Mi
sento continuamente ripetere che in Turchia ci sono due sinistre: una
ispirata alle idee di Atatürk, e una filo-comunista, giusto per
ridurre all'osso. Io mi sorprendo ogni volta perché ero stata
abituata da esperienze precedenti, ovvero da un'intensa esposizione
all'altra sinistra, a non considerare Atatürk come propriamente un
uomo della sinistra. Anzi, piuttosto, il nemico. Ma ogni volta che
torno qui ho un'esperienza diversa e mi ritrovo continuamente a
rimettere in discussione tutto ciò che davo per certo. E
naturalmente scopro che non si tratta di una distinzione binaria, ma
di una ben più articolata. Ma poiché non sono un'analista politica
non mi dilungherò troppo su osservazioni che dette così sono solo
noiose, per chi scrive e per chi legge.
A
volte però, mentre cerco di liberarmi di questa visione manicheista,
mi scontro con quelli che, stando ben saldi con un piede sul male e
uno sul bene, hanno ben chiaro come debbano essere fatte le cose, e
si aspettano che basta che te lo spieghino perché anche tu ti
convinca a seguirli.
Facendo
finta di essere una di queste persone, racconterò una giornata in
questa città osservata da un monocolo, certa che ogni dispositivo è
limitante ma informativo, come anche una semplice reklam può
esserlo, benché non si tratti esattamente di un dispositivo
scientifico. Per esempio la campagna pubblicitaria del quotidiano
Zaman mostra coppie di personaggi, opposti nel discorso sociale
(manicheista) turco. Il poliziotto e il manifestante, la ragazza
velata e quella con i capelli e le unghie tinte. Certamente si tratta
di una semplificazione, ma rende esplicita una divaricazione sentita,
e io mi informo e ricevo conferma.
A
Yeldeğirmeni, Kadıköy, nel centro sociale occupato (il primo in
Turchia) Don Kişot, si preparano i pankart (striscioni)
per la manifestazione del giorno successivo, per l'occupazione, per
l'appropriazione della città. Una ragazza ci spiega un po'
timidamente, un'altra ci chiede gentilmente di infilarci nello
scantinato che loro stanno spostando le sedie e siamo in mezzo a dare
fastidio. Noi preferiamo salire a dare un'occhiata all'edificio che
stanno mettendo a posto ad una velocità stupefacente: hanno messo le
finestre, hanno iniziato ad intonacare l'esterno. Di fronte c'è una
casina azzurra a due piani con terrazzo e divano dove forse abitano.
L'impressione è di una catena di luoghi affiliati, sparpagliati nel
quartiere, che la ciurma frequenta. Passeggiamo a zonzo a
Yeldeğirmeni e li ritroviamo di tanto in tanto. Yeldeğirmeni è
anche la sede di Tasarım Atölyesi Kadıköy (TAK), Atelier di
Design per la municipalità di Kadıköy, dove i cittadini possono
proporre degli interventi migliorativi di design urbano ad una
squadra di giovani architetti e pianificatori, che scelgono i
progetti e li realizzano. I cittadini ricevono anche un premio in
denaro per la loro idea. Una di queste è stata per esempio di
dipingere di colori pastello le casine a due piani della strada che
corre oltre la ferrovia cittadina (fuori uso dopo l'incendio di Haydarpaşa). Un mese fa, mentre percorrevo estasiata questo vicolo
delle meraviglie e scrutavo ogni angolo, ogni finestra, ogni
giaciglio per i gatti, avevo notato in fondo alla fila di case una
signora che aspettava fuori dalla porta e guardava verso di me.
Arrivata al suo cospetto, mi fa segno di avvicinarmi, mi mette in
mano un telefono cellulare e mi chiede di riaccenderglielo perché la
teize (signora
anziana) che c'è lì dentro (la scorgo nella semioscurità) gliel'ha
spento e non è più capace di riaccenderlo. Eseguo, ringrazia,
saluto. E me la ritrovo lì un mesetto dopo che si lancia fuori dalla
porta arrabbiandosi con una macchina che passa; si dirige al
prospiciente cassonetto dell'immondizia dove noi ci siamo fermati a
guardare ed inizia a parlare, senza smettere per i dieci minuti
successivi. Dice di essere circassa ma il nonno era armeno,
cristiano, la madre bosgnacca. Lei, fiera musulmana dall'età di
quattro anni, ci avvisa che nel giorno del giudizio (kiyamet)
non ci scapperà nessuno, tanto meno quegli Ebrei che nemmeno
riconoscono Gesù come profeta; però anche voi, dai, Allah lo ha
detto che non era figlio suo! La signora parla anche qualche parola
di inglese ma poi ha freddo e deve tornare dentro, che ha pulito la
stufa ed è stanca e odia il traffico, che poco tempo fa una macchina
l'ha presa in pieno, ma adesso è passato, alhamdulillah.
Ci volta la gobba e si rintana
dietro la porta di casa sua.
Riprendiamo
il giro a zonzo per il quartiere e decidiamo di rifugiarci nel Komşu
Café, dove troviamo un bel
giovane papà e il suo bambino capricciosissimo, a cui si aggiunge di
lì a poco una bella giovane mamma che ci propone volantinando il suo
corso di yoga. Beviamo due tè e mangiamo un dolce e quando chiedo
quant'è il conto, il ragazzo che sta ancora masticando la polpetta
che stava cucinando mi dice: –Non lo so!– dice di non sapere i
prezzi, e mi informa che i prezzi li decidono i clienti, a seconda di
quanto si sentono di dare. È un furbo sistema, penso, e mollo 1TL di
più rispetto al prezzo di listino. Perché un listino c'è. –E'
per chi non riesce a prendere una decisione.–
Poi
ci imbuchiamo nella sede della Karşı Radio (Radio Contro) dove al
momento stanno girando un documentario sulla Radio ma possiamo
tornare un altro giorno e ci potranno offrire in tutta calma un caffé
e raccontarci un po'. Nello stanzino scorgiamo la ragazza che al Don
Kişot ci spiegava timidamente.
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