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giovedì 2 gennaio 2014

Tristezza e confini


Sono triste tutto il giorno. Da ieri sera. Vorrei raccontare ogni episodio della mia vita qui per rendere l'idea di quanto schizofrenica è la mia esperienza di straniera. Ad esempio, non avendo un “posto fisso” dove mangiare, per andare sul sicuro senza pensare troppo alla qualità e al prezzo, mi aggiro per le strade di Kadıköy come se la preda fossi io, mentre in realtà sono io che voglio la carne, e precisamente avvolta in un dürüm di yufka ben tostata, e possibilmente senza immasticabili petti di pollo interi dentro e senza troppe patatine fritte dentro.
Ho l'impressione che se mi fermassi a ponderare qualcuno parlerebbe di me. Direbbe: –Guarda, quella, che si è fermata. Ma cosa fa?–
Settimana scorsa le mie orecchie hanno assistito ad una tenera scenetta di imbarazzo sul dolmuş. Giovani genitori, probabilmente provenienti da una piccola cittadina dell'Anatolia, con un bebé tutto bello imbacuccato e un paio di borsoni. Devono scendere in prossimità di una moschea, ma non sanno bene dove si trova. La loro apprensione cresce mano a mano che il paesaggio scorre dal finestrino. Lui vuole fingersi sicuro e dice: –No, è più avanti..–
Ma mentre il pulmino procede, si incrina la sua fiducia e lei comincia a proporre di chiedere all'autista. E lui: –Ma no. Ma cosa vuoi chiedere?–
–“Signor autista ci fa scendere vicino alla moschea X?” Fanno così, ho sentito io!–
–Ma no, dai, lascia stare. Arriviamo fino a giù, al capolinea, e poi risaliamo a piedi.–
­–Immagino a questo punto (erano dietro di me) che lei abbia guardato bebé e borsoni e abbia preso la decisione: – Chiedo?– e lui arrendendosi: – Chiedi.–
La sensazione che qualcuno possa parlare male di te è uno spettro sempre all'erta. Un altro aneddoto che mi viene in mente è sempre sul dolmuş. Forse che attraverso di esso passi la convalida per la tenuta da vero cittadino? Spero che in italiano si capisca la mia ironia. Una ragazza sui vent'anni, molto timida, velata, aspetto freschissimo di fiorellino, dopo circa dieci minuti di tentati sorrisi mi si china vicino e mi dice a bassissima voce:
–E' la prima volta che prendo questo dolmuş, mi scusi! Ma si ferma al Capitol?– e ride di imbarazzo.
Io penso: “Ma certo cara ragazza, non è richiesto che tu conosca tutti gli itinerari di tutti i dolmuş di questa città enorme”.
Essere di Istanbul è certamente un valore aggiunto, per coloro che lo sono veramente. Chi non lo è, può sempre tentare la strada dell'extra-affermazione. Essa consiste nel ripetere almeno dieci volte “sono proprio di Istanbul” nei primi dieci minuti che ci si presenta con qualcuno. Per una mia amica non ci sono dubbi: i suoi genitori sono di Kayseri, una provincia lontana almeno dieci ore da Istanbul, ma lei essendo nata qui è una vera Istanbuliota. E dato che abita anche lei nella mia municipalità, ma mentre io sono nel centro, lei è distante quattro o cinque chilomentri, mi sono trovata in questo discorso, che inizia da lei: –Ah, ma tu abiti in centro!–
–Sì, ma per fortuna sono un po' in disparte, altrimenti impazzirei con quella folla da mercato.–
–Ah, ma costano tanto le case, là!–
–Guarda, io sarò fortunata, ma pago solo trecento lire al mese.–
La sua faccia era quella di chi è invidiosa della centrale posizione altrui, e cerca di sminuirla, la mia reazione era di appeasement, dato che non considero per nulla centrale quel ammasso di negozi tutti uguali, dove la gente scorre e corre, cercando di non morire attraversando la strada con le automobili che accelerano quando vedono un pedone. Dunque contribuivo allo sminuimento, che per lei si concentrava sul mio essere centrale, ribaltando la logica quando si trattava di esaltare la sua centralità. Mentre decentrava me, accentrava se stessa.
Questo atteggiamento è opposto a quello che avevo finora conosciuto che fa leva sui rapporti di hemşehrilik, di provenienza dalla stessa città, memleket. Due sconosciuti di Sivas improvvisamente scoprono la loro hemşehrilik ed esibiscono un'intesa da amici di vecchia data. Che probabilmente è reale, poiché ci si riconosce in un paesaggio di pratiche e di tonalità inesplicabile ma effettivo. La città immaginata ha un confine preciso e grazie a questo può essere evocata. A Istanbul i confini scompaiono e siamo tutti cittadini, benché si dice che Istanbul rappresenti la Turchia intera. Secondo Cihan Tuğal, parlando del quartiere di Sultanbeyli (in “The Urban Dynamism of Islamic Hegemony: Absorbing Squatter Creativity in Istanbul”) ci sarebbe una connotazione politica nel riconoscersi o meno nei rapporti di hemşehrilik o nella grande cittadinanza metropolitana: gli appartenenti al centro-sinistra, benché fondino le loro relazioni sui rapporti di hemşehrilik, li misconoscerebbero pubblicamente, reputando retrogrado, tribale e akpeista l'atteggiamento di chi invece valorizza questo tipo di appartenenza. Cita un abitante di Sultanbeyli:

