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lunedì 2 dicembre 2013

La pancia di Istanbul/İstanbul'un göbeği


Şükrü e Özkan mi confermano che quello che sto cercando non importa solo me, e davvero ad un certo punto mentre raccontano mi commuovo e mi salgono le lacrime agli occhi, ma per fortuna mi passa del fumo di sigaretta davanti e evito la scena penosa fingendo che si tratti di quello.
Mi raccontano della loro vita sociale distrutta. Come tutto sia cominciato con la chiusura forzata delle eğlence evleri, il cuore della musica Rom di Istanbul. Il 75% degli abitanti di Sulukule trovava la propria fonte di guadagno là dentro. Il restante venticinque era impiegato nel commercio di pelli, scarpe e simili. Sono iniziati i controlli da parte del governo, con l'imposizione di chiudere perché privi del permesso. Alla loro disponibilità di mettersi in regola (Şükrü racconta che pagavano già tremila lire al mese) esso ha risposto con la polizia e la chiusura forzata. Lo smantellamento di Sulukule comincia da qui. Gli abitanti si ritrovano privi del lavoro e indeboliti socialmente.
Poi inizia il vero e proprio kentsel dönüşüm, promosso dalla municipalità metropolitana e da quella del quartiere Fatih (Akp), a cui Sulukule appartiene.
L'incredibile storia di Sulukule porterà Şükrü in tutta Europa, fino al Parlamento Europeo. Solo in Turchia l'espressione kentsel dönüşüm però fa pensare immediatamente alla demolizione. A Bruxelles per esempio rigenerazione urbana significa risolvere i problemi sociali, lavorativi, di istruzione degli abitanti, ma consentendogli di rimanere nelle proprie case. “Solo in Turchia non sappiamo cosa vuol dire kentsel dönüşüm”, dice Şükrü.
Qui è stato infranto uno stile di vita, una cultura dell'abitare (non sono parole mie e nemmeno imboccate da me, forse da qualcun altro, ma non da me). Loro erano sei fratelli e tutti vivevano nella stessa casa, felicemente, condividendo. Noi amiamo condividere, dice. Noi amiamo essere liberi, andare a letto tardi per stare insieme, svegliarci tardi. Lavorando, certo. Adesso per comunicare usiamo il telefono. Ognuno vive a casa sua, separatamente. C'era una cultura di quartiere (sempre parole sue), ci si ritrovava nelle eğlence evleri, adesso nei caffé (e la divisione di genere che comporta, aggiungo io: vedi penultimo post). Uno sviluppo urbano per chiamarsi così deve guardare alle persone, ai loro bisogni, alle loro capacità lavorative, costruire case secondo il loro modo di vivere. È necessaria una ricerca sia sociologica (tutte parole sue, scatta il monumento) che geologica –a causa del rischio terremoto– per capire veramente cosa non funziona e cosa c'è da fare. E soprattutto non qualcosa di generico che vada bene per tutti, ma una ricerca che si occupi di ogni caso separatamente.
Özkan racconta della loro identità di cittadini: “Noi siamo più Istanbulioti di tanti altri che abitano qui, noi siamo qui dal 1490, siamo nati e cresciuti qui. Qui ci sono i nostri cimiteri. I nostri ragazzi sono musicisti, artisti. Io lavoro nel tessile. Come faccio a vivere a Taşoluk, in mezzo alla natura e alle mucche? I nostri bambini si annoiano, si arrabbiano. Quello non è il nostro habitat (sic)”. Infatti da là sono tornati quasi tutti, tranne quattro famiglie. Tutti hanno cercato di sistemarsi nei quartieri adiacenti: Karagümrük, Ayvansaray, Balat, Fener. Ma il tessuto sociale è irrimediabilmente perso. E quando guardano alla loro terra (chi più di loro può dirlo con più certezza?) alla loro Sulukule, e non possono più neanche entrarci, dato che sarà una gated community, e quando vedono che i rifugiati siriani che ci vivono ora possono pagare affitti che si aggirano fra le 700 e le 1000 lire, e prendono una pensione dallo stato turco di 400 dollari, mentre i loro reduci (gaziler) meno della metà: 390 lire; e la loro mamma anziana prende ogni tre mesi 300 lire, allora pensano che c'è qualcosa che non va. Certo che sono nostri fratelli di religione, noi che siamo prima di tutto musulmani, poi cittadini turchi, poi Roman. Ma non è giusto. È un sopruso troppo grande.
E ancora senza che io li abbia nemmeno nominati, inizia a parlare delle rivolte di Gezi Parkı, contro cui si schiera fermamente. Perché, si chiede, pochi alberi abbiano attirato tutta quella gente agguerrita e motivata, mentre Sulukule no? Là ci sono alberi, ma qui ci sono uomini. Qui c'è la Storia. Non solo la nostra, ma quella di tutti. Sulukule è la pancia di Istanbul.
Nonostante una simpatia che non comprendo per il premier Erdoğan, che a quanto pare avrebbe riconosciuto apertamente che Sulukule è stato un errore, Şükrü riconosce il torto dell'Akp, del partito al potere allora, all'inizio del progetto di annientamento di Sulukule, e oggi. Per questo non capisce come mai il popolo di Gezi non si sia interessato a loro, in questo terreno di scontro così netto, così centrale. Inoltre, dice, è lo stile che non condivide: “Noi non abbiamo tirato una sola pietra contro la gente della municipalità. Non abbiamo fatto scorrere sangue. Abbiamo protestato con la musica. E la danza.”
E adesso, del quartiere dove i bambini non si perdono, perché trovano sempre qualcuno che li ripesca e li riporta a a casa, non è rimasto nulla. Ma loro, i Sulukuleliler, vogliono che quel nuovo agglomerato di case porti ancora il suo antico nome, il suo vero nome.

