercio di pelli, scarpe e simili. Sono iniziati i controlli da parte del governo, con l'imposizione di chiudere perché privi del permesso. Alla loro disponibilità di mettersi in regola (Şükrü racconta che pagavano già tremila lire al mese) esso ha risposto con la polizia e la chiusura forzata. Lo smantellamento di Sulukule comincia da qui. Gli abitanti si ritrovano privi del lavoro e indeboliti socialmente.
Poi inizia il vero e proprio kentsel dönüşüm, promosso dalla municipalità metropolitana e da quella del quartiere Fatih (Akp), a cui Sulukule appartiene.
L'incredibile storia di Sulukule porterà Şükrü in tutta Europa, fino al Parlamento Europeo. Solo in Turchia l'espressione kentsel dönüşüm però fa pensare immediatamente alla demolizione. A Bruxelles per esempio rigenerazione urbana significa risolvere i problemi sociali, lavorativi, di istruzione degli abitanti, ma consentendogli di rimanere nelle proprie case. “Solo in Turchia non sappiamo cosa vuol dire kentsel dönüşüm”, dice Şükrü.
Qui è stato infranto uno stile di vita, una cultura dell'abitare (non sono parole mie e nemmeno imboccate da me, forse da qualcun altro, ma non da me). Loro erano sei fratelli e tutti vivevano nella stessa casa, felicemente, condividendo. Noi amiamo condividere, dice. Noi amiamo essere liberi, andare a letto tardi per stare insieme, svegliarci tardi. Lavorando, certo. Adesso per comunicare usiamo il telefono. Ognuno vive a casa sua, separatamente. C'era una cultura di quartiere (sempre parole sue), ci si ritrovava nelle eğlence evleri, adesso nei caffé (e la divisione di genere che comporta, aggiungo io: vedi penultimo post). Uno sviluppo urbano per chiamarsi così deve guardare alle persone, ai loro bisogni, alle loro capacità lavorative, costruire case secondo il loro modo di vivere. È necessaria una ricerca sia sociologica (tutte parole sue, scatta il monumento) che geologica –a causa del rischio terremoto– per capire veramente cosa non funziona e cosa c'è da fare. E soprattutto non qualcosa di generico che vada bene per tutti, ma una ricerca che si occupi di ogni caso separatamente.
Özkan racconta della loro identità di cittadini: “Noi siamo più Istanbulioti di tanti altri che abitano qui, noi siamo qui dal 1490, siamo nati e cresciuti qui. Qui ci sono i nostri cimiteri. I nostri ragazzi sono musicisti, artisti. Io lavoro nel tessile. Come faccio a vivere a Taşoluk, in mezzo alla natura e alle mucche? I nostri bambini si annoiano, si arrabbiano. Quello non è il nostro habitat (sic)”. Infatti da là sono tornati quasi tutti, tranne quattro famiglie. Tutti hanno cercato di sistemarsi nei quartieri adiacenti: Karagümrük, Ayvansaray, Balat, Fener. Ma il tessuto sociale è irrimediabilmente perso. E quando guardano alla loro terra (chi più di loro può dirlo con più certezza?) alla loro Sulukule, e non possono più neanche entrarci, dato che sarà una gated community, e quando vedono che i rifugiati siriani che ci vivono ora possono pagare affitti che si aggirano fra le 700 e le 1000 lire, e prendono una pensione dallo stato turco di 400 dollari, mentre i loro reduci (gaziler) meno della metà: 390 lire; e la loro mamma anziana prende ogni tre mesi 300 lire, allora pensano che c'è qualcosa che non va. Certo che sono nostri fratelli di religione, noi che siamo prima di tutto musulmani, poi cittadini turchi, poi Roman. Ma non è giusto. È un sopruso troppo grande.
E ancora senza che io li abbia nemmeno nominati, inizia a parlare delle rivolte di Gezi Parkı, contro cui si schiera fermamente. Perché, si chiede, pochi alberi abbiano attirato tutta quella gente agguerrita e motivata, mentre Sulukule no? Là ci sono alberi, ma qui ci sono uomini. Qui c'è la Storia. Non solo la nostra, ma quella di tutti. Sulukule è la pancia di Istanbul.
Nonostante una simpatia che non comprendo per il premier Erdoğan, che a quanto pare avrebbe riconosciuto apertamente che Sulukule è stato un errore, Şükrü riconosce il torto dell'Akp, del partito al potere allora, all'inizio del progetto di annientamento di Sulukule, e oggi. Per questo non capisce come mai il popolo di Gezi non si sia interessato a loro, in questo terreno di scontro così netto, così centrale. Inoltre, dice, è lo stile che non condivide: “Noi non abbiamo tirato una sola pietra contro la gente della municipalità. Non abbiamo fatto scorrere sangue. Abbiamo protestato con la musica. E la danza.”
E adesso, del quartiere dove i bambini non si perdono, perché trovano sempre qualcuno che li ripesca e li riporta a a casa, non è rimasto nulla. Ma loro, i Sulukuleliler, vogliono che quel nuovo agglomerato di case porti ancora il suo antico nome, il suo vero nome.

