"Il mio vicino di casa dev'essere disoccupato come me", ho concluso infine tra me e me, dato che è a casa nelle ore in cui anch'io sono a casa. Non ci conosciamo ancora, ci salutiamo sul pianerottolo e sulle scale e i rumori che fa in bagno al mattino mi svegliano bruscamente. Tutto qua. In casa credo che abitino due uomini, una donna e un bambino piccolo, che piange spesso in modo molto teatrale. Vengono ad occhio e croce dal Bangladesh, o da qualche parte giù di lì.
Ieri sera noi scendevamo precipitosi e festanti le scale per andare in centro a bere qualcosa. Da quando siamo qui forse è la seconda volta che lo facciamo. Non è molto facile sentirsi vivi quando non hai un soldo in tasca, soprattutto d'inverno. Ma ieri sera ho deciso che avrei dimenticato le mie frustrazioni e mi sarei aggiunta alla fiumana di gente che ogni notte invade i locali suggestivi dei navigli e chiacchiera spensierata. Sarei stata semplicemente una in più. Era una serata bellissima, con il vento che portava un odore candido di montagna, le stelle e la luna a Stregatto e una strana calma, voglia di passeggiare.
Torniamo un attimo alla scala e al mio vicino, però. Il mio vicino stava scendendo anche lui la scala insieme ad un altro –presumibilmente quello che abita con lui. Entrambi tenevano in mano un mazzo di rose. Per la prima volta la sua faccia è uscita dal quadro che rappresentava il mio vicino di casa e ha ricomposto l'immagine del venditore ambulante di rose. Ci siamo salutati e siamo andati nella stessa direzione, noi più veloci, ci siamo persi quasi subito.
Una volta seduta nel mio bel locale sui navigli, a sorseggiare splendide bevande in cocci sontuosi, locali che si sforzano di sembrare poveri, come le vecchie taverne, ma difficilmente accoglierebbero chi quelle taverne rendeva così calde: i poveri derelitti, pieni di vino e con l'alito puzzolente, che stanavano a fatica le monetine per pagare un ultimo goccio in fondo a tasche sdrucite e luride. Chissà se oggi i nuovi disperati siamo noi: ben vestiti con le giacche firmate che qualche parente ci ha regalato e che ci vergogniamo a mettere, parlando di esperienze all'estero in inglese, seduti elegantemente sorseggiando assaporando.
Ho cercato timidamente nelle facce dei venditori di rose il mio vicino di casa. Non c'era, meglio così. Non so se avrei sostenuto l'imbarazzo di trovarmi dall'altra parte, anche se solo eccezionalmente. Dalla parte di quelli che spesso sono stronzi e ti mandano via in malo modo, e spesso esagerano con l'affabilità e ti trattano come un idiota, e magari si aspettano pure che ti ricordi di loro solo perché sono stati gentili.
Quando ho detto ad Alex: "Forse potrei vendere anch'io fiori sui Navigli." lui mi ha accusata di voler rubare il lavoro ai pakistani.
"..metterci nei loro panni, un'impresa snervante che non riesce mai perfettamente." C.Geertz
sabato 31 dicembre 2011
domenica 18 dicembre 2011
Detto altrimenti..
Ecco qui il link ad un articolo di Ileana Montini sul sito womenews.net nel quale mi sono imbattuta per caso facendo ricerca sull'atteggiamento materno oblativo. Contiene un punto di vista affine al mio, che sono solita sintetizzare nella parola "dialogo". Lo stesso concetto attraversa l'intero articolo e in particolare è esattamente quello di cui parla il citato pensiero del sociologo Stefano Allievi, quando parla di "conflitto necessario".
sabato 17 dicembre 2011
Fotti il sistema Babilonia.
Con un po' di fiatone riusciamo ad accodarci alla manifestazione antirazzista prevista per oggi a Milano. Era già partita da piazzale Loreto da una mezz'ora abbondante, ma noi siamo riusciti ad intercettarla anche grazie all'elicottero della polizia che ci ronzava sopra. Un elicottero?! Tralascio di commentare.
La manifestazione faceva parte della mobilitazione globale contro il razzismo, e non poteva cadere in un momento più propizio, visti gli ultimi fatti razzisti che hanno intristito il nostro paese.
Sì, intristito: immediatamente dopo il dolore e la rabbia, è la tristezza il sentimento che si prova. O meglio che provano tutti coloro che pensano di impegnarsi ogni giorno, in ogni piccolo atto, a superarsi, a mettersi in discussione, a distruggere ogni germe di pregiudizio, a purificarsi per essere pronti ad incontrare l'Altro, e a farsi avvicinare. Invece questi eventi distruggono tutto, la cura discreta che mettiamo nelle nostre piccole azioni, le mani che tendiamo quando siamo sicuri di mantenere la presa. Tutti quei piccoli gesti che facciamo pensando di costruire il mondo che ci piace e in cui vorremmo vivere. La violenza è un trauma che con un'impronta grossolana abbatte i modesti ponti su cui ci sentivamo ormai al sicuro, che ci facevano dire, come in questo caso specifico, "i rapporti con i Senegalesi non sono problematici".
I problemi creati dagli omicidi di Firenze, infatti, li ho conosciuti oggi in manifestazione, dalla quale sono tornata a casa piuttosto triste. Strano per una manifestazione. Ma questa era senz'altro di un tipo speciale, premetto e sottolineo, date le circostanze. C'era molta rabbia e durezza negli sguardi, ma anche silenzi e niente aria di festa. E naturalmente la comunità migrante maggiormente rappresentata era quella dei Senegalesi.
Quando il corteo sosta davanti alla Stazione Centrale, un gruppo di manifestanti africani si schiera su due file sui gradoni delle aiuole. Uno di loro brandisce un cartello che recita: "Fuck Babylon System". Capisco il significato letterale, ma dato che sono ignorante, e trovandola una buona occasione per scambiare qualche opinione con una di queste persone, mi avvicino all'uomo del cartello e armata della mia più cretina ingenuità chiedo cosa significa. Lui mi risponde subito, traducendomi dall'inglese ("Fuck vuol dire vaffanculo, fottiti..") e io credo di percepire un certo scherno compatito nel suo modo di parlarmi. Ma continuo, spiegandomi che in realtà non so cosa significhi Babylon. E lui, proseguendo con quel tono arrogante, mi canzona "Ma come, non sai che cos'era Babylon? A scuola lo avrai imparato, no?" Ora mi sta apertamente prendendo per il culo, ma io non me ne vado e voglio sapere che cazzo significa Babylon in quella frase. Finalmente sbotta e sciorina un elenco di paesi capitalisti, mentre io mi rendo conto amaramente che usa con me quel tono che si usa di solito con le persone che si ritengono avversari politici, ideologici o semplicemente ignoranti e reazionari. Mi dice "Ascolta un po' Bob Marley, sai, che ti fa bene." Il suo disprezzo mi fa male al cuore. Mi difendo: "Ma io ascolto Bob Marley." "Ascolti Bob Marley e non sai cos'è Babylon?" dice giustamente lui, e aggiunge: "Bob Marley dice Babylon System is the Vampire. Sai cosa fa un vampiro? Non uccide, ti tiene in vita e ti succhia il sangue" dice, mentre la sua mimica mi dà l'impressione che sia tutta colpa mia. "Guarda che non è colpa mia, gli dico, anch'io sono vittima del capitalismo, anch'io sono esclusa dal lavoro, da mille garanzie. Non ti arrabbiare con me." Alex, il mio ragazzo, mi trascina via e mi consiglia di leggere il libro di uno psicologo che sa lui. Io senz'altro mi lascio accompagnare perché trovo molto ridicola l'eventualità che in questa manifestazione un'italiana e un senegalese si mettano a litigare. Ma sono amareggiata.
