Mi sveglio di buon'ora, dopo una notte
agitata di solo dormiveglia e mi premo dentro un minibus strapieno in
cui non credevo sarei mai potuta entrare (ne passano tre o quattro
prima di convincermi). A Üsküdar prendo il battello per il Corno
D'oro, uno spettacolo di ponti mobili rimasti aperti, e strade
sospese, che scorgo fra le palpebre che si aprono, e si chiudono.
Faccio un conteggio delle cose che indosso e mi chiedo se non sarò
troppo riconoscibile e fuori
luogo. I miei stivaletti verdi un po' consunti, con le stringhe
avvolte intorno alle caviglie e poi allacciate, pantaloni
aderentissimi, dolcevita e grande maglione fino a metà coscia pieno
di pirulini di lana, giacca nera, berretto e coda di cavallo
semispettinata. Due occhiaie profonde.
Si tratta del
congresso dei giovani uomini d'affari della Müsiad, la
confederazione indipendente (leggi: musulmana) dell'industria
istanbuliota. Nel programma di apertura è prevista la partecipazione
del premier Recep Tayyip Erdoğan, e io sono veramente curiosa di
verificare la sua aura di persona, la portata della sua presenza.
Mi ero iscritta al
congresso in qualità di “studente”, non mi era stato chiesto
nient'altro. Il congresso era internazionale e l'Italia era uno dei
paesi d'interesse elencati. Dunque la mia presenza era più o meno
legittima. Se avessi potuto, ecco, sì, mi sarei messa un po' più in
ghingheri, ma il mio bagaglio è piuttosto ridotto.
Il
centro congressi di Haliç, a Sütlüce è un bell'edificio che si
affaccia sul mare accanto all'attracco del battello. Mi metto in coda
per ritirare il mio pass. Ma presto la procedura viene annullata per
la troppa folla e un addetto alla sicurezza invita tutti a lasciar
perdere ed entrare che inizia il programma. Ci sono tanti giovani,
ragazzi e ragazze, barbuti e non, velate e non. Ci sono pulmini dei
vari kolej privati e
delle università che portano i loro studenti. Ci sono persone che
parlano arabo e nessuno in tenuta da sceicco. Appena varco la porta
dell'auditorium mi prende un brivido: “Ecco, sto entrando nella
pancia del lupo” penso. Nella semioscurità, solo il grande palco è
illuminato, e un motivetto ottomano fa da sottofondo (ripetuto fino
allo sfinimento). Sulle due facciate laterali è proiettato il logo
della Müsiad, con sotto scritto Müsiad. Prendo posto immediatamente
vicino al corridoio di ingresso: non si sa mai chi entra e vale la
pena fotografare, mi dico. Mi provvedo di cuffie per la traduzione
simultanea, disponibile in inglese e in arabo.
Dopo
quaranta minuti buoni di assestamento, finalmente si comincia. Sale
sul palco l'Imam Abdullah (okay, non ho preso nota del nome). Si
siede e comincia a cantare. Poi viene proiettato un video di
presentazione della associazione di industriali, riassuntivo della
loro filosofia e della loro proposta identitaria. Il congresso è
giocato sul tema Rizq-Risk (rızk-risk in
turco).
Rizq
nel Corano dovrebbe più o meno essere (invito gli informati a
commentare e ad aggiungere informazioni) il livello di vita concesso
da Allah, previsto già prima della nostra nascita e che siamo
necessariamente chiamati a portare a compimento prima della nostra
morte. Riguarda tutto ciò che possediamo e che ci procuriamo per
sopravvivere. La conseguenza è che se viene accumulato più di
quanto Allah abbia previsto per noi, cadiamo nel peccato. America,
Unione Europea e Israele si trovano attualmente in questa situazione.
Ma come conciliare questa legittima accumulazione di capitale con la
realtà del mercato e degli investimenti, risk appunto?
L'accumulazione di capitale fatta secondo l'Islam deve avere come
scopo il benessere generale della Ummah, deve guardare ai poveri, a
chi non ha niente. Chi accumula troppo in questo mondo, non avrà
niente nell'altro. Murat Kalsın, della Camera di Commercio di
Istanbul cita a questo proposito le parole della moglie del Sultano
Fatih: “Per capire quali sono le nostre possibilità, bisogna
guardare a quelli che non hanno possibilità”.
La
differenza con il capitalismo di fattura occidentale è che questo
non tiene conto della responsabilità sociale dell'attività
bancaria, perché alla fin fine è l'economia umana che conta nel
lungo termine, dice Khaled M. Al-Aboodi, direttore generale di
ICD, Islamic Corporation for the
Development of the Private Sector (che così, per curiosità, ha un
comitato per la Shari'a). Sono gli emarginati che bisogna tenere in
considerazione. E mi vengono in mente Sulukule e Fikirtepe, in
particolare la seconda, con tutti i discorsi che si fanno sullo Stato
che viene in soccorso dei poveri abitanti di quelle case vecchie,
piene di buchi e di infiltrazioni, dove si consuma droga e la
criminalità e all'ordine del giorno; dove gli abitanti ringraziano,
con un grande striscione esposto sulla tangenziale, per l'interesse
dimostrato per il quartiere. E come dice il presidente della Müsiad,
Nail Olpak, la crisi dell'economia occidentale è istituzionale. È
il settore privato che può farsi carico di questa responsabilità, e
a Istanbul è in forte sviluppo. Con un accento di entusiasmo
popolano il concetto è chiarito meglio dal ministro dell'economia
Zafer Çağlayan (venuto per sopperire all'assenza del premier):
“Tutti vogliono essere come Istanbul, tutti ci imitano! Noi siamo
una grande forza che sta crescendo, e se quelli là (Eu e Usa e
Israele) non vogliono riconoscerlo, fatti loro!”. Questo ministro è
molto goffo, e parla a lungo, a lungo, per slogan. Mi fa pensare a
Silvio Berlusconi e i suoi. Solo che questi se la prendono con i
comunisti e la magistratura, quello con l'Europa. In più la
traduzione simultanea in inglese non funziona, dietro alle cuffie c'è
una ragazzina in preda al panico che poveretta non ci riesce e
traduce una parola ogni tanto. Quella in arabo è fluida e funziona
benissimo. Arriva il momento della preghiera del venerdì a cui tutti
siamo invitati a partecipare. In preda alla noia, alla frustrazione
per non capire bene, alla sensazione di essere fuori posto e la
voglia di scappare via, ma soprattutto al sonno, mi dirigo verso il
battello su cui mi addormento procacemente spalancando le fauci e
forse russando.
È il
sistema-Islam: tutto racchiuso nella piccola fiera dei giovani
imprenditori nella hall del centro congressi. Una scuola islamica,
dove si insegna turco, inglese, arti visive, educazione del corpo,
recitazione del Corano (Kur'an-i Kerim),
cultura religiosa e musica, in prima elementare, per esempio. Poi un
sistema di produzione secondo i dettami religiosi. Un luogo dove
abitare: i progetti edilizi del gruppo Akyapı erano presenti in
mostra (uno è quello che ho fotografato in questo post). Un modo per
vestirsi: la famosa azienda tessile Armine esponeva i suoi
fazzoletti. Un modo di mangiare: aziende alimentari esponevano, solo
su volantini, purtroppo, i loro prodotti. E via dicendo.
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