martedì 26 novembre 2013

Il posto dove nessuno si sposa


L'incontro con il signor Ercument dell'associazione Fidem, che unisce gli abitanti di quattro quartieri confinanti: Fikirtepe, Dumlupınar, Eğitim, Merdivenköy, è stata un'esperienza molto particolare. Finisce che pare che finisco sulla Gazzetta di Kadıköy come ragazza italiana che fa la tesi su Fikirtepe. E tutto contro la mia volontà.
Il signor Ercument appare piuttosto occupato. Io arrivo vergognosamente in ritardo di mezz'ora, ma lui per fortuna lo era altrettanto. L'ufficio era però aperto, con la porta spalancata sulla strada, per chiunque volesse imbucare la testa dentro. Io mi accomodo, mi asciugo il sudore della corsa trovando finalmente utili quelle salviettine appiccicosissime che ti rifilano ovunque. Quando questo bel signore brizzolato con gli occhi azzurri arriva, mi spiega che era appena stato ad un incontro con il ministro dell'ambiente. Che era venuto a Fikirtepe. Ma è una cosa abbastanza normale, che qua sono costantemente di passaggio, le autorità istituzionali. “Ah,” dico io, ripensando a quello che mi aveva detto la pianificatrice urbana proprio ieri. Alla fine della chiacchierata mi mostra sulla loro pagina Facebook lo striscione con cui il popolo di Fikirtepe ringrazia il ministro dell'ambiente Bayraktar per il suo interesse mostrato per il quartiere.


