giovedì 26 dicembre 2013

Passeggiata con monocolo / Parte 1 di 3


Mi sento continuamente ripetere che in Turchia ci sono due sinistre: una ispirata alle idee di Atatürk, e una filo-comunista, giusto per ridurre all'osso. Io mi sorprendo ogni volta perché ero stata abituata da esperienze precedenti, ovvero da un'intensa esposizione all'altra sinistra, a non considerare Atatürk come propriamente un uomo della sinistra. Anzi, piuttosto, il nemico. Ma ogni volta che torno qui ho un'esperienza diversa e mi ritrovo continuamente a rimettere in discussione tutto ciò che davo per certo. E naturalmente scopro che non si tratta di una distinzione binaria, ma di una ben più articolata. Ma poiché non sono un'analista politica non mi dilungherò troppo su osservazioni che dette così sono solo noiose, per chi scrive e per chi legge.
A volte però, mentre cerco di liberarmi di questa visione manicheista, mi scontro con quelli che, stando ben saldi con un piede sul male e uno sul bene, hanno ben chiaro come debbano essere fatte le cose, e si aspettano che basta che te lo spieghino perché anche tu ti convinca a seguirli.
Facendo finta di essere una di queste persone, racconterò una giornata in questa città osservata da un monocolo, certa che ogni dispositivo è limitante ma informativo, come anche una semplice reklam può esserlo, benché non si tratti esattamente di un dispositivo scientifico. Per esempio la campagna pubblicitaria del quotidiano Zaman mostra coppie di personaggi, opposti nel discorso sociale (manicheista) turco. Il poliziotto e il manifestante, la ragazza velata e quella con i capelli e le unghie tinte. Certamente si tratta di una semplificazione, ma rende esplicita una divaricazione sentita, e io mi informo e ricevo conferma.
A Yeldeğirmeni, Kadıköy, nel centro sociale occupato (il primo in Turchia) Don Kişot, si preparano i pankart (striscioni) per la manifestazione del giorno successivo, per l'occupazione, per l'appropriazione della città. Una ragazza ci spiega un po' timidamente, un'altra ci chiede gentilmente di infilarci nello scantinato che loro stanno spostando le sedie e siamo in mezzo a dare fastidio. Noi preferiamo salire a dare un'occhiata all'edificio che stanno mettendo a posto ad una velocità stupefacente: hanno messo le finestre, hanno iniziato ad intonacare l'esterno. Di fronte c'è una casina azzurra a due piani con terrazzo e divano dove forse abitano. L'impressione è di una catena di luoghi affiliati, sparpagliati nel quartiere, che la ciurma frequenta. Passeggiamo a zonzo a Yeldeğirmeni e li ritroviamo di tanto in tanto. Yeldeğirmeni è anche la sede di Tasarım Atölyesi Kadıköy (TAK), Atelier di Design per la municipalità di Kadıköy, dove i cittadini possono proporre degli interventi migliorativi di design urbano ad una squadra di giovani architetti e pianificatori, che scelgono i progetti e li realizzano. I cittadini ricevono anche un premio in denaro per la loro idea. Una di queste è stata per esempio di dipingere di colori pastello le casine a due piani della strada che corre oltre la ferrovia cittadina (fuori uso dopo l'incendio di Haydarpaşa). Un mese fa, mentre percorrevo estasiata questo vicolo delle meraviglie e scrutavo ogni angolo, ogni finestra, ogni giaciglio per i gatti, avevo notato in fondo alla fila di case una signora che aspettava fuori dalla porta e guardava verso di me. Arrivata al suo cospetto, mi fa segno di avvicinarmi, mi mette in mano un telefono cellulare e mi chiede di riaccenderglielo perché la teize (signora anziana) che c'è lì dentro (la scorgo nella semioscurità) gliel'ha spento e non è più capace di riaccenderlo. Eseguo, ringrazia, saluto. E me la ritrovo lì un mesetto dopo che si lancia fuori dalla porta arrabbiandosi con una macchina che passa; si dirige al prospiciente cassonetto dell'immondizia dove noi ci siamo fermati a guardare ed inizia a parlare, senza smettere per i dieci minuti successivi. Dice di essere circassa ma il nonno era armeno, cristiano, la madre bosgnacca. Lei, fiera musulmana dall'età di quattro anni, ci avvisa che nel giorno del giudizio (kiyamet) non ci scapperà nessuno, tanto meno quegli Ebrei che nemmeno riconoscono Gesù come profeta; però anche voi, dai, Allah lo ha detto che non era figlio suo! La signora parla anche qualche parola di inglese ma poi ha freddo e deve tornare dentro, che ha pulito la stufa ed è stanca e odia il traffico, che poco tempo fa una macchina l'ha presa in pieno, ma adesso è passato, alhamdulillah. Ci volta la gobba e si rintana dietro la porta di casa sua.
Riprendiamo il giro a zonzo per il quartiere e decidiamo di rifugiarci nel Komşu Café, dove troviamo un bel giovane papà e il suo bambino capricciosissimo, a cui si aggiunge di lì a poco una bella giovane mamma che ci propone volantinando il suo corso di yoga. Beviamo due tè e mangiamo un dolce e quando chiedo quant'è il conto, il ragazzo che sta ancora masticando la polpetta che stava cucinando mi dice: –Non lo so!– dice di non sapere i prezzi, e mi informa che i prezzi li decidono i clienti, a seconda di quanto si sentono di dare. È un furbo sistema, penso, e mollo 1TL di più rispetto al prezzo di listino. Perché un listino c'è. –E' per chi non riesce a prendere una decisione.–
Poi ci imbuchiamo nella sede della Karşı Radio (Radio Contro) dove al momento stanno girando un documentario sulla Radio ma possiamo tornare un altro giorno e ci potranno offrire in tutta calma un caffé e raccontarci un po'. Nello stanzino scorgiamo la ragazza che al Don Kişot ci spiegava timidamente.
Continuiamo fino ad arrivare ad Altı Yol (Sei Strade), dove ci sono dei bambini in tenuta coro angelico multiculturale che augurano buon Natale ai passanti, sotto gli occhi vigili dei genitori. Sono cristiani. 


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