Valentina, Fatima e Giulia stanno giocando silenziosamente a "Nomi, cose, città..", ovvero il gioco per cui peschi una lettera e devi individuare un elemento con quell'iniziale per ognuna di alcune categorie stabilite. Sono calme, chine sul banco quadrato, vigilando compostamente che nessuna sbirci le intuizioni dell'altra. Ad un certo punto Giulia si volta verso di me e mi chiede a bassa voce: – Come si chiama quello che aveva imprigionato tutti gli Ebrei?– Io temo di non avere capito e penso che si riferisca a qualche episodio biblico, quindi inizio a scervellarmi tra nomi di faraoni e profeti. Giulia mi viene incontro e mi dà un altro indizio: – Quello che c'entra con il giorno della Memoria..–
La guardo e le appiattisco, con la voce che scappa giù per la gola, il nome che cercava: Hitler.
Lei esulta e si china a scrivere. Ma vedo che pasticcia; mi guarda con un leggero panico: non sa come si scrive, non si ricorda come si chiama; scrive Hebler, poi cancella, poi riscrive l'acca ed esita. Infine pressata dallo scadere del tempo, aggiunge una successione casuale di lettere. Mi accorgo che la categoria è "film" e che prima di quella parola che sta per Hitler c'è scritto "la lista di".
Conclusione: Giulia dalla Giornata della Memoria ha imparato che un uomo cattivo ha imprigionato tutti gli Ebrei, che questo signore ha un nome impronunciabile che inizia per acca, e che è per questo che si fa la giornata della memoria.
Ad un moto di sdegno segue una considerazione a favore della piccola: i suoi genitori avranno forse trentacinque anni, non sono nati in Europa e i loro genitori probabilmente sono nati dopo il '45. I miei nonni avevano vissuto la guerra, ed era stata un'esperienza dirompente nelle loro vite. Le maestre a scuola ci invitavano ad intervistare i nostri nonni riguardo alla guerra, al fascismo. Ne parlavamo con i testimoni diretti, diventava concreto anche per noi. L'idea che un pericolo così grande abbia sfiorato le vite dei miei cari. Il diario di Anne Frank era il mio libro preferito quando avevo più o meno i suoi anni, e da esso dipende forse la mia vocazione alla scrittura. Oggi, a disposizione degli alunni, ci sono: le fotografie. Ma nessuno che parli per loro. Sull'onda di quale commozione Giulia potrebbe sentire il desiderio di leggere il Diario di una coetanea Ebrea nell'Olanda occupata?
Ricordare la Shoah serve a creare l'humus per rimanere sensibili ad ogni olocausto. E' un'occasione di elaborazione di contenuti; se vogliamo, un pretesto. Per educare a non riporre che una limitata fiducia nell'essere umano, che può superare la sua natura e diventare mostruoso. Per educare a non abbassare mai la guardia e contribuire ogni giorno al miglioramento dell'umanità.
Ma se viene meno la vicinanza temporale, il contatto con i testimoni, può ancora essere efficace? Se in educazione è sempre auspicabile fare leva su esperienze conosciute, famigliari per chi apprende, perché questo proposito dovrebbe venire meno qui? Forse insegnare la Shoah così come è stata insegnata a noi non è più possibile. Siamo a una svolta: svicolando, questa generazione non può più vedere cosa c'è dietro l'angolo. Jonathan sgrana gli occhi quando apprende che la play station e affini sono un'invenzione solo recente. Chiedere a dei piccoli individui che non hanno il senso della Storia di comprendere il senso della Shoah senza averne nemmeno un'esperienza di seconda mano è forse davvero troppo.
D'altronde come servirsi della gran quantità di genocidi contemporanei e raggiungere la stessa astrazione, gli stessi contenuti universali che il discorso sulla Memoria permette, senza turbare troppo le giovanissime menti?
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