Mi racconta, come aveva già fatto la pianificatrice, che chiamerò signorina S., che per ogni ada viene scelto un rappresentante dei proprietari, che deve interfacciarsi con le compagnie edilizie. Gli chiedo come viene scelto questo signore, se per caso diviene rappresentante in virtù di una sua posizione particolare. Lui mi spiega che non c'è una ragione esplicita, ma che per esempio lui essendo in pensione e avendo tanto tempo, era naturale che venisse scelto allo scopo. Gli chiedo se questa associazione è nata proprio in occasione dello sviluppo urbano nel quartiere o se si occupa d'altro. Lui dice che è nata in occasione della trasformazione ma che per esempio la settimana scorsa hanno promosso una campagna di donazione del sangue della KızılAy (la Croce Rossa), e che comunque i residenti entrano ed escono (come potrò di lì a poco vedere) dall'ufficio con ogni tipo di richiesta.
Parlando di cose che non capisco bene che riguardano la vendita dei terreni (e che probabilmente non ho neanche salvato perché il registratore è rimasto in pausa contro la mia volontà) si finisce per chiacchierare degli abitanti, di come è successo che mai si siano sposati fra di loro, perché sono l'un l'altro come fratelli e sorelle. Poi i presenti (una decina di uomini di mezza età) cominciano uno per uno a dire la loro sull'argomento. Io non capisco nulla, ma capisco che almeno è un argomento molto sentito e su cui ci sono centinaia di aneddoti su cui ridacchiare. Allora, chiedo io, che succederà a questo bel vicinato quando ogni componente verrà spostato altrove. Non sarà una perdita grande? Io a questo punto sono molto poco imparziale, e quasi mi arrabbio, perché loro hanno venduto le case nonostante amassero così tanto il loro quartiere. Oh, certamente, dice lui. Ma è il sintomo dei tempi che cambiano. L'abitato di Fikirtepe è stato costruito dai nostri nonni circa ottant'anni fa. Erano legittimi possessori dei terreni, ma le case erano sì kaçak, abusive. I nostri padri, vedendo aumentate le esigenze della famiglia, hanno incrementato un po' il volume delle loro case, aggiungendo un tetto qui, un terrazzino là..i presenti si lanciano un sorrisino. È questo che rende queste case un po' così, çarpık, storte! Io intervengo con il cuore gonfio: ma sono belle queste case, sono fatte con le proprie mani, etc. E qui arriva, illuminante, il commento di Ercument: ma hai provato a viverci? Mi racconta un aneddoto in cui un residente vende il suo terreno e si accorda con la compagnia edilizia per tenersi il ferro rimanente dall'abbattimento. La casa viene abbattuta, ma di ferro non ne esce neanche un po'. Era tutta fatta di mattoni. E ritorna la venerazione per il dio metallo. Il fatticello rivela però lo smacco fra la generazione dei padri e quella dei figli, dei nipoti, dei presenti: loro non conoscevano neanche la fattura delle loro case, non sapevano neanche che dentro non c'era il ferro. E loro quelle case volevano darle via, hanno chiesto: –Perpiacere mi distruggi 'sta casa che non la posso più vedere?– Secondo Ercument erano arrabbiati solo un po'perché il progetto di ricostruzione stava durando un po' troppo. Mentre parliamo arriva un giovanotto con una macchina fotografica enorme, un iPad e dice di essere il giornalista della Gazzetta di Kadıköy e vuole scrivere di me nell'articolo. A parte che penso che non hanno proprio niente da scrivere se la soglia di interesse è ridotta a questo. Io mi rifiuto vivacemente, nessuno capisce perché. Il damerino tecnologico finisce con il promettermi che non scriverà nulla di me, ma io non gli credo. Lui dice: –Ma certo, se ti ho dato la parola. Siamo a Fikirtepe, dopotutto!– quindi sarò sulla prossima uscita, se questo è il luogo delle promesse non mantenute. Oppure no, se questo è ancora il luogo in cui tutti sono fratelli e si fidano ciecamente l'uno dell'altro.

Cosa c'entra Fikirtepe


Ho parlato con una pianificatrice urbana coinvolta nella trasformazione di Fikirtepe. La sua agenzia si occupa della mediazione fra gli abitanti e i developers. Mi ha raccontato le fasi di evoluzione del progetto di trasformazione urbana del quartiere e i soggetti coinvolti. Al principio c'era la municipalità (belediye), poi il tutto è passato al governo metropolitano e infine al ministero dell'ambiente. Poi tutto ad un tratto i soggetti istituzionali sono scomparsi e i residenti si sono ritrovati a dover contrattare con le sole compagnie costruttrici.
Con il solito piglio patriarcale il governo aveva deciso che il quartiere doveva cambiare, senza rispondere ad un bisogno rilevato o almeno immaginato. Che poi sulla capacità di rilevazione dei “bisogni della popolazione” ci sarebbe un bel po' da dire (l'ha già detto Olivier de Sardan, o forse qualche amico suo).
Poi ha passato il testimone alle compagnie edilizie che a loro volta hanno deciso che aspetto avrebbe dovuto prendere il quartiere, e chi ci avrebbe abitato. Il ministero è poi tornato un po' sui suoi passi, ha stabilito una serie di regole e limiti, e ha chiesto l'intervento di questa agenzia di pianificatori urbani affinché elaborassero una serie di modifiche ai progetti esistenti per ridurne la megalomania e far sì che mantenessero per Fikirtepe la misura di uno spazio abitato. Questo è chiamato dall'agenzia in questione “mediazione”. Le modifiche riguardano la salvaguardia dello spazio pubblico e si attuano in misure come attraversamenti dei diversi blocchi (ada, letteralmente: “isola”) accessibili a tutti, allargamento delle strade per renderle frequentabili e socializzabili (mi ha citato la Rambla) e vie di accesso, sbocchi, verso le due fermate della metropolitana che si trovano ai piedi della collina (mi ha mostrato una foto della scalinata di piazza di Spagna).
I limiti imposti dal ministero riguardano l'altezza degli edifici, che non devono superare gli ottanta metri (e lo chiamano limite) e i ventiquattro piani. La proposta dell'agenzia è di rallentare questa corsa all'altitudine e ammorbidire lo skyline alternando edifici più bassi, in un modulo di tre tipologie per blocco. L'arredo del verde deve essere tenuto presente. La comunicabilità tra spazi è importante per creare vicinato. Ad esempio una scuola (nel piano che mi ha mostrato, un rettangolo azzurro con sopra scritto “educazione”) non può non avere un parco giochi davanti. Le chiedo che senso ha tutto questo per i vecchi abitanti, che tanto non potranno permettersi di vivere in queste case lussuosissime. 