Friends, we have left our cities and villages and we have come to Istanbul. In Istanbul we have formed a lifestyle, but this lifestyle is definitely not from Kars, or from any other city. We have to live here as residents of Sultanbeyli, and we have to forget our hometowns.

Non bisogna per forza condividere questa osservazione di Tuğal, io non lo faccio, ma rimane comunque interessante.
Se adesso torniamo a me depressa per non sentirmi a casa durante le feste, che mi aggiro come un lupacchiotto affamato fra rotoli di carne di montone, che non mi fermo perché ho paura che escano fuori e i dicano “buyurun hoş geldiniz”, costringendomi alla fuga (perché io non entro solo perché me lo dici tu!), ma finalmente ricordo un posto dove mi sono sentita a mio agio e ho mangiato bene, e mi ci avvio con moderata decisione, ma appena vi entro, chiedo un et dürüm e il komi mi guarda con un espressione a metà fra un incredibilmente intenso divertimento e curiosità, ma anche canzonatura e mancanza di rispetto, fissandomi oltranzosamente negli occhi e infine proponendomi qualcosa che non mi aspetto, che quindi al momento non capisco, ma poiché sono straniera pensano che non abbia capito niente del tutto e mi traducono in malinglese: –Handired, handired! Yapim mi handired ghıram?– (c'era una versione şişko del dürüm più carica di carne, cento grammi) e se a questo punto mi getto nella più completa sconsolatezza, voi capirete, a questo punto, anche se ho volutamente messo su una frase alla Orhan Pamuk.
Mi siedo tristemente in uno scantinato piatto, e quando arriva l'ayran e il komi di prima mi chiede se voglio la cannuccia e io dico: –Sì– come se fosse “Certo che sì, non me la vuoi dare solo perché sono straniera?”, e poi inizio a bere senza, me ne rendo conto e inizio ad usarla solo per mostrare coerenza, capisco fino a che punto è arrivata la mia schizofrenia.
Uscita da lì, almeno so dove andare a bere il té. Al centro culturale Nazim Hikmet, dai comunisti! Mi sono appena infilata nella stradina e noto una chiesetta, che in tutti gli anni che vengo qui a rifugiarmi, non avevo mai notato. Esito un attimo, controllo: sì, è cattolica, sì è armena. Entro e faccio il segno della croce, per non destare sospetti (oggi all'ingresso in università, dato che c'era un gruppo raccolto a ricordare il massacro di Robosky, mi hanno chiesto per la prima volta chi fossi: vuol dire che faccio brutto).
In realtà mi sto decidendo una nuova identità, per stare comoda qui, per non rispondere sempre a domande che non mi faccio. Ma è un'identità di necessità, d'emergenza, che non mi piace, che non sono io; per questo ho nostalgia di casa, dove posso essere me stessa, senza giustificarlo sempre. In chiesa il prete dà le spalle ai fedeli, la messa è cantilenata, in armeno. Non sono nemmeno sicura se il segno della croce sia lo stesso. Ma quando esco mi sento come innaffiata da uno spirito fresco e verde, come se avessi fatto un salto a casa. Penso di essere ormai sulla strada giusta per il fondamentalismo, se l'appartenenza religiosa diventa un rifugio. Invece poi entro dai comunisti e anche qui mi sento a mio agio, mi sembra di essere al Circolone di Legnano.
Una mia amica guida la macchina anche con un dito rotto. È una matta spericolata ma guida fottutamente bene. Un giovanotto attraversa la strada mettendo in atto la solita danza della vita, alzando velocemente una chiappa dopo l'altra. Ma quando si accorge che alla guida c'è una donna, rallenta ostentatamente quasi a dire “non sarò certo io uomo a scappare da te femmina al volante”. Questo avviene nel “centro” dove abito io, a quaranta minuti da Kadıköy.