La manifestazione è un'occasione per portare in piazza le proprie esigenze, le proprie opinioni, le proprie sofferenze. La comunicazione con chi sta fuori è centrale e da ricercare. E' il luogo giusto per avvicinarsi a realtà che non si conoscono bene e alle persone che vi ruotano attorno. E' un'opportunità unica, dirompente. Non serve, o non serve solo, a rinforzare il senso di identità della comunità degli attivisti. Perciò è altamente probabile che chi manifesta si imbatta in persone poco familiari con le questioni portate avanti, oppure lontane per ideologia ma che, improvvisamente sensibilizzati, facciano il loro tentativo di cambiare punti di vista. Il manifestante dovrebbe accogliere come successi queste evenienze e mantenersi pronto a gestirle. Adesso io non voglio dire di essere nuova all'antirazzismo, altrimenti la mia vita fin qui non avrebbe senso, a partire da questo stesso blog. Ma non rientro in nessun gruppo definito che lotta a fianco di un determinato gruppo di migranti. Non saluto come nessun gruppo x, non mangio come loro, non prego come loro, e non faccio come nessun altro una serie di cose che determinano il mio posizionamento culturale che sarebbe pedante provare ad elencare qui. Credo di assomigliare piuttosto ad un'italiana. Questo tuttavia non è di ostacolo alcuno al mio antirazzismo, alla mia ricerca, al mio tentativo quotidiano di avvicinamento all'altro. Per quanto insieme a tante cose brutte, è nata nella cultura occidentale la maggior parte delle idee e dei valori in cui credo (democrazia, parità dell'uomo e della donna, diritti dell'infanzia, autodeterminazione dei popoli..).
Non voglio essere esclusa da un dialogo solo perché non so cosa quel signore intendesse per Babylon. E poi. Non voglio vedere un ragazzo di colore urlare "Italiani" e poi fare tiè con le braccia. Perché gli Italiani non si sono messi dall'altra parte della barricata. E anche se io ho rivolto al ragazzo niente più che un sorriso sarcastico e un uomo che assisteva alla scena, anche lui senegalese, mi ha rassicurato "ma lui è un ignorante" al che ho replicato "e anche molto giovane", non mi è piaciuto che tutti quei ragazzini poco dopo abbiano cominciato a inneggiare ad Allah..insomma, cos'è questa confusione? cosa c'entra Allah??
La compostezza di molti uomini e donne che partecipavano alla manifestazione non vorrei in futuro cedesse il passo all'esaltazione e grossolanità di questi massimalisti. Il dialogo è fatto di delicatezza e di cura del dettaglio.
Ho paura di non essere più in grado di manifestare il mio antirazzismo, e di doverlo fare solo tramite azioni dimostrative, grossolane, che rendano ben chiara la mia appartenenza ideologica. Il mio ideale è però il dialogo, il confronto, l'approfondimento. Come fare?
Lasciando la manifestazione svicoliamo e troviamo un ristorantino "etnico". Guardiamo dentro ed è senegalese. Ho paura che agli avventori e al proprietario non piaccia avere clienti italiani oggi. Invece esce e ci dà il benvenuto. Noi diciamo che stavamo solo curiosando. Gli rivelo il mio timore. Lui mi rassicura, che in 16 anni non ha mai avuto problemi in Italia. Non è l'azione di un pazzo che cambierà le cose. Io non sono d'accordo sul chiamarlo pazzo. Pazzo è chi non si rende conto di cosa sta facendo. E di nuovo ho la sensazione che ho sbagliato a comunicare, che avrei dovuto dire sì sì, un pazzo e lasciare tutto così. Adesso ho proprio i complessi. In realtà ottengo quello che voglio: l'uomo argomenta e spiega quello che intendeva. Poi arriva una sua amica e il discorso si interrompe. Ci saluta con una stretta di mano e un arrivederci a presto.
Avrei tanta voglia di sentire cosa ne pensano le persone che leggeranno questo post, un po' confuso e lungo. Ne ho davvero bisogno come l'aria.
venerdì 16 dicembre 2011
venerdì 25 novembre 2011
Un altro genere
Quest'anno ho celebrato anch'io il T-Dor, Transgender Day of Remembrance. In viale Zara 100, sede del consiglio di zona, dove è stata istituita una piccola ma intensa mostra fotografica, sfacciata e toccante al punto giusto. Perché qui? La Zona Due è densamente abitata da persone transgender e probabilmente a molti di noi che vi abitiamo capita di incontrarli al supermercato o dal macellaio, e se non siamo pervasi da una sottile disapprovazione, possiamo provare ad immaginarci le loro vite, come vivono la quotidianità di una scelta tanto potente. Settimane fa vidi un documentario sui transgender ad Haiti, così disinvolti nel dichiarare che erano gli spiriti del vodoo che avevano deciso così per loro, decretandone un destino da un lato di privilegio, per l'accesso diretto al mondo degli spiriti, da un lato di pena, per l'emarginazione sociale e la sofferenza del corpo. Non è tanto dissimile da quello che accade dalle nostre parti, dove ad una chiara idea e fiducia nella propria identità sessuale e di genere, si accompagna l'esclusione dal mondo del lavoro e la vita sotterranea e oscura della prostituzione. Il lavoro è forse il terreno comune che fa da ponte, o meglio la sua inaccessibilità, che è trasversale a parecchie fasce della società (tra cui quella della donna-quasi-trentenne-conunesperienzatroppovariegata) e che crea solidarietà. Nel dibattito di ieri sera, tra gli appassionati relatori c'era Massimo Mariotti, che alla Cgil si occupa di diritti dei GLBT. Mariotti ravvisa non un'aumentata tolleranza, semmai una più intensa indifferenza, figlia del menefreghismo e dell'individualismo dell'Italia di oggi. Altro intervento interessante è stato quello di Maurizio Bini, andrologo al Niguarda, oltre che esperto di sessuologia e genere ed etnicità – e di tante altre cose– che ravvisa nella connotazione machista della nostra cultura la causa dell'incremento del numero di trans in Italia. Sarebbe proprio la forma repressiva di sessualità tipica del nostro Paese a fornire la condizione ottimale per il transessualismo. Perché diventa difficile riconoscersi nell'uno o nell'altro genere, e nei ruoli che il sistema affida loro. Una curiosità: chi sapeva che a Teheran il transessuale che si fa operare è più ben accetto rispetto all'omosessuale, che invece viene condannato a morte? La ragione è che il trans, rientrando in uno dei due generi, non mette in discussione il sistema binario dei sessi.
giovedì 10 novembre 2011
Il Paradiso dell'Antropologo-Turismo metropolitano
Ufficio anagrafe di Milano Zona 2, via Padova 118.
Una grande sala d'attesa, stracolma. Ottengo il numero 77; il tabellone indica il 26. Metto la mente in modalità "pazienza" e decido che quella sarebbe stata una buona occasione per osservare la gente che abita nel mio nuovo quartiere. Faccio una rapida statistica dei presenti: 85% di stranieri, 15% di italiani, di cui due su tre sono anziani.
Mi siedo accanto ad una signora asiatica (filippina?). Una conoscente si avvicina e le due cominciano a parlare ad alta voce nella loro lingua e io rimango in mezzo.
Da quando, ragazzina, mi sono scoperta piacevolmente incuriosita dalla novità dell'arrivo di persone di tante lingue e colori, non avevo mai pensato di poter provare un giorno questa sensazione.
Mi guardo intorno e cerco gli italiani presenti. Scorgo una signora anziana con lo sguardo perso nel vuoto. Me la figuro venti anni fa nello stesso ufficio mezzo vuoto che chiacchiera in dialetto con le coetanee.
Mi balena nell'animo un fastidio. Leggero, fugace. Ma l'ho visto bene. Provo vergogna, cerco di razionalizzare. E' razzismo questo forse? Sarà stata una pazzia fantascientifica della mia immaginazione ma per un attimo mi sono sentita in minoranza nel mio Paese.
E adesso rifletto. A guardare bene, in quella stanza non c'era un 15% di italiani e una restante percentuale di stranieri, ma un 15% di cinesi, un 15% di marocchini, un 15% di bengalesi e così via. Ognuno di loro provava forse la mia stessa sensazione di straniamento.
Ciononostante non posso fare a meno di comparare la sala d'attesa di ieri con una festa per le famiglie vista a Bruxelles, in cui tutte le componenti culturali della società belga erano ben riconoscibili, eppure tutti parlavano francese e tutti partecipavano alla stessa festa.
