Ma
torniamo al nostro cristiano ad Altı Yol, che ci aspetta per finire
di spiegarci come arrivare là. Il mio compagno gli chiede quanto
tempo ci vuole per costruire una chiesa a Istanbul. Lui sorride di
incredulità e dice che al massimo puoi fare domanda, ma magari se
hai tempo puoi aspettare una quarantina d'anni. La domanda è sorta
per via di una conferenza alla quale abbiamo partecipato la sera
prima, a Karaköy, dal titolo “Moschee in Europa e in Turchia”,
alla quale contribuivano la sociologa Nilüfer Göle e tre
architetti: il turco-olandese Cihan Buğdacı, il tedesco Paul Böhm
e il turco Emre Arolat.
Sul contenuto di questa conferenza tornerò
presto. Ciò che mi preme qui è riportare il lamento di Buğdacı
circa il fatto che in Olanda per costruire una chiesa ci vogliano
solo tre o quattro anni, mentre per una moschea bisogna aspettarne
almeno venti. Non che mi prema più di tanto costruire una chiesa a
Istanbul, e nemmeno penso che dovremmo misurare il comportamento
dell'Europa verso le minoranze guardando al modo in cui le
amministrazioni dei paesi da cui provengono trattano le loro
minoranze. Ma mi sembra piuttosto normale non avere il diritto di
costruire una chiesa in Turchia pari a quello che ha un turco di
costruirsi la sua moschea. Non vado certo ad ammiccare ai miei
connazionali in patria lasciando intendere che questi poverini non
hanno il senso della democrazia e che noi deteniamo la scienza
dell'Integrazione.
Ora non lo so se il mio americano stesse
ammiccando o no. Fatto sta che stavano cercando di convincermi ad
andare in chiesa. E io ci sarei anche andata volentieri, almeno per
curiosità. Il giorno dopo abbiamo rincontrato parte della compagnia
sul battello e devo dire che mi ha fatto un certo effetto augurare
“Merry Christmas” ad alta voce in mezzo alla spazio di fronte
all'attracco. Ero davvero curiosa di fare l'esperienza di vivere il
Natale in una città musulmana. E qualcuno obietterà che Istanbul è
una città anche cristiana ed ebraica e.
Fra
i mille progetti edilizi dal gusto terribile e dall'utilità pubblica
dubbia, ci sono le restaurazioni del patrimonio storico della città.
Non entro nel merito della qualità della restaurazione, che
richiederebbe un'osservazione un po' oculata, e non un giudizio
sommario che può derivare per esempio dall'esperienza di me che
gratto via il sottile strato di cemento dalle mura di Teodosio che
tiene insieme le pietre, per scoprire sotto terra secca. Medrese
e moschee sono incappucciate in abito da cantiere, e sul loro
mantello c'è scritto “Proteggiamo il nostro patrimonio storico”.
E la firma della municipalità che sponsorizza l'operazione.
Però le chiese di Karaköy
languiscono tristi come vecchi cimeli inutili, e per questo mi sono
stupita come invece a Yeldeğirmeni stiano ristrutturando Notre Dame
du Rosaire, cattolica chiesa e monastero e scuola.
In
città non si sentono campanili suonare, è l'ezan
delle sei a svegliarmi. Forse è abbastanza per dire che Istanbul è
una città musulmana. Forse per questo i nostri auguri in piazza mi
sono sembrati quasi una dichiarazione di identità. E ho capito come
diventa facile all'estero identificarsi con qualcosa di forte come la
religione. Io che in patria non partecipo alla vita che gira intorno
alla parrocchia, qui mi viene quasi la tentazione di adottare
l'azione di andare alla messa di Natale come statement.
Mi
trattengo,
infine, sia la sera della Vigilia che la mattina del 25; la vince la
stanchezza della settimana di giri matti con il mio fidanzato
camminatore. Ma io, che qui sono un puntolino semi-invisibile, so che
mi sentirei meno impotente se superassi il livello del mio essere
cristiana semplicemente per formazione, per cultura e accedessi a
quello dell'identificazione piena e affermativa. Per fortuna sono
un'antropologa e non cado in tentazione.
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