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lunedì 17 marzo 2014

Tornare da Istanbul


I ritorni sono traumatici. Tutte le volte che sono tornata dall'unica città estera in cui abbia abitato, lo sconvolgimento del ritorno era temibile. Così temibile che l'idea che si realizzasse mi aveva fatto tremare prima di quest'ultima partenza, e sciolto in lacrime all'aeroporto.
La prima volta che sono tornata non ricordavo più i nomi delle strade della mia città, i percorsi degli autobus e i nomi delle persone. Un giorno avevo incontrato per la strada una conoscente, ci avevo parlato per dieci minuti buoni credendo che fosse ( non che si chiamasse) Paola e invece era Valeria.
La seconda volta non riuscivo più a parlare la mia lingua, non sapevo che musica ascoltare e di che cosa parlare con le persone con cui avevo parlato fino ad allora.
Sì, assomiglia ad un'afasia, ad un morbo di Alzheimer, ad una dislessia.
In realtà erano gli effetti di un mondo che ti circonda, che all'improvviso, con un colpo d'ala d'aereo, scompare. Come un silenzio alla fine di una festa chiassosa.
Forse anche dietro a quelle malattie, a quei disordini, c'è un trauma, di cui non si sa parlare, o si ritiene non ne valga la pena.
Assomiglia molto a quello che cercavo qui, il trauma, lo spaesamento, il perdersi a seguito di una trasfigurazione di paesaggio. Scorre in parallelo.
In effetti non ho mai scritto niente di come mi sentivo quando tornavo. Forse perché era difficile, forse perché per esempio adesso non ho intorno il mio café con le discussioni ad alta voce, con il rumore così denso che ti protegge e che puoi ritagliarci una poltrona d'intimità dentro e sederti e scrivere. All'improvviso non c'è più, e io non posso scrivere.
La stessa cosa succede con la vita, con l'abitare. Cu abbita abbita e cu nun abbita mmore.
Per due anni milanesi ho abitato in un posto che non mi faceva stare bene. Era brutto. Scomodo. Dannoso.
Se mi guardo indietro, in quei due anni ho vissuto come nella condizione che appare talvolta nei miei incubi: andare al lavoro in accappatoio, oppure non potersi lavare e dover andare ad un incontro importante. In quei due anni l'incontro importante era la vita di tutti i giorni, e la sensazione di non potersi lavare era la condizione di non potersi adagiare mai, di non avere mai un rifugio.
Conosco una persona che ha vissuto per molto tempo ad Istanbul così. Non riusciva ad uscire di casa, pur abitando in una zona molto centrale e piena di stimoli. Ma si sentiva atterrita dalla selva urbana e i suoi pericoli. Ora si è trasferita sul Mar Egeo, a undici ore di autobus verso sud, in un villaggio per turisti. Ha dei vicini che hanno fatto come lei, giovani pensionati in fuga. Sono i suoi nuovi vicini, con i quali si suonano alla porta per scambiarsi torte e far assaggiare manicaretti. “Il nostro villaggio è tutto qui.” (“Bizim köyümüz bu kadar.”). Mi fa sorridere questo accenno ad una presunta vita di villaggio, soprattutto se confronto la grande fattoria poco più in basso, seguendo la strada, che si trova su una curva e il mare lambisce qualche metro di terra prima dell'ingresso. Loro mungono le loro capre ogni mattina da decenni, e si organizzano ogni fine estate per la raccolta delle olive. I villeggianti trasformati in villagers, invece, fanno la spesa di fattoria in fattoria con i soldi della pensione che arriva dal centro.
Questa volta sono tornata ma lo spaesamento non è stato così forte. Mi ricordavo i nomi di quasi tutte le strade, avevo solo una leggera depressione come da ritorno dalle vacanze.
Sono uscita la sera stessa, e nei giorni seguenti, bevendo, fumando, lavorando, studiando. Potente come una nave col vento in poppa. Poi il collasso, l'immobilità. Mi sono accorta che non pensavo più a Istanbul, se non agli aspetti più da banchetto, gioviali, goderecci, balotta, baldoria, g.. confraternite...GOLIARDICI! Ecco, non mi veniva la parola. Non rispondevo al telefono che squillava da Istanbul. Oggi l'ho preso in mano, ho riparlato quella lingua, l'ho riascoltata. Ho appreso delle costruzioni iniziate a Fikirtepe. Ho riaperto i giornali turchi. Ho scritto a tutti gli amici e conoscenti che volevo sentire o invitare a cena. Adesso mi faccio una partita a solitario e poi mi addormento piano piano.