Questo "tutti" è una costruzione, sicuramente si trattava solo di famiglie con figli piccoli, non so dire cosa ne fosse dei venti-trentenni, essendo rimasta così poco a Bruxelles. E poi parlare il francese ha un significato ben preciso nella società belga, legato a dinamiche anche di repressione culturale e forse di assimilazione per i migranti. Ma a nessuno era vietato di essere contemporaneamente musulmano, rom o africano. E la festa era davvero gioiosa, attraversandola si aveva la sensazione che il dialogo fra culture fosse possibile.
Mi piace avere questo punto di vista critico sull'argomento, perché penso che sia davvero importante e delicato, e se si vuole davvero inaugurare un dialogo che non sia un fantoccio messo su frettolosamente per venire incontro ad un'urgenza, quella di una democrazia idealizzata, bisogna davvero affinare il proprio sguardo e il proprio linguaggio e non attestarsi su ingenuità contraddittorie e facilmente smontabili dal razzista di turno.
Mi riferisco ad un atteggiamento di certa sinistra intellettualoide che propugna un'idea di sé di apertura mentale e progressismo. Si sposa la causa migrante e proletaria senza mai averla vissuta in prima persona, senza indagare gli interstizi, le implicazioni minime. Migranti e proletari diventano loro malgrado semplici concetti per una proiezione brillante di sé. Risultando così sfruttati per l'ennesima volta, dal radical chic di turno. Da chi ha le mani pulite e candide come il culetto di un neonato. In realtà andando a vedere da vicino assomiglia più che altro ad una specie di turismo grossolano e pietista.
Da questo punto di vista potrei vantarmi di vivere in un quartiere multietnico, dicendo in giro che è una figata, che tutti si vogliono bene e non ci sono problemi e i leoni non mordono come in certe raffigurazioni bibliche dei testimoni di Geova.
PUBBLICITA' (antropologica)
Andando a studiare il Diverso, l'Altro all'università si affinano tutti gli strumenti cognitivi per capire l'Altro, per pensarlo, per non farsi trarre in inganno dai tranelli della nostra mente così strutturalmente votata al pregiudizio. Il rischio è però quello di diventare troppo raffinati per non apparire ridicoli, effeminati e insensati alle persone alle quali ci prefiggevamo di avvicinarci. Allora capita di trovarsi in un luogo abitato da stranieri e sentirsi molto cool, parlare con un operaio e raccontare il fatto come se stessimo scrivendo una cartolina. Il buon senso antropologico aiuta a svelare l'inganno e tiene tutti quanti in guardia. In questo senso vivere qui è per me davvero un'occasione, per purificarmi davvero dal pregiudizio, chiamare le cose con il loro nome e intraprendere un dialogo sincero con la multiculturalità in cui sono immersa.
Una grande sala d'attesa, stracolma. Ottengo il numero 77; il tabellone indica il 26. Metto la mente in modalità "pazienza" e decido che quella sarebbe stata una buona occasione per osservare la gente che abita nel mio nuovo quartiere. Faccio una rapida statistica dei presenti: 85% di stranieri, 15% di italiani, di cui due su tre sono anziani.
Mi siedo accanto ad una signora asiatica (filippina?). Una conoscente si avvicina e le due cominciano a parlare ad alta voce nella loro lingua e io rimango in mezzo.
Da quando, ragazzina, mi sono scoperta piacevolmente incuriosita dalla novità dell'arrivo di persone di tante lingue e colori, non avevo mai pensato di poter provare un giorno questa sensazione.
Mi guardo intorno e cerco gli italiani presenti. Scorgo una signora anziana con lo sguardo perso nel vuoto. Me la figuro venti anni fa nello stesso ufficio mezzo vuoto che chiacchiera in dialetto con le coetanee.
Mi balena nell'animo un fastidio. Leggero, fugace. Ma l'ho visto bene. Provo vergogna, cerco di razionalizzare. E' razzismo questo forse? Sarà stata una pazzia fantascientifica della mia immaginazione ma per un attimo mi sono sentita in minoranza nel mio Paese.
E adesso rifletto. A guardare bene, in quella stanza non c'era un 15% di italiani e una restante percentuale di stranieri, ma un 15% di cinesi, un 15% di marocchini, un 15% di bengalesi e così via. Ognuno di loro provava forse la mia stessa sensazione di straniamento.
Ciononostante non posso fare a meno di comparare la sala d'attesa di ieri con una festa per le famiglie vista a Bruxelles, in cui tutte le componenti culturali della società belga erano ben riconoscibili, eppure tutti parlavano francese e tutti partecipavano alla stessa festa.
Questo "tutti" è una costruzione, sicuramente si trattava solo di famiglie con figli piccoli, non so dire cosa ne fosse dei venti-trentenni, essendo rimasta così poco a Bruxelles. E poi parlare il francese ha un significato ben preciso nella società belga, legato a dinamiche anche di repressione culturale e forse di assimilazione per i migranti. Ma a nessuno era vietato di essere contemporaneamente musulmano, rom o africano. E la festa era davvero gioiosa, attraversandola si aveva la sensazione che il dialogo fra culture fosse possibile.
Mi piace avere questo punto di vista critico sull'argomento, perché penso che sia davvero importante e delicato, e se si vuole davvero inaugurare un dialogo che non sia un fantoccio messo su frettolosamente per venire incontro ad un'urgenza, quella di una democrazia idealizzata, bisogna davvero affinare il proprio sguardo e il proprio linguaggio e non attestarsi su ingenuità contraddittorie e facilmente smontabili dal razzista di turno.
Mi riferisco ad un atteggiamento di certa sinistra intellettualoide che propugna un'idea di sé di apertura mentale e progressismo. Si sposa la causa migrante e proletaria senza mai averla vissuta in prima persona, senza indagare gli interstizi, le implicazioni minime. Migranti e proletari diventano loro malgrado semplici concetti per una proiezione brillante di sé. Risultando così sfruttati per l'ennesima volta, dal radical chic di turno. Da chi ha le mani pulite e candide come il culetto di un neonato. In realtà andando a vedere da vicino assomiglia più che altro ad una specie di turismo grossolano e pietista.
Da questo punto di vista potrei vantarmi di vivere in un quartiere multietnico, dicendo in giro che è una figata, che tutti si vogliono bene e non ci sono problemi e i leoni non mordono come in certe raffigurazioni bibliche dei testimoni di Geova.
PUBBLICITA' (antropologica)
Andando a studiare il Diverso, l'Altro all'università si affinano tutti gli strumenti cognitivi per capire l'Altro, per pensarlo, per non farsi trarre in inganno dai tranelli della nostra mente così strutturalmente votata al pregiudizio. Il rischio è però quello di diventare troppo raffinati per non apparire ridicoli, effeminati e insensati alle persone alle quali ci prefiggevamo di avvicinarci. Allora capita di trovarsi in un luogo abitato da stranieri e sentirsi molto cool, parlare con un operaio e raccontare il fatto come se stessimo scrivendo una cartolina. Il buon senso antropologico aiuta a svelare l'inganno e tiene tutti quanti in guardia. In questo senso vivere qui è per me davvero un'occasione, per purificarmi davvero dal pregiudizio, chiamare le cose con il loro nome e intraprendere un dialogo sincero con la multiculturalità in cui sono immersa.
giovedì 3 novembre 2011
Il corpo che prega
foto tratta da questo reportage di RT |
Si capisce quante aspettative riponessi in questo spettacolo. Invece, mentre cercavo di capire il perché quei due si fossero travestiti da vedova Assunta, ho assistito all'enciclopedia dello stereotipo del(la) credente cattolico(a). Teatralmente parlando non funzionava l'idea della gag clownesca dentro alla chiesa, che poi diventava parco fiorito dove le due vecchiette si rotolavano (?) per risolversi in una posa stereotipata di Pietà. Le due figure con le mani giunte davanti alle candele, più che supplicare Dio sembravano chiedere al pubblico di ridere, annunciando quello che sarebbe successo il secondo successivo. Ad un certo punto una delle due vedove spalanca la bocca come per cacciare un urlo. Ma non grida! Lo spettacolo si conclude con le due figure che rivelano la loro virilità spogliandosi completamente, estraendomi un "OH" dalla gola, mentre le luci si spengono sui due che sorridono con la mano sul rispettivo pisello. Peccato, un'occasione sprecata –non per via della mano– per quello che poteva essere una etnografia danzata del corpo nella preghiera cattolica italiana. Eppure un momento della coreografia aveva soddisfatto le mie aspettative, con le due in preda alla noia della predica o quando si scambiano il segno della pace, sempre loro due, non trovando altre mani.