giovedì 10 novembre 2011

Il Paradiso dell'Antropologo-Turismo metropolitano

Ufficio anagrafe di Milano Zona 2, via Padova 118.
Una grande sala d'attesa, stracolma. Ottengo il numero 77; il tabellone indica il 26. Metto la mente in modalità "pazienza" e decido che quella sarebbe stata una buona occasione per osservare la gente che abita nel mio nuovo quartiere. Faccio una rapida statistica dei presenti: 85% di stranieri, 15% di italiani, di cui due su tre sono anziani.
Mi siedo accanto ad una signora asiatica (filippina?). Una conoscente si avvicina e le due cominciano a parlare ad alta voce nella loro lingua e io rimango in mezzo.
Da quando, ragazzina, mi sono scoperta piacevolmente incuriosita dalla novità dell'arrivo di persone di tante lingue e colori, non avevo mai pensato di poter provare un giorno questa sensazione.
Mi guardo intorno e cerco gli italiani presenti. Scorgo una signora anziana con lo sguardo perso nel vuoto. Me la figuro venti anni fa nello stesso ufficio mezzo vuoto che chiacchiera in dialetto con le coetanee.
Mi balena nell'animo un fastidio. Leggero, fugace. Ma l'ho visto bene. Provo vergogna, cerco di razionalizzare. E' razzismo questo forse? Sarà stata una pazzia fantascientifica della mia immaginazione ma per un attimo mi sono sentita in minoranza nel mio Paese.
E adesso rifletto. A guardare bene, in quella stanza non c'era un 15% di italiani e una restante percentuale di stranieri, ma un 15% di cinesi, un 15% di marocchini, un 15% di bengalesi e così via. Ognuno di loro provava forse la mia stessa sensazione di straniamento.
Ciononostante non posso fare a meno di comparare la sala d'attesa di ieri con una festa per le famiglie vista a Bruxelles, in cui tutte le componenti culturali della società belga erano ben riconoscibili, eppure tutti parlavano francese e tutti partecipavano alla stessa festa.
Questo "tutti" è una costruzione, sicuramente si trattava solo di famiglie con figli piccoli, non so dire cosa ne fosse dei venti-trentenni, essendo rimasta così poco a Bruxelles. E poi parlare il francese ha un significato ben preciso nella società belga, legato a dinamiche anche di repressione culturale e forse di assimilazione per i migranti. Ma a nessuno era vietato di essere contemporaneamente musulmano, rom o africano. E la festa era davvero gioiosa, attraversandola si aveva la sensazione che il dialogo fra culture fosse possibile.




Mi piace avere questo punto di vista critico sull'argomento, perché penso che sia davvero importante e delicato, e se si vuole davvero inaugurare un dialogo che non sia un fantoccio messo su frettolosamente per venire incontro ad un'urgenza, quella di una democrazia idealizzata, bisogna davvero affinare il proprio sguardo e il proprio linguaggio e non attestarsi su ingenuità contraddittorie e facilmente smontabili dal razzista di turno.
Mi riferisco ad un atteggiamento di certa sinistra intellettualoide che propugna un'idea di sé di apertura mentale e progressismo. Si sposa la causa migrante e proletaria senza mai averla vissuta in prima persona, senza indagare gli interstizi, le implicazioni minime. Migranti e proletari diventano loro malgrado semplici concetti per una proiezione brillante di sé. Risultando così sfruttati per l'ennesima volta, dal radical chic di turno. Da chi ha le mani pulite e candide come il culetto di un neonato. In realtà andando a vedere da vicino assomiglia più che altro ad una specie di turismo grossolano e pietista.
Da questo punto di vista potrei vantarmi di vivere in un quartiere multietnico, dicendo in giro che è una figata, che tutti si vogliono bene e non ci sono problemi e i leoni non mordono come in certe raffigurazioni bibliche dei testimoni di Geova.