martedì 7 gennaio 2014

Tra parentesi, che, per inciso che è davvero inciso, tra parentesi non è. Illusioni ottiche in etnografia.


Oggi sveglia alle cinque, per essere alle sette alla fermata dei taxi di Fetih Mahallesi, dove mi aspettava S. per prendere insieme il taxi che lo avrebbe portato al lavoro. Avevo pensato che fare un'intervista in taxi avrebbe reso l'idea della distanza, del cambiamento delle abitudini di una persona dopo la demolizione della sua casa e del suo posto di lavoro. Per paura di non riuscire ad arrivare in tempo parto con troppo anticipo e arrivo mezz'ora prima dell'appuntamento. È completamente buio. Faccio qualche ripresa della stazione dei taxi. Mi avvicino. Dico che aspetto un amico e mi siedo su una panchina all'aperto. Parlo con i tassisti, che mi invitano ad entrare nella stanzetta in cui si danno il cambio e bevono tè. Insistono perché non vogliono che prenda freddo. Mi dicono: –Guarda che da noi è buono il tè!–
Sono curiosi di sapere che cosa ci faccio lì con una macchina fotografica alle 6:30 del mattino. Uno di loro mi chiede se sono giornalista o simili –“gatezeci, mazeteci”– io mi limito a dire che faccio una ricerca all'università sul kentsel dönüşüm. Lui fa: – Ooo! –
Poi quando arriva S. mi dicono: –Ah, a lui dovevi fare l'intervista!!– lo conoscono bene, dato che sono nove mesi che fa avanti e indietro tutti i giorni in taxi, domenica compresa.
S. è molto fiducioso, soddisfatto e grato. Certo c'è l'ombra del dispiacere per la distruzione di una comunità di vicinato, della libertà di chi possiede la casa in cui abita. Ma veramente non sembra sconvolto dalla trasfigurazione del suo paesaggio personale.
Che faccio? La mia tesi non viene confermata, perlomeno nel semplice incontro verbale. Se faccio un filmato di S. che va in taxi al lavoro, è chiaro che voglio mostrare quanto si è fatta difficile per lui la vita. Ma se lui sembra contento? Ok, faccio vedere che è contento, che dice bene del progetto di sviluppo del suo quartiere. Ma lo stravolgimento del suo paesaggio personale, che gli consentiva di abitare il mondo e non perdersi, non viene rilevato, non l'ho rilevato, non esiste. O forse esiste ma non è così che viene fuori. Franco La Cecla, nel suo libro “Perdersi” arguisce che l'attitudine dell'abitare un luogo, e quindi anche il suo opposto, il perdersi, appunto, appartenga alla sfera dell'inconscio (non posso riprendere esattamente il testo perché l'ho dimenticato sull'autobus – ho perso “Perdersi”) e che di conseguenza non può essere spiegata, quindi indagata con i normali strumenti di ricerca. Per questo avevo pensato che il filmico avrebbe potuto rivelare qualcosa che sfuggiva. Ma come?