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sabato 24 settembre 2011
Antropologia del Parcheggio
Cosa succede in un paesotto come il mio? Non molto. Sembra. In realtà tutto. In piccolo? No, a volte in modo più drammatico, perché piccolo è il contenitore. Nell'ultimo mese ho potuto studiare un interessante e contemporaneo caso che per essere compreso ha bisogno del punto di vista dell'antropologia dello spazio. Dieci anni fa qui c'era un bosco. Di fronte a ciascuna delle finestre che da una mappa potevano sembrare vicine, solo verde. Fresco d'estate, giochi avventurosi, lo spazio della casa che si estende fuori da un cancello sempre socchiuso. Gli amici che parcheggiano alle soglie del bosco, i fidanzati che attendono nella penombra. Oggi un parcheggio, oltre a un pezzo di verde, alti lampioni da stadio, una cinta di ferro che si è presa tutto quanto le spettava di diritto. I cancelli si sono chiusi, gli amici vengono ricoverati con le loro auto in fretta e furia nei cortili per non occupare per troppo tempo la strada. Il parcheggio giace di fronte a noi triste, ma forse siamo noi a distenderci sopra il nostro sguardo di tristezza. È come un teatro, vi avvengono cose, che non avevamo chiesto di vedere. Scopriamo di avere dei vicini, dei dirimpettai. Troppo lontani per scambiarci il sale o le ricette, abbastanza vicini da sapere di condividere qualcosa. Uno spazio, appunto. Che però non può diventare nostro. Né di noi da questa parte, esclusi dal muro di cinta. Né di loro dall'altra, seppur più prossimi all'ingresso, perché da questo spazio si sentono minacciati.
Adesso ci sono dei ragazzotti che quando hanno abbattuto il bosco forse avevano appena imparato a camminare. Sono qui e pensano che questo posto sia destinato a loro, che appartenga a loro da sempre. Non si accorgono della profanazione. Ci insultano e urlano. Hanno incominciato a fare danni. La parte più frustrante del rapporto di questa gente con questo spazio. Dal punto di vista legale non possiamo avanzare nessuna pretesa sull'uso di questo terreno. Abbiamo subìto inermi la sua trasformazione. Lo spazio è stato razionalizzato da parte dell'amministrazione comunale, che ne ha deciso la destinazione. Abbiamo seri dubbi sul fatto che conoscesse bene le abitudini e i bisogni degli abitanti della zona e ne potesse anticipare le risposte in termini di comportamenti funzionali. Di fatto il parcheggio non è sfruttato, l'amministrazione ha investito male i suoi soldi e l'intervento è stato un insuccesso perché giunto da fuori, da mano frettolosa, funzionale e straniera senza tenere conto della felicità dei cittadini. Come se la felicità fosse un valore secondario. Ipocriti, è l'unica cosa a cui pensiamo incessantemente.
Tutto questo mi ricorda gli spostamenti forzati di popolazione, la costruzione di ghetti per il sottoproletariato nelle grandi città, la decisione di mantenere sotto-sviluppate alcune zone di un Paese a favore di altre.
I vicini che non si conoscevano adesso hanno deciso di reagire collettivamente al disagio. Adesso la depressione lascerà spazio alla sensazione di essere più forti, di non farsi schiacciare da dei piccoli anatroccoli ignoranti. Vediamo come andrà.
Intanto abbiamo visto come lo spazio abbia influito sulla vita delle persone
1)quando era bosco, creando intimità e confini meno netti tra dentro la casa e fuori
2)quando era parcheggio, delimitando, affrettando, separando, angosciando, chiudendo la casa dentro i propri confini. Ma esponendo la casa ad altre case, nuclei isolati.
3)Quando era terreno di battaglia, creando unità, scopi comuni, senso civico condiviso, identità di vicinato.
Chissà se i desideri e le azioni degli abitanti potranno a loro volta incidere sullo spazio e trasformarlo in cortile, piazza, punto di ritrovo.
martedì 14 giugno 2011
Lo sguardo gentile del Parlamento
Le tanto attese elezioni sono finalmente passate. La tensione nelle strade, dopo una domenica elettorale semideserta di autobus vuoti in attesa alle fermate, è scesa. Niente più pulmini, niente più musica a tutto volume né raduni di partiti estemporanei di cui finora ignoravo l'esistenza, come questo dell'Hepar a Kadıköy. I –per fortuna– pochi presenti recitavano in coro il discorso di Atatürk alla gioventù, tenendo entrambe le braccia alzate a mo' di saluto, e sembravano davvero un po' invasati.
Adesso ci sono le buone notizie. Vero che ha vinto l'Akp e se fossimo in Italia non mi augurerei la vittoria di una simile forza politica. Ma qui siamo in Turchia, e devo pensare con un altro cervello. La mancanza di scrupoli negli investimenti e nei progetti edilizi che caratterizza questo partito mi fa paura, come ho già scritto altrove. Ma forse questa mancanza di scrupoli, queste tigri anatoliche che assomigliano di più all'Europa di tanti altri sbandieratori, in virtù dell'interesse al guadagno forse possono davvero migliorare questo Paese, loro malgrado. Non sarà certo un cambiamento profondo e gravido di vantaggi per la democrazia, ma per il momento è quanto di meglio si possa augurare al Paese. Nel suo discorso a scrutini conclusi, Erdoğan si è rivolto alla nazione parlando ai fratelli Curdi, Aleviti, Laz, Sunniti, Circassi. Ha parlato di diritti delle minoranze. I curdi dal canto loro hanno festeggiato la loro piccola grande vittoria (36 candidati entreranno in Parlamento) e la disfatta del partito Repubblicano di Kılıçdaroğlu. Sui giornali sensibili ai diritti delle minoranze è stato molto apprezzato il discorso del capo del Governo: "Magari tutti parlassero dal balcone!". I discorsi di Erdoğan dal balcone sono ormai un appuntamento fisso: per la terza volta, dopo la sua vittoria, è uscito sul famigerato balcone della sede del suo partito e ha parlato alla nazione. Il compromesso con il Partito della Giustizia e dello Sviluppo è visto come possibile, diversamente con il Chp, benché il suo segretario generale sia curdo e alevita.
Ma le buone notizie non sono finite qui: ben 78 donne hanno conquistato una poltrona in Parlamento. Tra di esse, ci tengo a menzionare Leyla Zana, finora detenuta dopo che 17 anni fa, dopo la sua elezione a deputata, aveva pronunciato una frase in curdo durante il suo giuramento. Il suo giuramento è pertanto atteso con curiosità. Il Bdp, partito democratico della pace, filo-curdo, ha sostenuto l'elezione della candidata indipendente Sebahat Tuncel, eletta a Istanbul, nella foto qui sotto il giorno prima delle elezioni in una marcia a kadikoy.