PUBBLICITA' (antropologica)
Andando a studiare il Diverso, l'Altro all'università si affinano tutti gli strumenti cognitivi per capire l'Altro, per pensarlo, per non farsi trarre in inganno dai tranelli della nostra mente così strutturalmente votata al pregiudizio. Il rischio è però quello di diventare troppo raffinati per non apparire ridicoli, effeminati e insensati alle persone alle quali ci prefiggevamo di avvicinarci. Allora capita di trovarsi in un luogo abitato da stranieri e sentirsi molto cool, parlare con un operaio e raccontare il fatto come se stessimo scrivendo una cartolina. Il buon senso antropologico aiuta a svelare l'inganno e tiene tutti quanti  in guardia. In questo senso vivere qui è per me davvero un'occasione, per purificarmi davvero dal pregiudizio, chiamare le cose con il loro nome e intraprendere un dialogo sincero con la multiculturalità in cui sono immersa.

martedì 21 settembre 2010

Dove si fa il çay

Eccoci finalmente al confine orientale della Turchia. Fra pochi chilometri inizia la Georgia, e precisamente l'Adjaristan, regione autonoma a maggioranza musulmana, con capitale Batum.
Siamo ad Arhavi, sul Mar Nero, uno centri della cultura Laz. A chiunque tu chieda, ti risponde di essere Laz. È incredibile la gioia e la facilitá con cui si inizia a chiacchierare; in un attimo siamo trasportati da un intera famiglia con il loro furgone in cima al loro villaggio, sulle montagne dove si coltiva il té.
Lassú incontriamo altri proprietari, come il vecchio dagli indescrivibili baffetti seduto davanti al suo deposito del té  aspettando che ''i russi'' tornino con il raccolto della giornata.
Qui tutti li chiamano russi, o addirittura sovietici, ma in realtá sono georgiani, e vengono da diverse cittá, da Batum, o addirittura da Tbilisi, attirati dal buon guadagno: 50 TL al giorno.
Sono tutti accovacciati in fila dal mattino presto in cittá e aspettano che qualcuno passi a raccoglierli e portarseli su in montagna, nelle piantagioni. Rimangono qui tre mesi, dormono in hotel. Non parlano turco, o molto poco. Il piú anziano di loro parla bene e ci racconta un po'. Uno di loro ci insegue e ci chiede quanto vogliamo per portarlo in Italia.
Qui c'é una grande serenitá, tutti si salutano cortesemente per la strada, anche salendo e scendendo dalla montagna. Si lamentano un po' dell'apertura dei confini con la Russia, e ne parlano come se si trattasse di un avvenimento recente. Da quel momento sono arrivate la prostituzione e i suoi mali, dicono. Eppure qui l'unica presenza straniera siamo noi e questi lavoratori. Certo la situazione é diversa in cittá come Hopa o Trabzon.
Vorremmo visitare la Çaykur, una delle fabbriche del té. Ma gli addetti alla sicurezza ci dicono che é vietato, come lo è per i georgiani lavorarci dentro. Per loro c'é solo la piantagione.

giovedì 6 maggio 2010

Gegen die Wand-Contro le mura di Teodosio


Lo Stato prenderà misure per venire incontro ai bisogni dell'abitazione nel contesto di un piano che tiene conto delle caratteristiche delle città e delle condizioni ambientali e porterà avanti progetti abitativi di massa.” Così recita l'articolo 57 della Costituzione Turca, citato orgogliosamente sulla versione inglese del sito del TOKİ, Toplu Konut İdaresi, l'ente governativo che si occupa della promozione dell'edilizia sociale. Secondo quanto riferisce Rroma, sul proprio sito dedicato alla cultura e alla vita dei Rom di tutto il mondo, il TOKİ ha un ruolo predominante in quello che sta accadendo a quartieri come Sulukule (Fatih), abitati da un millennio dalla popolazione Rom.

A Sulukule io e Jahela siamo state ieri a cercare di capire che cosa significa materialmente spostare gli abitanti da un quartiere all'altro. Meglio di tutto parlano le foto (v. galleria fotografica). Ma anche le persone a cui abbiamo chiesto informazioni su come arrivare là: il gestore di un giardino del tè che dice in una risata amara che sì, Sulukule era dietro alla moschea, ma adesso sedetevi e bevete un çay, povere care.

Ma noi proseguiamo e troviamo una guida, che ci scorta fra quello che rimane di Sulukule: tanto poco da rendere difficile immaginare come poteva essere. Kayhan enumera ad uno ad uno: qui c'era il bar, qui la piazza, là la sala da ballo (Sulukule era famosa per questo). Ma io non vedo niente. Solo ruderi eretti qua e là in mezzo al niente seminascosti dalle recinzioni di un immenso cantiere. Sembra di assistere ad un funerale, al funerale di una vita collettiva, non di un solo individuo. Ho davvero il groppo in gola.