La mia preoccupazione non è solo di tipo “detectiva”, ma anche militante: il mio scopo è fare rendere conto dei pericoli, per la qualità della vita degli esseri umani, legati a questo processo di normalizzazione delle forme dell'abitare. Lo voglio fare osservando da vicino cosa una comunità si trova a vivere quando viene interessata da un progetto di sviluppo di tali dimensioni.
Allora le ragioni della mera ricerca etnografica e quelle politiche si sovrappongono. Ma sono davvero distinte? Cos'è un'etnografia? È la storia del mio rapporto con un luogo, per il tempo che mi prefiggo di studiarlo. É la storia della mia visione del mondo applicata ad un luogo. È la storia del mio abituarmi a quel luogo, del mio fare habit, del mio iniziare ad abitarlo. Non sono sicura che esista, nella ricerca, qualcosa di diverso. La realtà etnografica è questo. Se voglio qualcosa di diverso devo smettere di fare l'etnografa e cercarmi un lavoro a Fikirtepe, cercare di farmi degli amici, etc.
Allora la mia preoccupazione circa il riuscire o meno a mostrare la realtà etnografica con questo viaggio in taxi viene meno, ed è tutta una questione di onestà intellettuale non dare a pensare, magari con il montaggio, che le cose stiano diversamente.
La sera ho incontrato gli attivisti di Pangea Ekoloji, in particolare una ragazza, Eda (nome fittizio), che si è dimostrata molto disponibile e interessata al mio argomento di ricerca.
Le ho detto che mi stupisco continuamente del fatto che le persone con cui parlo siano mediamente contente delle conseguenze del progetto di sviluppo, perché anche se un po' sballottate, alla fine ricevono uno o più appartamenti di lusso. Lei mi guarda con espressione di sfiducia e dice: – Sì, ma non lo sai che non è proprio così, che col piffero ricevono la casa.–
Io rispondo che anche a me sembra fin troppo bello per essere vero, però dalle testimonianze raccolte finora sembra proprio così. Ho parlato con abitanti, con le compagnie edilizie e con un'associazione di cittadini, benché appaia un po' di parte, un soggetto ambiguo che forse riceve dei benefici dal suo assumere il ruolo di “rappresentante dei cittadini”, facendo gli occhi dolci alle compagnie di costruzione, assicurando che non ci sono problemi e sono tutti felici.
Eda mi parla come se io poverina fossi persa senza contatti. In realtà i contatti che mi mancano sono quelli “contro”, i detrattori del progetto di sviluppo del quartiere e le loro motivazioni. Uno dei motivi per cui avevo deciso di interessarmi a Fikirtepe è che sapevo dell'entusiasmo dei suoi abitanti, quindi questa mancanza di contestazione è stata un po' una conferma. Eda era lì a garanzia del fatto che un fronte “contro” esiste, e siamo d'accordo che presto ne sarò anch'io a conoscenza. Quella è la sua visione di Fikirtepe, che esclude i consenzienti, le compagnie edilizie, gli operai dei cantieri e i sogni degli abitanti di una casa più moderna. La vera Fikirtepe per lei è quella che lotta, e io, che di questa sua Fikirtepe non so niente, sono “persa senza contatti” e non so ancora nulla su Fikirtepe.
Inizialmente avevo contattato Eda per effettivamente allargare i miei contatti. Vale a dire Eda sarebbe stata fuori dalla mia ricerca o avrebbe occupato la posizione che occupo io, quella di chi osserva. Invece questo suo atteggiamento la rende immediatamente interessante anche in un altro modo, perché essa stessa è promotrice di una pratica sul luogo, quella di investire il luogo della propria ideologia (comunismo militante, Gezi Parkı). Tra parentesi anche se tra parentesi non è, questo contraddice la mia impressione iniziale circa il disinteresse degli abitanti del centro che hanno partecipato alle rivolte di maggio per quello che succede nella periferia. Eda dice: –A Tarlabaşı non abbiamo potuto organizzare granché perché quelli sono tutti nomadi, non sono attaccati al luogo, per loro non fa differenza abitare qui o là.–
Nomino Sulukule, ma non si sofferma molto. Ma c'è anche la fretta che sta per cominciare la riunione degli attivisti. Ne riparleremo presto.



sabato 4 gennaio 2014

Abitanti

Il link al mio post su Lama, blog del laboratorio di Antropologia Visuale di Milano Bicocca, con appunti visuali delle interviste agli abitanti di Fikirtepe.
lamaetnografia.blogspot.com

mercoledì 25 dicembre 2013

Sospensione


Questo post è uscito già qualche giorno fa su Q Code Mag, che ospiterà i miei scritti a intervalli di una decina di giorni. Vi invito ad esplorare altri interessantissimi contributi fornendovi il link: www.qcodemag.it. Kız Reporter è nella sezione dedicata ai blog.