Adesso ci sono le buone notizie. Vero che ha vinto l'Akp e se fossimo in Italia non mi augurerei la vittoria di una simile forza politica. Ma qui siamo in Turchia, e devo pensare con un altro cervello. La mancanza di scrupoli negli investimenti e nei progetti edilizi che caratterizza questo partito mi fa paura, come ho già scritto altrove. Ma forse questa mancanza di scrupoli, queste tigri anatoliche che assomigliano di più all'Europa di tanti altri sbandieratori, in virtù dell'interesse al guadagno forse possono davvero migliorare questo Paese, loro malgrado. Non sarà certo un cambiamento profondo e gravido di vantaggi per la democrazia, ma per il momento è quanto di meglio si possa augurare al Paese. Nel suo discorso a scrutini conclusi, Erdoğan si è rivolto alla nazione parlando ai fratelli Curdi, Aleviti, Laz, Sunniti, Circassi. Ha parlato di diritti delle minoranze. I curdi dal canto loro hanno festeggiato la loro piccola grande vittoria (36 candidati entreranno in Parlamento) e la disfatta del partito Repubblicano di Kılıçdaroğlu. Sui giornali sensibili ai diritti delle minoranze è stato molto apprezzato il discorso del capo del Governo: "Magari tutti parlassero dal balcone!". I discorsi di Erdoğan dal balcone sono ormai un appuntamento fisso: per la terza volta, dopo la sua vittoria, è uscito sul famigerato balcone della sede del suo partito e ha parlato alla nazione. Il compromesso con il Partito della Giustizia e dello Sviluppo è visto come possibile, diversamente con il Chp, benché il suo segretario generale sia curdo e alevita.
Ma le buone notizie non sono finite qui: ben 78 donne hanno conquistato una poltrona in Parlamento. Tra di esse, ci tengo a menzionare Leyla Zana, finora detenuta dopo che 17 anni fa, dopo la sua elezione a deputata, aveva pronunciato una frase in curdo durante il suo giuramento. Il suo giuramento è pertanto atteso con curiosità. Il Bdp, partito democratico della pace, filo-curdo, ha sostenuto l'elezione della candidata indipendente Sebahat Tuncel, eletta a Istanbul, nella foto qui sotto il giorno prima delle elezioni in una marcia a kadikoy.
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Dedikodu
Con la mia solita incapacità diplomatica ho detto ai miei amici che rappresentavano in pieno il maschio turco, tutto-maschio, senza sfumature femminili. Diversamente da come avevo previsto, nessuno si è messo a ridere, e anzi, è calata su di noi un'atmosfera pesante e si stava quasi per consumare un piccolo litigio. Ho cercato di spiegare quello che intendevo, e cioè che ognuno di noi ha un lato femminile e un lato maschile, più o meno in armonia, con la prevalenza dell'uno o dell'altro. Uno teneva la bocca chiusa e continuava a mondare le carote, un altro fingeva di non essersela presa mentre il terzo insisteva nel dire che c'era stato un malinteso dovuto alla lingua.
Questa cosa mi fa tremendamente incazzare -scusate la parolina non proprio delicata- questo continuo usare la differenza (di lingua, di abiti) per giustificare ogni incomprensione, perché definisce un ostacolo insormontabile e decreta l'impossibilità di proseguire oltre. Oltre a segnalare che l'altro non ha alcuna motivazione a stabilire un dialogo e procede a gradoni, saltando i dettagli. Dato che non se ne usciva, avevo quasi cominciato a chiedere scusa per le mie parole offensive, quando mi è venuta un'idea geniale: fare esempi pratici. In effetti, neanche porre sul piano dell'astrazione qualcosa di cui non si ha un terreno comune con l'interlocutore può considerarsi un tentativo di comunicare. Allora ho raccontato di questi uomini che camminano come dei rettangoli indeformabili, con le braccia penzoloni distanti dal bacino almeno venti centimetri, emettendo versi schifosi o sputando, sedendosi esponendo con fierezza la fonte della loro mascolinità, e che al passaggio di minute e raffinate signorine sostano vomitando loro addosso il loro sguardo ferino, come se fosse un diritto, quello di cercare in ogni angolo di carne.
Attenzione, non sto generalizzando a tutti gli uomini che incontro, sto parlando del maschio tuttormoni che solo risponde alle caratteristiche qui trattate. Quando ho a che fare con questi personaggi mi chiedo se loro sappiano quello che mi passa per la testa, che non è "Brutto orco, levami gli occhi di dosso", ma "Quanto è ridicolo e inutile questo personaggio per il progresso dell'umanità, il mio unico dispiacere è se in casa sua è una specie di re".
Badate bene, questo post è sì poco più di un inutile pettegolezzo femminista neanche troppo originale, ma mi piaceva menzionare questo piccolo aneddoto perché indirettamente sto discutendo del corpo, della sua funzione sociale nonché le conseguenze della sua emancipazione sulla decadenza della virilità. Una chance non da poco per l'uomo, che finalmente ha l'occasione di sbrigliarsi dal ruolo così rigido impostogli dalla tradizione e reinventarsi, miscelando a piacere yin e yang, non dovendo più per forza masticare e parlare contemporaneamente. Tornando ai miei tre amici in cucina. Certo che eravamo in cucina e ognuno si dava da fare, ma non sono certo nè la cucina nè la romanticheria che compongono in me la prevalente parte femminile. Alla fine, con degli esempi un po' cretini, sono riuscita a riportare tutto su un piano ridanciano e la faccenda è morta lì. Il giorno seguente alla fermata del metrobus - dunque zona frequentatissima non solo da auto ma anche da pedoni in attesa - ho visto questo enorme manifesto e mi sono chiesta se quella povera ragazza non si sentiva un po' a disagio nel sapere che questi piccoli orsi nel scrutare il suo corpo sentano dentro di sé una specie di vittoria.
Questa cosa mi fa tremendamente incazzare -scusate la parolina non proprio delicata- questo continuo usare la differenza (di lingua, di abiti) per giustificare ogni incomprensione, perché definisce un ostacolo insormontabile e decreta l'impossibilità di proseguire oltre. Oltre a segnalare che l'altro non ha alcuna motivazione a stabilire un dialogo e procede a gradoni, saltando i dettagli. Dato che non se ne usciva, avevo quasi cominciato a chiedere scusa per le mie parole offensive, quando mi è venuta un'idea geniale: fare esempi pratici. In effetti, neanche porre sul piano dell'astrazione qualcosa di cui non si ha un terreno comune con l'interlocutore può considerarsi un tentativo di comunicare. Allora ho raccontato di questi uomini che camminano come dei rettangoli indeformabili, con le braccia penzoloni distanti dal bacino almeno venti centimetri, emettendo versi schifosi o sputando, sedendosi esponendo con fierezza la fonte della loro mascolinità, e che al passaggio di minute e raffinate signorine sostano vomitando loro addosso il loro sguardo ferino, come se fosse un diritto, quello di cercare in ogni angolo di carne.
Attenzione, non sto generalizzando a tutti gli uomini che incontro, sto parlando del maschio tuttormoni che solo risponde alle caratteristiche qui trattate. Quando ho a che fare con questi personaggi mi chiedo se loro sappiano quello che mi passa per la testa, che non è "Brutto orco, levami gli occhi di dosso", ma "Quanto è ridicolo e inutile questo personaggio per il progresso dell'umanità, il mio unico dispiacere è se in casa sua è una specie di re".
Badate bene, questo post è sì poco più di un inutile pettegolezzo femminista neanche troppo originale, ma mi piaceva menzionare questo piccolo aneddoto perché indirettamente sto discutendo del corpo, della sua funzione sociale nonché le conseguenze della sua emancipazione sulla decadenza della virilità. Una chance non da poco per l'uomo, che finalmente ha l'occasione di sbrigliarsi dal ruolo così rigido impostogli dalla tradizione e reinventarsi, miscelando a piacere yin e yang, non dovendo più per forza masticare e parlare contemporaneamente. Tornando ai miei tre amici in cucina. Certo che eravamo in cucina e ognuno si dava da fare, ma non sono certo nè la cucina nè la romanticheria che compongono in me la prevalente parte femminile. Alla fine, con degli esempi un po' cretini, sono riuscita a riportare tutto su un piano ridanciano e la faccenda è morta lì. Il giorno seguente alla fermata del metrobus - dunque zona frequentatissima non solo da auto ma anche da pedoni in attesa - ho visto questo enorme manifesto e mi sono chiesta se quella povera ragazza non si sentiva un po' a disagio nel sapere che questi piccoli orsi nel scrutare il suo corpo sentano dentro di sé una specie di vittoria.
Cartolina post-elettorale
Una gita in un posto bellissimo, unico al mondo. In questo posto il mare diventa come un vasto fiume e si insinua nella terra, portando con sé navi imponenti, correnti portentose e delfini. La terra sta ferma lì, si affaccia, e non può fare altro che guardare, questo incessante trascorrere. La terra è verde e ventosa, lo spazio è enorme, cielo mare e terra che si sciolgono insieme in questa bellezza miracolosa. Questo posto è Istanbul, unico al mondo, irripetibile.
