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lunedì 16 aprile 2012

Paleoantropologia

Werner Herzog, nel suo film dedicato alla meraviglia delle Grotte di Chauvet, chiede ad un giovane archeologo abbastanza irriverentemente:–E quale sarebbe il tuo background personale?– E lui, prima deglutisce nervosamente – come sono io stessa abituata a fare ogni volta che qualcuno mi inquisisce sulle mie competenze in un fuori luogo marcato; ma gli inquisitori si sentono sempre legittimati – ma poi prosegue: –Ero nel circo. No, non ero domatore di leoni. Ero giocoliere. Facevo numeri di giocoleria.–

Adesso fa parte della crew che studia le grotte nascoste nella spettacolare gola del fiume Ardeche, in Francia, dove tre anni fa sono stati scoperti incredibili graffiti. Herzog parla di proto-cinema, perché la tecnica compositiva ricorda quella futurista per imprimere moto alle figure ritratte, come il Cane al guinzaglio di Giacomo Balla. 

Solo che i disegni rupestri di Chauvet datano tren-ta-cin-que-mi-la anni, e sono, mi si lasci dire, anche più belle, di straordinario potere grafico e incredibilmente accurate anatomicamente (a parte un mammuth con i piedi come ruote-benché pare siano state inventate molto più tardi).

Il giovane archeologo-ex-giocoliere ha bisogno di immergersi nel sogno se vuole arrivare a immaginare che cosa pensavano quegli uomini e donne e bambini che sono passati in quella grotta. Cita un etnografo che in Australia ha chiesto ad un aborigeno "Perché dipingi?" – domanda da scienziato. E l'aborigeno risponde: –Io non sto dipingendo. E' lo spirito che lo fa per me.–

Forse sbagliamo le domande. O forse siamo troppo intrisi di Storia, come dice Herzog, mentre si aggira con una telecamerina poco migliore della mia negli antri della caverna cosparsa di tracce, troppo intrisi per capire che fra quel graffio di orso e quel disegno c'è una distanza di cinquemila anni. La Storia  può essere solo un punto di vista fra gli altri, come insegna un altro tedesco illustre, Nietzsche (Sull'utilità e il danno della storia per la vita), di cui si può anche fare a meno o modularne il significato e la portata.

Quanto può essere arduo allora questo decentramento. Non basta nemmeno per capire perché uomini e donne diversi da noi, ma contemporanei, perché loro dipingono. Ma forse il perché non conta, e basta intravedere un angolo del loro mondo, cosa vedevano, cosa osservavano, cosa ritenevano necessario riportare in un disegno. E poi confrontare le estetiche. Due idee di bellezza distanti trentacinquemila anni l'una dall'altra. Che cosa ci dicono sull'Uomo?

lunedì 6 giugno 2011

L'handicap del capitalismo

Tra un negozio di casalinghi e un büfe, tra un marciapiede rotto e una macchina parcheggiata male, ecco comparirmi davanti agli occhi una galleria d'arte, con dei lavori rettangolari in bianco e nero che mi attirano come una calamita. Entriamo. E' la mostra di un certo Turgut Yüksel.


I lavori, tele bianche con sagome nere simili a stencil raffinati che danno l'idea di scene in controluce, in giornate molto assolate, sono il suo augurio di felicità (Saadetler dilerim). I dipinti traboccano di ironia e acutezza semiotica; intendo dire con questo che ogni segno è pertinente ed è evidente che l'artista ne è consapevole, sapendo miscelare e selezionare gli elementi grafici in modo sintetico e diretto. Cosa che mi stupisce, dato che sono abituata alla propensione piuttosto narrativa dell'estetica turca. Di  fronte a molti quadri ci è partita di slancio la risata. Ogni pezzo aveva un titolo, parte grafica integrante dell'opera. Davanti a "Kapitalizm" mi sono lasciata andare ad una avvincente riflessione.



Un uomo aspetta sulla sua sedia a rotelle di fronte ad una scalinata, che termina su un patibolo per l'impiccagione, con il cappio pronto. Significa che per tutta la vita ci sentiamo come se ci mancasse qualcosa, come se avessimo un handicap, e cerchiamo di salire quella scala con tutte le nostre energie, affaticandoci e soffrendo, per poi scoprire che quello a cui ambivamo altro non è che questa brutta fine. Mentre cercavo di spiegare tutto ciò in turco all'amico al mio fianco mi sono resa conto di una cosa interessante della parola turca engelli, che sta per handicappato. Engelli è l'aggettivo che si forma da engel, che significa "ostacolo", così la persona handicappata è la persona che ha un ostacolo, ostacolata. Lo stesso verbo engellemek significa ostacolare ma anche impedire, contrastare, e si usa per esempio negli articoli di giornale per raccontare di come la polizia ferma i manifestanti. Questo per dire che secondo me la sensazione di inadeguatezza a cui ci spinge il sistema capitalistico descritta perfettamente dall'artista è verbalizzabile in modo precipuo solo in turco, o almeno a me non è venuta nessun'altra idea migliore.