Mulime si vergogna un po' ma ci fa entrare volentieri; si scusa sorridendo e dicendo: “È una casa di poveri”. Mesut, che fa il guardiano per la compagnia edile di questo cantiere, dice sarcasticamente che questi hanno vinto la lotteria. Da poveri e ignoranti abitanti semi-abusivi di gecekondu si ritrovano proprietari di appartamenti lussuosissimi in una di quelle che stanno per diventare le zone più pregiate della città. Alcuni ricevono anche più di un appartamento in funzione della grandezza del terreno e della famiglia.
Orhan però venderà gli appartamenti che gli spettano e se ne andrà a vivere ad Adapazarı, fuori Istanbul, dove vivono i parenti della moglie, Şefika. Là c'è la casa che assomiglia a quella in cui immagina di poter vivere: unico piano (terreno), un giardino con alberi da frutta, dove si può bere il tè e ricevere gli ospiti. Dove può tenere i suoi canarini (ne ha due nel soggiorno) e anche un cane. Nella nuova Fikirtepe non potrebbe mai vivere. La moglie è velata e loro sono molto religiosi. Come fanno ad abitare in un posto dove la gente va in piscina mezza nuda e si vanno a far fare i massaggi. “Ci vergogneremmo. Inoltre da qui alla fine della strada saluto e scambio due parole con almeno cinquanta persone. Con questi appartamenti, ognuno il suo, con chi parlo? Io ho bisogno di una casa che apro la porta e sono subito in strada, vicino alla gente.”
Orhan ha le idee così chiare e questo mi aiuta molto. In molte delle persone che intervisto c'è quella sospensione, quell'incapacità di raccontare di sé, della propria casa e del proprio quartiere come era prima, e di immaginare quello che sarà dopo. Mulime, dalla sua casa che si affaccia sul vuoto creato dalle ruspe, in riga con le altre case a cui tocca la prossima demolizione, non sa nemmeno di preciso quando inizieranno i lavori, né dove andrà temporaneamente in affitto. Ha circa sessantacinque-sessant'anni e vive con il marito Hasan.
Il padre di Orhan ha novant'anni, non capisce bene, ma conosce l'espressione kentsel dönüşüm (trasformazione urbana), usata dal figlio per spiegare cosa ci facciamo in casa sua. La casa l'ha costruita lui, che ha partecipato alla “guerra tedesca” e di cui nel salotto c'è una foto di quando aveva ventidue anni con il fez e i calzari e gli şalvar.
Me lo immagino nei diversi spostamenti: da casa sua a chissà dove in affitto per due o tre anni, poi nella lussuosa casa del suo quartiere trasfigurato in attesa di essere venduta, poi finalmente ad Adapazarı, nel suo grande giardino a bere tè e sgridare il cane. Me lo immagino chiedere lentamente con un filo di voce, come aveva fatto di fronte a me e a un amico fotografo di passaggio a Fikirtepe, seduti di fronte a lui con i nostri apparecchi neri in mano: “Ne için? Per che cosa?”
Invece Husein proprio non capisce la mia domanda quando gli chiedo: “Ma non sarà un po' difficile per le persone anziane?” Riformulo tre volte pensando che sbaglio qualcosa con la lingua, poi mi rendo conto che non riesce proprio a capire quale possa essere il problema. Eppure racconta che, essendo lui stesso costruttore ed essendosi costruito da sé la propria casa, non è riuscito a guardare mentre la demolivano, perché sarebbe stato troppo doloroso.
Lui non vuole guardare indietro, e nemmeno sa bene cosa aspettarsi. Non riesce a descrivermi il suo quartiere, non capisce le mie domande. Ma ha fede in Dio e sembra sicuro che ciò che Dio vorrà dargli lo soddisferà.