Da qualche decennio a questa parte il verde fisso della terra ha ceduto sempre più il posto al grigio di palazzi brutti, le gru mangiano gli alberi a colazione a pranzo e a cena. Ma da dove mi trovo ora, dall'alto di Anadolu Kavağı, posso vedere che c'è ancora una linea che non è stata sorpassata, che il grigio finisce ad un certo punto e tutto concentrato sembra spingere per invadere il resto. Ma per ora non è passato da qui. Ma se qui dovesse passare il terzo ponte, che fa parte del programma elettorale dell'Akp, non so quanto il fronte verde riuscirà a tenere. E allora questo angolo di mondo unico, questo scorcio incredibile, sarà ricordato come oggi la vecchia Istanbul sulle ristampe delle vecchie cartoline, quando Istanbul era Costantinopoli ed era un sogno arabo.
Nella Istanbul di oggi l'industria edilizia è popolare tanto quanto le merendine: le pubblicità che passa la tv sono per la gran parte merendine e costruzioni di lusso, dove le agenzie immobiliari sono come dei piccoli imperi, delle dinastie, che portano il cognome dei loro fondatori, e che nelle reklam regalano sogni di lusso e il lusso come un diritto di tutti. E' davvero un momento d'oro per l'industria edilizia turca, dalle autostrade che divorano le montagne nella valle del Çoruh al terzo ponte gettato sull'intemperanza di questo stretto. E che cosa può fermare un partito che ha preso il 50% delle preferenze dei cittadini (stessa percentuale nella stessa Istanbul)?
Da qualche decennio a questa parte il verde fisso della terra ha ceduto sempre più il posto al grigio di palazzi brutti, le gru mangiano gli alberi a colazione a pranzo e a cena. Ma da dove mi trovo ora, dall'alto di Anadolu Kavağı, posso vedere che c'è ancora una linea che non è stata sorpassata, che il grigio finisce ad un certo punto e tutto concentrato sembra spingere per invadere il resto. Ma per ora non è passato da qui. Ma se qui dovesse passare il terzo ponte, che fa parte del programma elettorale dell'Akp, non so quanto il fronte verde riuscirà a tenere. E allora questo angolo di mondo unico, questo scorcio incredibile, sarà ricordato come oggi la vecchia Istanbul sulle ristampe delle vecchie cartoline, quando Istanbul era Costantinopoli ed era un sogno arabo.
Nella Istanbul di oggi l'industria edilizia è popolare tanto quanto le merendine: le pubblicità che passa la tv sono per la gran parte merendine e costruzioni di lusso, dove le agenzie immobiliari sono come dei piccoli imperi, delle dinastie, che portano il cognome dei loro fondatori, e che nelle reklam regalano sogni di lusso e il lusso come un diritto di tutti. E' davvero un momento d'oro per l'industria edilizia turca, dalle autostrade che divorano le montagne nella valle del Çoruh al terzo ponte gettato sull'intemperanza di questo stretto. E che cosa può fermare un partito che ha preso il 50% delle preferenze dei cittadini (stessa percentuale nella stessa Istanbul)?
lunedì 6 giugno 2011
Il partito della felicità
Non è solo il terzo ponte sul Bosforo
Un film che ogni turco dovrebbe vedere è Ekümenopolis. Un documentario di Imre Azem, produzione turca-tedesca nuova di zecca, stupendo. L'esempio di come un documentario che parla di cose terribili può anche essere un film bellissimo. Ottimo lavoro giornalistico, ottima la scelta delle persone da intervistare, ottimo il lavoro di post-produzione, la colonna sonora, la parte di animazione, i testi. Finiti i complimenti, veniamo al dunque: si tratta di un argomento che ho già toccato in questo blog, parlando di Sulukule. Parlo del binomio terrificante ditruzione-costruzione e di chi sta in mezzo e ne fa le spese: le persone. Parlo di una catastrofe culturale imminente. Una catastrofe sociale, una catastrofe ecologica. Una perdita senza ritorno. Che ci fosse un disegno generale lo sapevo con certezza, ma avendo lasciato la Turchia mentre facevo le mie ricerche, non ero riuscita a mettere insieme le evidenze di questo disegno. E poi, quasi per caso, questo documentario, che mette in fila: il problema della distruzione dei cosiddetti insediamenti illegali dei gecekondu, la costruzione spropositata di grattacieli-mostri, la sconsideratezza nel distruggere patrimoni storici e culturali irripetibili, la potenza dell'istituto per l'edilizia Toki, che lavora come un ente statale, pianificando la città e approvando progetti, ma in realtà è un ente privato che fa felici tutti i giganti dell'edilizia. Il potere del mattone; è qualcosa di cui abbiamo esperienza diretta anche noi in Italia, su cui la camorra accresce il proprio prestigio, il capitale e ricicla denaro. Solo che qui è tutto più o meno legale.
www.ekumenopolis.net
www.ekumenopolis.net
L'handicap del capitalismo
Tra un negozio di casalinghi e un büfe, tra un marciapiede rotto e una macchina parcheggiata male, ecco comparirmi davanti agli occhi una galleria d'arte, con dei lavori rettangolari in bianco e nero che mi attirano come una calamita. Entriamo. E' la mostra di un certo Turgut Yüksel.
I lavori, tele bianche con sagome nere simili a stencil raffinati che danno l'idea di scene in controluce, in giornate molto assolate, sono il suo augurio di felicità (Saadetler dilerim). I dipinti traboccano di ironia e acutezza semiotica; intendo dire con questo che ogni segno è pertinente ed è evidente che l'artista ne è consapevole, sapendo miscelare e selezionare gli elementi grafici in modo sintetico e diretto. Cosa che mi stupisce, dato che sono abituata alla propensione piuttosto narrativa dell'estetica turca. Di fronte a molti quadri ci è partita di slancio la risata. Ogni pezzo aveva un titolo, parte grafica integrante dell'opera. Davanti a "Kapitalizm" mi sono lasciata andare ad una avvincente riflessione.
Un uomo aspetta sulla sua sedia a rotelle di fronte ad una scalinata, che termina su un patibolo per l'impiccagione, con il cappio pronto. Significa che per tutta la vita ci sentiamo come se ci mancasse qualcosa, come se avessimo un handicap, e cerchiamo di salire quella scala con tutte le nostre energie, affaticandoci e soffrendo, per poi scoprire che quello a cui ambivamo altro non è che questa brutta fine. Mentre cercavo di spiegare tutto ciò in turco all'amico al mio fianco mi sono resa conto di una cosa interessante della parola turca engelli, che sta per handicappato. Engelli è l'aggettivo che si forma da engel, che significa "ostacolo", così la persona handicappata è la persona che ha un ostacolo, ostacolata. Lo stesso verbo engellemek significa ostacolare ma anche impedire, contrastare, e si usa per esempio negli articoli di giornale per raccontare di come la polizia ferma i manifestanti. Questo per dire che secondo me la sensazione di inadeguatezza a cui ci spinge il sistema capitalistico descritta perfettamente dall'artista è verbalizzabile in modo precipuo solo in turco, o almeno a me non è venuta nessun'altra idea migliore.
I lavori, tele bianche con sagome nere simili a stencil raffinati che danno l'idea di scene in controluce, in giornate molto assolate, sono il suo augurio di felicità (Saadetler dilerim). I dipinti traboccano di ironia e acutezza semiotica; intendo dire con questo che ogni segno è pertinente ed è evidente che l'artista ne è consapevole, sapendo miscelare e selezionare gli elementi grafici in modo sintetico e diretto. Cosa che mi stupisce, dato che sono abituata alla propensione piuttosto narrativa dell'estetica turca. Di fronte a molti quadri ci è partita di slancio la risata. Ogni pezzo aveva un titolo, parte grafica integrante dell'opera. Davanti a "Kapitalizm" mi sono lasciata andare ad una avvincente riflessione.