Nuhoğlu İnşaat- Yenitepe: Living Room
Lei mi fa notare che forse non ho capito bene, che qua i vecchi abitanti non entrano più di tanto nella “mediazione”, che ormai loro sono insoddisfatti e arrabbiati per i compensi inadeguati ricevuti alla vendita dei loro terreni, frustrati per non aver trattato direttamente con il governo, ma che non è compito dell'agenzia di trovare una soluzione a queste richieste.
In sintesi, ci sono diverse idee di “buon luogo”: quella dei residenti, che andrò ad ascoltare domani; quella del governo, che nemmeno conosco, ma dubito che sia qualcosa di distinto da quella delle compagnie; quella appunto delle compagnie, che consiste nello spazzare via gli inutili residenti morti di fame che vendono tutto quello che hanno per poche lire e rimpiazzarli con persone in grado di comprare un'abitazione in edifici che 1) non danno mai le spalle alla città, grazie alla loro forma triangolare 2) sono visibili da tutta la città e in ogni punto puoi indicare dove abiti 3) ti puoi rilassare dallo stress del giorno approfittando delle diverse facilities come massaggi e piscine 4) non importa quanto è grande il tuo appartamento, tutto è disegnato per il tuo lusso/lussuria 5) ti senti privilegiato ancora prima di entrare nel tuo quartiere (tratto dalla presentazione del progetto della compagnia Nuhoğlu, vedi link). Infine l'idea dei mediatori, che si propongono e si rappresentano come correttori della spavalda proposta dei costruttori, come elemento di ritorno alla normalità.
Sono idee di bellezza, di bontà di uno spazio che convergono, si scontrano, si concretizzano.
Una catastrofe, dal mio punto di vista. Come non se ne siano resi conto quelli di Gezi Parkı, per me ha ancora dell'incredibile. Parlando dei “fatti di Gezi” con due amici che abitano nell'ipercentro della città, in una via che praticamente sbocca su piazza Taksim, me ne faccio un'idea. Accanto a Taksim, alla scintillante Beyoğlu, c'è la distesa disordinata e storta di Tarlabaşı, abitata da Rom, interessata anch'essa da un progetto di trasformazione. Loro mi dicono che sarebbe meglio se la ricerca la facessi lì. Perché, dicono, è più centrale, più visibile, più accessibile. A parte che tutto ciò tradisce la relatività del loro punto di vista. Perché non c'è niente di così visibile come Fikirtepe, che pare offerta alla vista dei passanti. E poi tutta la vita di Istanbul non si consuma a Taksim, benché chi vi abita sia indotto a pensarlo. Il mio amico dice: “Io per esempio a Fikirtepe non ci vado. E neanche a Sulukule. Ma nemmeno a Tarlabaşı. E che ci andrei a fare?” L'arroganza, se così si può chiamare, in attesa di un termine migliore, di chi abita in centro, che stabilisce quale luogo vale la pena e quale no. Gezi Parkı è in centrissimo, e ha attirato e attivato la gente del centro. Poi naturalmente il movimento è cresciuto. Ma Gezi Parkı era un parco bruttissimo, fatto per la gente che sta per partire, una sosta. Eppure è stato capace di muovere i cuori e le coscienze. Che dire, la potenza del centro. O la sua pigrizia. Ma riprenderò questo discorso abbozzato male.