lunedì 30 dicembre 2013

Sopportate quest'ultima visione monoculare (parte 3 di 3)


Ma torniamo al nostro cristiano ad Altı Yol, che ci aspetta per finire di spiegarci come arrivare là. Il mio compagno gli chiede quanto tempo ci vuole per costruire una chiesa a Istanbul. Lui sorride di incredulità e dice che al massimo puoi fare domanda, ma magari se hai tempo puoi aspettare una quarantina d'anni. La domanda è sorta per via di una conferenza alla quale abbiamo partecipato la sera prima, a Karaköy, dal titolo “Moschee in Europa e in Turchia”, alla quale contribuivano la sociologa Nilüfer Göle e tre architetti: il turco-olandese Cihan Buğdacı, il tedesco Paul Böhm e il turco Emre Arolat. 
Sul contenuto di questa conferenza tornerò presto. Ciò che mi preme qui è riportare il lamento di Buğdacı circa il fatto che in Olanda per costruire una chiesa ci vogliano solo tre o quattro anni, mentre per una moschea bisogna aspettarne almeno venti. Non che mi prema più di tanto costruire una chiesa a Istanbul, e nemmeno penso che dovremmo misurare il comportamento dell'Europa verso le minoranze guardando al modo in cui le amministrazioni dei paesi da cui provengono trattano le loro minoranze. Ma mi sembra piuttosto normale non avere il diritto di costruire una chiesa in Turchia pari a quello che ha un turco di costruirsi la sua moschea. Non vado certo ad ammiccare ai miei connazionali in patria lasciando intendere che questi poverini non hanno il senso della democrazia e che noi deteniamo la scienza dell'Integrazione. 
Ora non lo so se il mio americano stesse ammiccando o no. Fatto sta che stavano cercando di convincermi ad andare in chiesa. E io ci sarei anche andata volentieri, almeno per curiosità. Il giorno dopo abbiamo rincontrato parte della compagnia sul battello e devo dire che mi ha fatto un certo effetto augurare “Merry Christmas” ad alta voce in mezzo alla spazio di fronte all'attracco. Ero davvero curiosa di fare l'esperienza di vivere il Natale in una città musulmana. E qualcuno obietterà che Istanbul è una città anche cristiana ed ebraica e.
Fra i mille progetti edilizi dal gusto terribile e dall'utilità pubblica dubbia, ci sono le restaurazioni del patrimonio storico della città. Non entro nel merito della qualità della restaurazione, che richiederebbe un'osservazione un po' oculata, e non un giudizio sommario che può derivare per esempio dall'esperienza di me che gratto via il sottile strato di cemento dalle mura di Teodosio che tiene insieme le pietre, per scoprire sotto terra secca. Medrese e moschee sono incappucciate in abito da cantiere, e sul loro mantello c'è scritto “Proteggiamo il nostro patrimonio storico”. E la firma della municipalità che sponsorizza l'operazione.
Però le chiese di Karaköy languiscono tristi come vecchi cimeli inutili, e per questo mi sono stupita come invece a Yeldeğirmeni stiano ristrutturando Notre Dame du Rosaire, cattolica chiesa e monastero e scuola.
In città non si sentono campanili suonare, è l'ezan delle sei a svegliarmi. Forse è abbastanza per dire che Istanbul è una città musulmana. Forse per questo i nostri auguri in piazza mi sono sembrati quasi una dichiarazione di identità. E ho capito come diventa facile all'estero identificarsi con qualcosa di forte come la religione. Io che in patria non partecipo alla vita che gira intorno alla parrocchia, qui mi viene quasi la tentazione di adottare l'azione di andare alla messa di Natale come statement. Mi trattengo, infine, sia la sera della Vigilia che la mattina del 25; la vince la stanchezza della settimana di giri matti con il mio fidanzato camminatore. Ma io, che qui sono un puntolino semi-invisibile, so che mi sentirei meno impotente se superassi il livello del mio essere cristiana semplicemente per formazione, per cultura e accedessi a quello dell'identificazione piena e affermativa. Per fortuna sono un'antropologa e non cado in tentazione.

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