Antropologa lungo le mura di casa


Esiste il blocco dell'antropologo? Se esiste, corrisponde a quell'incapacità di prendere la decisione di uscire e andare a casaccio nel luogo dove farò la ricerca, per vedere se vedrò quello che sto cercando, se ha senso quello che sto cercando per qualcun altro all'infuori di me. E con chi parlerò di preciso e da quale posizione? Quasi sempre, quando dico cosa faccio, la gente non capisce, oppure, se sorprendevolmente dice “Ah, sì, l'antropologia!” poi aggiunge poco dopo qualcosa come “C'entra con l'anatomia, no?”.
Io decido allora di spiegare nel dettaglio cosa mi interessa: come cambia lo stile di vita, il modo di abitare in una casa delle persone, quando sono costrette a cambiare dall'alto, da un attore istituzionale, quando il loro paesaggio cambia senza che possano detenere il controllo di questo cambiamento. Oppure più semplicemente dico “Un po' come la sociologia”. Ma naturalmente non è così immediato come presentarsi in modo chiaro e scevro da dubbi con qualcosa come “Lavoro per la Trt (tv) e faccio un documentario su Fikirtepe e Sulukule” o “Sono una giornalista” o “Sono l'ispettrice governativa per i lavori di demolizione dell'area”.
Insomma, sarà anche per una mia indole un po' introversa, quella mattina non ce la facevo proprio a decidermi. Come arrivo lì, quando scendo dall'autobus dove vado, cosa chiedo. Avevo deciso di fare visita alla Roman Kültürünü Geliştirme ve Dayanışma Derneği (l'Associazione di Solidarietà e Sviluppo della Cultura Rom), nella persona del suo presidente Şükrü Pündük, al quale avevo già scritto un'e-mail ma non mi aveva risposto. Indirizzo in tasca, registratore in borsetta, trovavo mille scuse per non staccarmi dalla sedia. Intanto si faceva tardi e il ritardo aggiungeva un motivo in più per non muovermi. Alla fine, alle 14:10, riesco finalmente a varcare la porta di casa. In due ore potrei essere là, se non trovo più nessuno nell'ufficio, almeno saprò dov'è e sarà più facile ritornarci, mi sono detta. Questo aveva funzionato per Fikirtepe: dopo una visita veloce e anonima, avevo imparato la strada principale ed è stato facile e disinvolto tornarci per incontrarmi con Ercument di Fidem.
Una nota sul modo di dare l'indirizzo in Turchia: si va in ordine incrociato di precisazione di un luogo: la strada principale, la strada secondaria, il numero civico, il quartiere, la municipalità, la città. La strada secondaria si chiamava semplicemente “viale Lungo le Mura” (Kaleboyu caddesi). Scesa dall'autobus a Edirnekapı, dunque è stata questa la prima cosa che chiedevo. Naturalmente tutti mi mandavano verso le mura di Teodosio, ma la strada non si chiamava così! Un'altra nota di campo: cercavo di chiedere e interagire con le donne, perché mi sono accorta che parlo quasi sempre con uomini, e questo è strano nella storia dell'etnografia. Mi sono chiesta perché e mi sono resa conto di avere un certo timore nei confronti della donna velata, totalmente irrazionale, mi rendo conto, e della gioventù femminile o maschile in generale. Per questo spesso mi rivolgo agli uomini sopra i