giovedì 12 dicembre 2013

Attraversare la strada


Questa mattina mi ha telefonato S. ağabey e mi ha molto rallegrato. Mi ha detto di passare a fare due chiacchiere che l'ultima volta gli ha fatto molto piacere. La sua sala da tè, ormai un rudere nei miei primi giorni a Fikirtepe, ora definitivamente abbattuta, è temporaneamente trasferita nel campo sportivo della scuola di calcio del Fenerbahçe, proprio all'altro lato della strada, dove serve tè e toast ai lavoratori del cantiere. È un uomo timido, sincero, limpido. Da pochi mesi è uscito dalla sua proprietà, un edificio che comprendeva la sua casa e la sua çay ocağı, che si trovava al piano terra.
Gli chiedo a che ora iniziava a lavorare e lui risponde che non c'era orario: era casa sua, bastava che scendesse.. Chi arrivava chiamava e lui scendeva.
Adesso si muove incerto e tentennando non sa se unirsi al gruppo di operai che chiacchierano là fuori. Lo immagino sicuro dietro al suo banco da lavoro, mentre serve gli avventori e ascolta le loro chiacchiere.
Gli avventori erano coloro che lavoravano nei negozi e nelle officine circostanti. Alcuni vengono ancora lì e si scaldano al fuoco improvvisato sulla strada tra il cantiere e il campo sportivo. Il fuoco è fatto con pezzi di legno fuoriusciti dalle demolizioni. Sono tutti seri e rivolgono il sedere al fuoco, mentre intorno è tutto bianco di neve e tempesta, in riga verso il cantiere. Arrivo e saluto, ricambiano ma nessuno sorride. Mi appaiono scontrosi, non oso chiedere cosa ci fanno lì.
S. ağabey inizia tutti i giorni alle 8:30, si sveglia alle 7 e prende ogni giorno il taxi da casa sua, che il tassista ormai non gli chiede più niente, e spende ogni giorno venti lire fra andata e ritorno. No, non ci sono altri mezzi, oppure non ho voglia di prenderli.
A volte se ne va prima di cena, a volte aspetta un po' dopo l'inizio dell'ultimo allenamento.
Mi accoglie nell'angusto retro del suo angolo di lavoro dove ha sistemato un tavolino con tre sgabelli, un portacenere e un calorifero elettrico. Pochi giorni fa alcuni operai erano venuti a reclamare questo angolino, come suppongo facessero ormai d'abitudine, per il namaz. S. abi li ha mandati via dicendo “Ma non vedete che c'è seduta una signora?”.
Gli chiedo se quando tornerà qui ad abitare riaprirà la sua çay ocağı. Lui dice che fra tre anni va in pensione e chi se frega.
Prima di fare questo lavoro aveva lavorato in Libia. Ma faceva troppo caldo laggiù, non ha resistito. S. ha un by-pass e non può più fumare. Ogni tanto ruba gli ultimi due tiri dalla sigaretta della sua amica S. Gli ho chiesto cosa ha provato quando hanno demolito la sua casa e lui: “Ho fumato una sigaretta”.
È arrabbiato perché nella casa in cui sta temporaneamente in affitto, nell'attesa che gli venga assegnata la nuova casa a Fikirtepe, la caldaia dà problemi e la sua richiesta al proprietario si è risolta in un litigio durissimo. Gli chiedo se la compagnia edilizia in questo caso non intervenga e lui risponde che la compagnia si interessa solo delle faccende di soldi (le compagnie edilizie pagano fino a circa 850 lire mensili per l'affitto dei vecchi abitanti del quartiere), e non di queste cose.
Del suo vecchio edificio è rimasta solo la vecchia insegna, che adesso è appesa alla ringhiera di cinta del campo sportivo, vicino all'ingresso.

