Oggi sono andata a fare un giro di
ricognizione (l'espressione non mi piace, ma si addice) in uno dei
tre luoghi in cui si svolgerà la mia ricerca: il quartiere di
Fıkırtepe. È un mahalle
che fa parte della municipalità di Kadıköy, si dispiega su
un'altura dalla moderata pendenza che si affaccia sulla tangenziale
di Istanbul (çevreyolu).
Tutto ciò lo rende ben visibile, è in mostra. É un'ottima vetrina,
oserei. Il quartiere è interessato da un progetto di rinnovamento
che prevede l'acquisizione dei terreni dai più o meno legittimi
proprietari da parte di alcune imprese di costruzione (sto studiando
i dettagli del chi e del come) per la costruzione di abitazioni
moderne, antisismiche e alte, che andranno a sostituire le case
abusive (kaçak), i
cosiddetti gecekondu.
Il modo in cui viene gestita, vissuta, subita questa privazione di
abitazione sarà oggetto della mia ricerca.
Ho
deciso di andarci a piedi. Da casa mia (Ümraniye) Googlemaps
indicava un percorso di circa sette chilometri, che prevedeva
l'attraversamento di due autostrade e due volte la tangenziale (ci
sono i ponti pedonali). Ho deciso di usare i piedi perché 1) volevo
sperimentare questo mezzo di trasporto a Istanbul, dove l'ho usato
più che altro in modalità passeggiata 2) volevo ripetere il
percorso dell'autobus dandomi l'opportunità di adeguare l'andatura
all'interesse suscitato dai luoghi 3) volevo entrare in unione
mistica con la strada, soffrendo sopra i miei calcagni della distanza
che mi iniettava (questa davvero non è da prendere sul serio) 4)
volevo arrivare lentamente a Fikirtepe perché mi sembrava poco
opportuno piombare lì scendendo da un autobus e iniziare a
camminare, come si fa oggi con gli aerei, e volevo che arrivando lì
avrei assorbito bene lo status della camminatrice (ma la prossima
volta prendo l'autobus e scendo un po' prima).
Abituata
alla logica dell'autobus, la prima parte della passeggiata è stata
principalmente uno strisciare lungo le muraglie dei nodi stradali
principali, con la fastidiosa sensazione di rischiare di morire. Poi
per fortuna mi sono persa (mi ero scritta delle indicazioni, non
avevo una mappa) e ho cominciato a chiedere la direzione (chiedevo
sempre tappe intermedie, per non destare sconcerto). “Trovare un
indirizzo in una città significava trovare la contrada, il cortile,
il campo, e poi domandare ancora. Domandare faceva parte
dell'ingresso, dei riti d'ingresso di un estraneo in una contrada non
sua” (La Cecla, Perdersi,
pag 32). Ho così dato accesso allo stupore.
Fino a ritrovare la strada che mi ero prefissata. Sono salita fino a
Küçük Çamlıca, dove ho scattato queste foto.
Poi sono ridiscesa
al di là della collina passando per Acıbadem, quartiere borghese e
benestante (ci sono perfino disegnate le strisce che delimitano la
carreggiata). Sono scesa giù per la strada del Ceceno
Ciò che mi ha colpito immediatamente
era il silenzio. Poi la mancanza di segni per gli
umani, come strisce pedonali, fermate dell'autobus, ponti pedonali.
Il luogo era immenso e vuoto, e non sapevo davvero come potermici
muovere. Ho domandato all'addetto alla sicurezza di questo grande
complesso come fare per arrivare a Fıkırtepe, che ormai vedevo
dispiegato sulla sua bella collina. Anche lui ha dovuto chiedere al
suo collega. Ho dovuto tornare indietro di un bel pezzo e
ridiscendere per un sottopassaggio davanti ad un centro commerciale
in costruzione.
Tutto era mastodontico, muto e mi ammutoliva. Mi ha
fatto venire in mente la parola che ha usato il mio professore turco
per descrivere questa architettura, azman,
enorme, e che mi ha spiegato in inglese prendendo come esempio le
proporzioni di un bebè fra il corpo e la sua testa. Mi ha detto:
“Immagina che quel bambino diventi adulto mantenendo queste
proporzioni. Sarebbe mostruoso.” Io stessa mi ero riferita a questa
architettura parlando di proporzioni: essa non è proporzionata alla
misura dell'uomo e dello spazio che può avere a sua disposizione.
Questi spazi sono troppo grossi, sono sovradimensionati. Almeno per
l'uomo che va a piedi. Forse va bene chi va con il suv (esso stesso
sovradimensionato). Sbucata fuori dal tunnel ho visto un minareto. Il
muezzin stava chiamando. Questo è stato di sollievo dalla mia
inquietudine. Ero tornata nel mondo degli uomini. Tra l'altro ho
riconosciuto un luogo, quello dove il martedì si svolge lo storico
mercato del martedì, appunto (Sali Pazar),
che quando è vuoto come lo era oggi viene usato e attraversato in
modo molto attivo: bambini che giocano, motociclisti che provano uno
slalom. Ho circumcamminato l'area, ho svoltato a sinistra, ed eccomi
a Fıkırtepe. Erano ormai le 18 circa. Contando una mezz'ora di
pausa, ci ho messo circa tre ore. Era buio. Ho deciso di rimanere
sulla strada principale. Ho apprezzato i microspazi, le locande
ricavate in un angolo fra una scala e un garage, i balconi, le
salite, i muretti, i giardini. Dei bambini giocavano a calcio in uno
spiazzo davanti ad un negozio chiuso, con le vetrine ricoperte dalla
pubblicità dei nuovi grattacieli, dove probabilmente ci saranno
campi da gioco dietro a cancelli e non saranno più visibili.
La vita della strada verrà risucchiata all'interno, nei cortili
funzionali, nei salotti moderni, nei garage sotterranei. I büfe
saranno al piano terra di questi grandi palazzi, fatti di cemento e
acciaio. Non ci saranno più queste case che oggi in un articolo ho
trovato definite çarpık,
storte. Chissà poi perché a me piacciono tanto, che cos'è questo
scarto estetico, cosa mi sfugge. Cerco di capire l'estetica promossa.
Il mantra è quello della prevenzione anti-sismica. I terremoti qui
hanno lasciato ferite indelebili e sono materiale emotivo facile da
manovrare.
I
negozi espongono le mercanzie sul marciapiede. Vedo una sedia stile
anni '50 riparata con due tubi d'acciaio, d'accurata fattura. Ma il
legno sostenuto dall'acciaio sembra un vecchietto con due stampelle
nuove di zecca. L'acciaio dovrebbe impreziosire il legno, invece lo
immiserisce. Cemento e acciaio. Legno e acciaio. L'acciaio è la
chiave della modernità.
Svolto
per una via laterale che mi conduce verso Göztepe, da cui prendo un
autobus che mi riporta a casa.
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