quaranta, ed è con loro che per la maggior parte avvengono i miei scambi. Forzandomi su questo punto dunque, ho scoperto quanto invece dietro quegli sguardi severi si schiuda immediatamente solidarietà: le donne a cui ho chiesto la direzione hanno preso a cuore la mia quête e si preoccupavano che la trovassi, o che potessero indirizzarmi presso qualcuno che potesse aiutarmi. Il mio cuore indurito si riscaldava e cominciavo a sentirmi a mio agio nell'ambiente. Mi ritrovo comunque accompagnata da un signore affabile a cui tutti porgono i loro omaggi e rispetto. Gli chiedo se per caso sia il muhtar, lui mi risponde con una battuta che non capisco e non insisto. Alla fine, dato che nessuno sembrava saperne niente di questa Kaleboyu caddesi, avevo chiesto direttamente dove si trovasse l'associazione. Allora tutti mi mandavano “dove ci sono i Rom”. Arrivata alla Sulukule infranta e ricostruita, sono “dove ci sono i Rom”. Chiedo di nuovo a una donna, che chiama la vicina e insieme collaborano per indicarmi la strada giusta. Ma loro non sono Rom e non ne sanno granché. Scendo per la strada, trovo un angolo vivace con una piccola moschea e due kahvehane, e la gente tutta riversata di fuori. Un simpatico vecchietto mi urla mentre parla perché sono straniera, e crede che stia cercando i Rom perché fanno la musica. Allora mi indica una casa dove ci sono dei ragazzini che suonano. Ma pare che io adesso mi metta a suonare alle case della gente? Fingo di andare un po' su, riparlo con le due donne di prima, ritorno giù. Il signore è lì che mi aspetta e urla “Trovato?”. Io replico che non è quello che sto cercando, lo ringrazio e vado oltre. Si forma come una catena di persone che mi indicano la strada, attraverso le quali passo e arrivo ad un negozietto, il cui proprietario telefona a Şükrü Pündük, me lo passa e mi dice che posso andare a trovarlo nel caffé tal dei tali, che si trova proprio in quell'angolo, era una delle due kahvehane, davanti a cui il signore di prima mi urlava, signore che ritrovo, mi lascia vagare ancora un po', poi dice “Lo chiamo, Şükrü?”. Mi stupisco che tutti abbiano il suo numero di telefono. Ho trovato Şükrü. Mi aspetto quasi che tutto il vicinato esulti insieme a me in un applauso, e io ringrazi tutti per la collaborazione. Şükrü e Özkan sono immediatamente accoglienti. Mi fanno sedere, mi ordinano un té. Sono ancora nello spazio maschile, in una kahvehane. Lo so che non è normale, che sono fuori dal tessuto sociale, dalla logica degli abitanti. Ci sediamo sul retro, dove il mio registratore può agire senza troppi disturbi e parliamo per un'ora e mezza. Quando esco mi viene in mente che forse l'indirizzo “viale Lungo le Mura” non è un toponimo ufficiale, che risulta dalla cartografia della città, ma un modo semplice, logico per chiamare una strada che corre effettivamente lungo le mura. Mi delizia il pensiero che quel toponimo sia stato fornito in un contesto più o meno ufficiale (sito internet della rete di associazioni Rom europee), ma che in realtà presuppone un'interazione con chi abita il luogo o forse solo un po' più intuito di me.