venerdì 27 luglio 2012

Il confine della casa

Come spesso accade quando andiamo in Germania, siamo andati a trovare la signora C. 
La signora C. vive a Nordhorn, una cittadina al confine con i Paesi Bassi. Quando andiamo da lei, per pranzo ci cucina degli involtini di carne con i cetriolini, crauti rossi e patate e il caffè con la torta nel pomeriggio, prima di salutarla e, su suo consiglio, attraversare il confine per far benzina perché costa meno. 
Nel quartiere delle vie con i nomi di fiori, aveva una bella casettina color cioccolato a due piani e il tetto spiovente; con le finestre ornate con tendine bianche dal bordo ricamato, vasi di fiori sui davanzali bassi e ovunque statuine di gatti. Fino a poco tempo fa sui morbidi tappeti persiani del salotto e della sala da pranzo si aggirava la vecchia gatta J. Sul retro aveva un giardino che la signora C. curava ancora nonostante i suoi novant'anni. In questo giardino riposa anche il cane J. 
Originaria della Slesia, allora tedesca, la signora C. si è vista portare via la casa costruita da suo padre, quando la regione venne ceduta alla Polonia, al termine della seconda guerra. Emigrando a ovest, perse tutti e quattro i suoi figli, per stenti e fame. A Nordhorn si è risposata e ha avuto altri figli. Oggi ha deciso di vendere la sua casa divenuta troppo grande e di trasferirsi in una residenza per anziani, dove paga l'affitto per un appartamentino nascosto dietro una porta anonima che sembra quella di una stanza d'ospedale.
Si accede attraverso una porta scorrevole che dà su una grande sala con un banco informazioni e diversi tavolini con sedie. Lungo un corridoio si leggono le insegne delle diverse stanze che si susseguono: fisioterapia, farmacia.. Un altro corridoio conduce agli appartamenti. Si cammina morbidamente su una moquette rosa pesco. Si sente odore di pipì. Diverse ospiti della struttura gironzolano appoggiate a girelli e deambulatori e si salutano da sotto chiome bianchissime. Troviamo la porta della signora C. e bussiamo. Ci apre e, sebbene siamo in ritardo, si fa radiosa in volto e ci abbraccia calorosamente.
Niente involtino, oggi: ci porta al ristorante. Entrambi speriamo in una kneipe  proprio tedesca. Non è che non possa cucinare: l'appartamentino è composto da un ingresso, che ha lo stesso tappetino di quello che c'era in casa sua, dove togliamo le scarpe intrise di pioggia; un salotto con un angolo cucina con due soli fornelli, un frigo, un lavandino e diversi scaffali che ospitano tutti gli elettrodomestici di una cucina tedesca. C'è un tavolino quadrato con tre sedie, poi un comodo divano con tavolino e due poltrone. Più oltre c'è la cameretta: letto singolo ortopedico con leve e marchingegni, uno specchio, una cassettiera, un armadio. Le foto di figli e nipoti sono ancora ovunque. Il giardino si è trasformato in una fila di vasi sul davanzale. Ma c'è una palma che non riesce a prendere vigore e si affloscia gialla sulla moquette. "Forse non ha abbastanza luce" diagnostica la signora C. Dalla finestra si vede il giardino interno della residenza, che la pioggia rende verdissimo. Dopo un po' ci si dimentica di essere altrove, e ci si ripensa di nuovo a casa della signora C. Ma quando si apre la porta di casa, l'incantesimo finisce, e ci si imbatte di nuovo nella processione su rotelle di bianche chiome. Anche la signora C. ha una chioma bianca, e occhi azzurrissimi. Le diventano vispi e ci invita ad uscire dal retro, passando davanti all'ufficio della polizia.
Il ristorante è chiuso, mangiamo in un fast food. Poi saliamo in macchina e la signora C. ci chiede di guidare fino davanti la sua ex-casa. Piove. E' ancora tutto uguale. Si vuole assicurare che anche il patio di ingresso non sia stato modificato: guido un po' più avanti. Non vuole scendere. Ci allontaniamo. Attraversiamo il confine passando davanti ad un negozio che espone una promozione gigante: parazetamol 0,99€! Andiamo al supermercato del giardinaggio di Denekamp, dove le cassiere parlano un perfetto tedesco. La signora C. acquista un'enorme e rigogliosa palma, con un bel vaso rosso. Quando torniamo a casa, questo prende il posto del suo predecessore, in cima ad uno sgabello.