Un uomo aspetta sulla sua sedia a rotelle di fronte ad una scalinata, che termina su un patibolo per l'impiccagione, con il cappio pronto. Significa che per tutta la vita ci sentiamo come se ci mancasse qualcosa, come se avessimo un handicap, e cerchiamo di salire quella scala con tutte le nostre energie, affaticandoci e soffrendo, per poi scoprire che quello a cui ambivamo altro non è che questa brutta fine. Mentre cercavo di spiegare tutto ciò in turco all'amico al mio fianco mi sono resa conto di una cosa interessante della parola turca engelli, che sta per handicappato. Engelli è l'aggettivo che si forma da engel, che significa "ostacolo", così la persona handicappata è la persona che ha un ostacolo, ostacolata. Lo stesso verbo engellemek significa ostacolare ma anche impedire, contrastare, e si usa per esempio negli articoli di giornale per raccontare di come la polizia ferma i manifestanti. Questo per dire che secondo me la sensazione di inadeguatezza a cui ci spinge il sistema capitalistico descritta perfettamente dall'artista è verbalizzabile in modo precipuo solo in turco, o almeno a me non è venuta nessun'altra idea migliore.
Garofani e rivoluzione
A quarantotto anni dalla morte di Nazim Hikmet i suoi seguaci si sono raccolti davanti al Galatasaray Lisesi per commemorarlo, stendendo le sue gigantografie sul selciato, coprendole di garofani rossi, distribuendo fogli con le sue poesie e suonando canzoni. Io li ho colti nel momento in cui suonavano çav bella, la versione turca di bella ciao. Perché, per chi non lo sapesse, Hikmet, oltre ad essere un grande poeta, era anche un grande comunista, che continua a ispirare giovani masse di rivoluzionari come quelli del Tkp, il partito comunista turco, appunto.
Lo stesso partito ha fra i suoi punti di riferimento principali proprio il Nazim Hikmet Kültür Merkezi (centro culturale), dove si trovano libri su ogni rivoluzione e le magliette con il logo "Boyun eğme" -non chinare la testa- che spunta ormai ovunque, muri, manifesti e persone. Nei volantini che distribuiscono, fra le altre, si può trovare una suggestiva immagine del capo del governo Erdoğan che divora una coscia di pollo, accanto a quella di una rissa parlamentare.
Nella foto qui sotto, dopo aver cantato çav bella tutti si sono alzati e i bambini che vendono i cappelli ai passanti hanno distrutto una decina di garofani e calpestato le fotografie.
Lo stesso partito ha fra i suoi punti di riferimento principali proprio il Nazim Hikmet Kültür Merkezi (centro culturale), dove si trovano libri su ogni rivoluzione e le magliette con il logo "Boyun eğme" -non chinare la testa- che spunta ormai ovunque, muri, manifesti e persone. Nei volantini che distribuiscono, fra le altre, si può trovare una suggestiva immagine del capo del governo Erdoğan che divora una coscia di pollo, accanto a quella di una rissa parlamentare.
Nella foto qui sotto, dopo aver cantato çav bella tutti si sono alzati e i bambini che vendono i cappelli ai passanti hanno distrutto una decina di garofani e calpestato le fotografie.
giovedì 2 giugno 2011
La sorpresa della vita
E' iniziato il festival del documentario (Documentarist- Istanbul Belgesel Günleri). La mia prima visione è stata un film di una regista al suo debutto: Tülin Dağ, con il suo Bir adım ötesi... (Un passo oltre...). Il passo è quello che si fa quando si esce da una prigione dopo dieci anni, il passo che viene dopo e quello dopo ancora. In realtà non è solo questione di mettere un piede in fila dietro all'altro, ma l'inizio di un dramma, di una voragine esistenziale che si apre tra una donna e il mondo, tra la sua mente e il suo corpo. Il film non si sofferma sulle storie personali che hanno portato tre donne in prigione, ma su quello che hanno da dire circa il loro modo di riprendere a vivere, dopo una sospensione di dieci anni. Una delle protagoniste esce, si iscrive all'università, si sposa. La stessa autrice invece, a trent'anni si iscrive all'università e si stupisce di comportarsi esattamente come una diciottenne, cioè l'età in cui è stata allontanata dalla vita e il suo sviluppo emotivo, sentimentale e quello della sua corporeità sono rimasti congelati. Nei loro occhi lo stupore, l'entusiasmo per le cose quotidiane quando accadono davvero. La sorpresa per la vita, che io stessa collegherei a qualcosa che assomiglia molto alla felicità. Raccontano con gli occhi che luccicano come stelle. La prigione è in pieno centro a Istanbul, le voci della vita arrivano da fuori, è tutto così vicino. Ma alle detenute, della vita, non rimane altro che la lettura, l'approfondimento intellettuale, la raffinatezza delle loro discussioni. La donna che è in loro è una ragazzina che quando esce non sa bene cosa assaggiare, non sa come raccontare il proprio disagio e si deprime. Solo lentamente la ragazzina cresce ed è finalmente in grado di portare un vestito da ragazza, di acconciarsi i capelli. Ogni gesto è un'impronta scavata su un terreno vergine, mai calpestato da nessuno, nuovo e fresco.
martedì 31 maggio 2011
Mavi Marmara-fratellanza a Taksim
"Aspetta Palestina, la Mavi Marmara sta arrivando" |
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lunedì 30 maggio 2011
Pulmini elettorali
La campagna elettorale fa largo uso di minibus e musica. Passano per le stradicciole in salita spaventando giovani e vecchi, sbucando quando meno te lo aspetti. Ad esempio oggi è stato il turno del pulmino azzurro-blu del partito della felicità, sbucato fuori a Şişhane con la faccia del candidato premier stampata su che salutava i passanti a ritmo di cover cantate male di canzoni popolari. Volume al massimo, naturalmente. Si ferma in salita minacciando di capovolgersi e invece si apre lo sportello e ad una ad una scendono più o meno trenta persone: donne con il velo in testa e uomini in maniche di camicia, emergono uno dopo l'altro accompagnati dal trionfo della musica. Quando il pulmino ha finito di rigurgitarli, rimane lì aperto a mostrare la sua gola vuota per un po' con la musica che va e poi richiude il portello e riparte, sempre musicante. E' la campagna elettorale più felice che io abbia mai visto, se non fosse per i vari tentativi di screditare gli avversari con accuse più o meno gravi. Che si tratti di scandali sessuali o di piani eversivi, come per Kiliçdaroğlu, l'altroieri in tv per dire che lui è tranquillo e se ne sta a capo del suo partito (Chp, repubblicano) senza paura, mentre chi dovrebbe vergognarsi è chi presiede ora il governo, che di capi di accusa ne ha tanti di più di uno.
Segue presto aggiornamento con foto di pulmini elettorali.
Vedi "gallerie fotografiche"
Segue presto aggiornamento con foto di pulmini elettorali.
Vedi "gallerie fotografiche"
Il vigile urbano
Non mi era mai capitato a Istanbul di vedere un vigile urbano dirigere il traffico. E' successo oggi mentre attraversavo per l'undicesima volta (perché dimenticavo a casa qualcosa o perché ero rimasta chiusa fuori) la stessa strada. Una strada a tre corsie -più o meno, naturalmente non sono tracciate- per ogni senso di marcia con spartitraffico, senza attraversamento pedonale e tantomeno senza semaforo per i pedoni. Ma unico punto obbligato per l'attraversamento. Divento sempre più scaltra ogni volta che attraverso. Mentre, tutta presa nella foga animalesca di uscire dal groviglio di auto, sono riuscita ad approdare sullo spartitraffico, mi sono resa conto che un rumore emergeva su quello dei clacson e dei motori vecchi: il fischietto del vigile urbano. C'era qualcosa di strano però nella sua strategia: stava lasciando defluire il traffico proveniente dalla strada laterale salvo poi fermarlo a metà per mettersi a fischiare con più vigore alle auto ferme al rosso della grande carreggiata agitando la mano per farle passare. Quando la sirena di due volanti della polizia mi ha riempito le orecchie ho capito il perché di quella mossa apparentemente insensata. Passate loro, infatti, il vigile urbano ha ribloccato le auto ferme al rosso e ha fatto ripartire le altre che vi si immettevano. E ha fatto passare i pedoni. Solo allora ho notato il fulcro della scena: un'auto ferma in mezzo alle corsie, cofano aperto e motore fumante; nessuno dentro. Dopo aver attraversato ho visto l'uomo che correva con un vaso da fiori colmo d'acqua urlando "ce l'ho ce l'ho". L'aveva preso in prestito dalle zingare che vendono i fiori in piazza. E' corso a dar da bere al radiatore, mentre il traffico aveva ricominciato a muoversi. L'ho cercato, ma non l'ho visto più: il vigile urbano si era già dileguato.
mercoledì 13 aprile 2011
martedì 12 aprile 2011
Nave umanitaria per la Libia
Partirà questa sera (o domani mattina) dal porto marittimo di Zeyport, Istanbul, una nuova missione dell'organizzazione non governativa islamica İHH, diretta a Misurata, in Libia. Il carico consiste di 682 tonnellate di generi di prima necessità, quali cibo e medicinali, per un valore totale di cinque milioni di lire turche, oltre due milioni e mezzo di euro.