domenica 20 giugno 2010

Picnic fuori porta. Vietato fotografare

Questo fine settimana abbiamo provato l'esperienza di prendere l'auto e guidare fino a che non siamo usciti fuori da Istanbul. Vomitati fuori dalla metropoli che credevamo interminabile, ci siamo trovati a salterellare su strade inusitate e malridotte a salutare le mucche acquatiche dal finestrino, per poi approdare in questo centro abitato da polizia, educatori e militari; un centro di riabilitazione per giovani e bambini in cui non ci siamo fermati per raggiungere subito i ragazzini al pic-nic organizzato sulla riva di uno stagno in una foresta protetta; uno spazio in cui i ragazzini erano controllati a vista dalle guardie. I bambini avevano numerose cicatrici sulle braccia. L'ho realizzato quando una di loro si è presa la briga di salutarci uno ad uno con due baci sulle guance e un hoş geldiniz, pantaloni bianchi maglietta bianca, capelli neri con un ciuffo maschile, un sorriso di pace e tutti quei tagli, piccoli, ordinati, uno sotto all'altro. Poi ho guardato altre braccia e ho capito perché appena arrivati la prima cosa che gli educatori ci hanno detto è stata di fare attenzione ai taglierini che ci eravamo portati per il laboratorio di creta.

Ci siamo seduti sui tavoli e abbiamo mangiato dei fagioli, dell'insalata di yogurt e aneto, del pane e dell'anguria, guardandoci attorno sull'attenti come animaletti, nel caos dei tamburelli dei canti e dei balli. Delle ragazzine Rom fieramente ballando marcavano la loro appartenenza etnica e la loro superiorità nel canto, nel ballo nel ritmo, nei suoni con le mani, nella sensualità. Le ragazzine volevano le sigarette, volevano baciare, volevano sposare. Volevano scappare nel bosco. Gli psicologi, uno biondo che pare fosse un turco-russo, una donna con i capelli perfetti castano chiaro occhi azzurri, guardavano seri dai lati del marasma; talvolta partecipavano alle danze. Una ragazzina dallo sguardo triste e gli occhi verdi e grandi ha deciso che sarei stata io la sua mascotte e mi trascinava ovunque: dal bagno al banco con le angurie alla danza. Lo stesso è successo ai miei compagni: ognuno di loro era stato adottato. Lo yabanci-pet, cosa piuttosto diffusa tra i bimbi di qui. Abbiamo iniziato il nostro laboratorio di danza ma è durato pochissimo: tre esercizi di raffinata ricercatezza non potevano competere con Kazim Koyuncu e altre popolarissime canzoni da ballare. Le ragazze hanno apprezzato, i giochi di fiducia, di contatto, di abbandono del corpo, ma poi via a sgambettare in riga e schioccare le dita.