La distruzione delle abitazioni è cominciata due anni fa, e l'intento era di finire in tempo per il 2010, anno di Istanbul capitale europea della cultura. Il piano edilizio per quest'area prevede la costruzione di nuove case, probabilmente inaccessibili per i vecchi abitanti del quartiere. Che riceveranno 500 Lire (250 €) per ogni metro quadrato abbattuto. Soldi con i quali forse potranno permettersi un alloggio nelle penosissime periferie della metropoli, forse a una quarantina di km da qui. Sempre secondo quanto riporta Rroma, questi soldi non verranno pagati tutti in un'unica soluzione. E come potrebbe, la Turchia, con un bilancio tanto malandato. A coloro che adesso non hanno più la casa, a coloro che le ruspe hanno portato via l'attività, non rimane altro che sperare che si ricordino di pagare fino all'ultimo kuruş. Questa suggestiva zona della città, a ridosso delle mura di Teodosio, non sarà più sporca e dedita alla prostituzione, dice Kayhan, che è un agente immobiliare ed è molto ottimista su quella che chiama la riqualificazione di Sulukule.

Pare che adesso la distruzione della zona abbia subito un arresto dovuto al ritrovamento di importanti reperti archeologici. Gli operai che abbiamo incontrato lì dicono che si tratta di una bugia e che qui si continua. Vedremo, se laddove la protesta e l'indignazione civile non hanno potuto, potranno vecchi oggetti rovinati dal tempo, pitali e anfore.

Il sito del TOKİ pubblica in inglese i discorsi che il premier Recep Tayyıp Erdoğan ha rilasciato sulle politiche abitative. In uno di questi si vanta di come la Turchia sia stata trasformata in un grande sito in costruzione, di come i progetti del TOKİ permetteranno, attraverso emolumenti vantaggiosi, alle persone meno abbienti di mescolarsi al tessuto cittadino, accedere allo stato sociale, passare dalla periferia al centro.

lunedì 5 aprile 2010

Yabancı

“Yabancı” è la prima parola di turco che ho udito quando quattro anni fa sono entrata con il treno nella prima stazione decorata con le sfavillanti bandiere rosse con la luna e la stella bianca, dopo aver passato il confine con la Grecia ed essere piombata in un mare di girasoli e verde brillante. Tutti i backpackers provenienti dall'Europa erano stati a loro volta impacchettati nell'ultimo vagone del treno, lontano dai turchi, lontano dai greci. Alla prima stazione turca, un gruppo di uomini in divisa, i capistazione. Dal loro gruppo si levò una voce, e una parola: “yabancı” (si pronuncia yabangi, con la g dolce). Dopo un breve momento di esultanza per aver compreso il significato della prima parola udita, mi resi conto della situazione: un vagone ghetto di stranieri e una punta di disprezzo in quel modo di indicarci: gli stranieri, eccoli là, come in un gabbione da circo, scorrere tra le varie stazioni e quei girasoli, con quella curiosità, sempre uguale, già vista mille volte, quella faccia schiusa, il mento ammorbidito dallo stupore, subito catturato da una macchina fotografica esibita con vergogna. E poi eccoli in giro per la città, a voltare la faccia dappertutto, camminando come papere. E invece guarda questi turchi che eleganza, guardali saltare su e giù dagli autobus alle fermate ai lati della tangenziale, con l'autista impaziente che non aspetta che anche il secondo piede sia a terra. Guardali appoggiare le valigie vicino alla porta dell'autobus lasciata aperta per il caldo, senza timore che possa cadere fuori, e poi davvero non cade. Guardali girare con i vassoi sul traghetto a distribuire çay e ricordarsi alla perfezione di chi doveva ancora pagare. Guardali con quelle lunghe scarpe a punta ballare al ritmo dell' erbane ed è come se si accomodassero sull'immenso sofà del mondo, guarda come si chiamano da una parte all'altra della strada e si intendono immediatamente. E questi yabancılar che vanno in crisi con le loro valigie, che vogliono pagare subito e si fanno fregare come allocchi. Yabanci è la parola prima, ma mi accompagna fino ad oggi, per la seconda volta a İstanbul, per un altro mezzo anno. Ancora qui a dimenticarmi di tutto, del mio bagaglio, della forma che ho preso, delle cose che ho imparato, per trovarmi intirizzita, goffa e indifesa seduta in autobus dopo aver risposto alla telefonata di mia madre, riagganciare e riscoprire, invece del silenzio attutito dell'autobus, le risatine dei ragazzini che occupano i posti dietro di me e delle due studentesse trentenni davanti a me. E fra una risatina e l'altra riecheggia una parola. Yabanci.