La İHH è la stessa Ong turca che aveva guidato la Freedom Flotilla diretta verso Gaza con lo scopo di forzare il blocco imposto da Israele nel maggio dello scorso anno. La nave ammiraglia, la Mavi Marmara, venne abbordata dall'esercito israeliano. L'epilogo, con otto morti tra gli attivisti turchi, oltre ad un americano di origine turca, fu la causa della rottura dei rapporti diplomatici della Turchia con Israele e il trionfo dell'immagine della Turchia come paladina dei diritti dei popoli musulmani repressi.
Così si è espresso il presidente dell'associazione umanitaria Bülent Yıldırım riguardo alla missione in partenza per la Libia: " Vogliamo che questi aiuti raggiungano la gente della Libia, colpita sia dal governo libico che dalle forze Nato, che intendono conquistare il mondo islamico".
Intanto per quanto riguarda la faccenda della Mavi Marmara l'Onu ha convocato un tavolo di discussione con lo scopo di redigere una presentazione da consegnare al segretario generale Ban Ki Moon. Verranno ascoltati diplomatici di entrambe le nazioni coinvolte, Turchia e Israele, rispettivamente il 26 e il 27 aprile. Il tavolo sarà presieduto dall'ex premier neozelandese Geoffrey Palmer e dall'ex presidente colombiano Alvaro Uribe. E mentre una nuova Freedom Flotilla verso Gaza è programmata per il prossimo giugno, il governo israeliano sta già facendo pressioni per invitare i promotori a desistere da questo nuovo tentativo di forzare il blocco.
La İHH è la stessa Ong turca che aveva guidato la Freedom Flotilla diretta verso Gaza con lo scopo di forzare il blocco imposto da Israele nel maggio dello scorso anno. La nave ammiraglia, la Mavi Marmara, venne abbordata dall'esercito israeliano. L'epilogo, con otto morti tra gli attivisti turchi, oltre ad un americano di origine turca, fu la causa della rottura dei rapporti diplomatici della Turchia con Israele e il trionfo dell'immagine della Turchia come paladina dei diritti dei popoli musulmani repressi.
Così si è espresso il presidente dell'associazione umanitaria Bülent Yıldırım riguardo alla missione in partenza per la Libia: " Vogliamo che questi aiuti raggiungano la gente della Libia, colpita sia dal governo libico che dalle forze Nato, che intendono conquistare il mondo islamico".
Intanto per quanto riguarda la faccenda della Mavi Marmara l'Onu ha convocato un tavolo di discussione con lo scopo di redigere una presentazione da consegnare al segretario generale Ban Ki Moon. Verranno ascoltati diplomatici di entrambe le nazioni coinvolte, Turchia e Israele, rispettivamente il 26 e il 27 aprile. Il tavolo sarà presieduto dall'ex premier neozelandese Geoffrey Palmer e dall'ex presidente colombiano Alvaro Uribe. E mentre una nuova Freedom Flotilla verso Gaza è programmata per il prossimo giugno, il governo israeliano sta già facendo pressioni per invitare i promotori a desistere da questo nuovo tentativo di forzare il blocco.
domenica 10 aprile 2011
Mi schiarisco la voce e faccio le valigie
Dopo un'assenza più o meno lunga, di lontananza dalla Turchia e da questo blog, ritorno a questo mio progetto con l'intento di ripristinare un'umile finestrella di informazione e aggiornamento su ciò che avviene al di qua e al di là del Bosforo.
Questo distacco è motivato dall'intento di questo blog, racchiuso nel suo stesso nome. Nato come raccolta di piccoli reportages, cioè racconti di cose viste e vissute, non essendo più là, non me la sentivo più di continuare a scrivere, raccogliendo cose di seconda mano o riferite da altri.
Perché ho cambiato idea? Intanto perché fra poco tornerò a Istanbul. Pertanto, dato che in quanto reporter scriverò, è giusto anticipare la pubblicazione delle mie storie con qualche riflessione da lontano. Ci saranno le elezioni: anche di questo evento voglio prima dare un'introduzione, densa di dati freddi ma necessari.
E poi sento che è mio dovere parlare di Turchia, perché sono un filtro coscienzioso.
Questo distacco è motivato dall'intento di questo blog, racchiuso nel suo stesso nome. Nato come raccolta di piccoli reportages, cioè racconti di cose viste e vissute, non essendo più là, non me la sentivo più di continuare a scrivere, raccogliendo cose di seconda mano o riferite da altri.
Perché ho cambiato idea? Intanto perché fra poco tornerò a Istanbul. Pertanto, dato che in quanto reporter scriverò, è giusto anticipare la pubblicazione delle mie storie con qualche riflessione da lontano. Ci saranno le elezioni: anche di questo evento voglio prima dare un'introduzione, densa di dati freddi ma necessari.
E poi sento che è mio dovere parlare di Turchia, perché sono un filtro coscienzioso.
I candidati caldi del Bdp
Il Partito Democratico della Pace, Bdp, il partito della lotta del popolo curdo per i diritti, ha presentato la sua lista di candidati per le prossime elezioni parlamentari del 12 giugno. Fra di essi sei persone sotto processo perché accusati di appartenere al Kck, la confederazione democratica curda voluta da Abdullah Öcalan che il governo turco teme almeno tanto quanto Ergenekon, benché le due realtà non possano essere più lontane. Kck è il frutto degli studi a cui il leader curdo si è dedicato durante i suoi anni in prigione, che non vanno disgiunti dagli inviti rivolti al Pkk di agire in modo democratico e nella ricerca di un dialogo con il governo.
Fra i candidati si distinguono personalità davvero potenti, dal punto di vista emotivo e per la attualità degli eventi ad essi legati. Basta fare un esempio, per ritrovarne il filo già in questo blog: Ahmet Türk, aggredito selvaggiamente esattamente un anno fa, candidato a Mardin. O Leyla Zana, in prigione per dieci anni per aver pronunciato una frase in curdo in parlamento, che è in lista a Diyarbakir.
Il vice primo ministro turco Cemil Çiçek ha dichiarato in tv che la legge non vieta di candidare persone implicate in un processo. E' una scelta del partito, che poi quello che conta è la volontà popolare, ha detto Çiçek.
Per ora i nomi sono 61, tra cui 13 donne, per 39 province.
Fra i candidati si distinguono personalità davvero potenti, dal punto di vista emotivo e per la attualità degli eventi ad essi legati. Basta fare un esempio, per ritrovarne il filo già in questo blog: Ahmet Türk, aggredito selvaggiamente esattamente un anno fa, candidato a Mardin. O Leyla Zana, in prigione per dieci anni per aver pronunciato una frase in curdo in parlamento, che è in lista a Diyarbakir.
Il vice primo ministro turco Cemil Çiçek ha dichiarato in tv che la legge non vieta di candidare persone implicate in un processo. E' una scelta del partito, che poi quello che conta è la volontà popolare, ha detto Çiçek.
Per ora i nomi sono 61, tra cui 13 donne, per 39 province.
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