Un'esperienza indimenticabile, importante, con la quale ho incontrato da vicino una realtà di cui sentivo solo parlare. I bambini che hanno problemi con la giustizia, ma che ritirano la pagella, ma che a differenza dei bambini di un qualunque dove, quando commenti i voti ti rispondono “Ma tu non crucciarti, che questo è un mio problema, non il tuo!”.

giovedì 6 maggio 2010

Gegen die Wand-Contro le mura di Teodosio


Lo Stato prenderà misure per venire incontro ai bisogni dell'abitazione nel contesto di un piano che tiene conto delle caratteristiche delle città e delle condizioni ambientali e porterà avanti progetti abitativi di massa.” Così recita l'articolo 57 della Costituzione Turca, citato orgogliosamente sulla versione inglese del sito del TOKİ, Toplu Konut İdaresi, l'ente governativo che si occupa della promozione dell'edilizia sociale. Secondo quanto riferisce Rroma, sul proprio sito dedicato alla cultura e alla vita dei Rom di tutto il mondo, il TOKİ ha un ruolo predominante in quello che sta accadendo a quartieri come Sulukule (Fatih), abitati da un millennio dalla popolazione Rom.

A Sulukule io e Jahela siamo state ieri a cercare di capire che cosa significa materialmente spostare gli abitanti da un quartiere all'altro. Meglio di tutto parlano le foto (v. galleria fotografica). Ma anche le persone a cui abbiamo chiesto informazioni su come arrivare là: il gestore di un giardino del tè che dice in una risata amara che sì, Sulukule era dietro alla moschea, ma adesso sedetevi e bevete un çay, povere care.

Ma noi proseguiamo e troviamo una guida, che ci scorta fra quello che rimane di Sulukule: tanto poco da rendere difficile immaginare come poteva essere. Kayhan enumera ad uno ad uno: qui c'era il bar, qui la piazza, là la sala da ballo (Sulukule era famosa per questo). Ma io non vedo niente. Solo ruderi eretti qua e là in mezzo al niente seminascosti dalle recinzioni di un immenso cantiere. Sembra di assistere ad un funerale, al funerale di una vita collettiva, non di un solo individuo. Ho davvero il groppo in gola.

La distruzione delle abitazioni è cominciata due anni fa, e l'intento era di finire in tempo per il 2010, anno di Istanbul capitale europea della cultura. Il piano edilizio per quest'area prevede la costruzione di nuove case, probabilmente inaccessibili per i vecchi abitanti del quartiere. Che riceveranno 500 Lire (250 €) per ogni metro quadrato abbattuto. Soldi con i quali forse potranno permettersi un alloggio nelle penosissime periferie della metropoli, forse a una quarantina di km da qui. Sempre secondo quanto riporta Rroma, questi soldi non verranno pagati tutti in un'unica soluzione. E come potrebbe, la Turchia, con un bilancio tanto malandato. A coloro che adesso non hanno più la casa, a coloro che le ruspe hanno portato via l'attività, non rimane altro che sperare che si ricordino di pagare fino all'ultimo kuruş. Questa suggestiva zona della città, a ridosso delle mura di Teodosio, non sarà più sporca e dedita alla prostituzione, dice Kayhan, che è un agente immobiliare ed è molto ottimista su quella che chiama la riqualificazione di Sulukule.

Pare che adesso la distruzione della zona abbia subito un arresto dovuto al ritrovamento di importanti reperti archeologici. Gli operai che abbiamo incontrato lì dicono che si tratta di una bugia e che qui si continua. Vedremo, se laddove la protesta e l'indignazione civile non hanno potuto, potranno vecchi oggetti rovinati dal tempo, pitali e anfore.

Il sito del TOKİ pubblica in inglese i discorsi che il premier Recep Tayyıp Erdoğan ha rilasciato sulle politiche abitative. In uno di questi si vanta di come la Turchia sia stata trasformata in un grande sito in costruzione, di come i progetti del TOKİ permetteranno, attraverso emolumenti vantaggiosi, alle persone meno abbienti di mescolarsi al tessuto cittadino, accedere allo stato sociale, passare dalla periferia al centro.