Şükrü e Özkan mi confermano che
quello che sto cercando non importa solo me, e davvero ad un certo
punto mentre raccontano mi commuovo e mi salgono le lacrime agli
occhi, ma per fortuna mi passa del fumo di sigaretta davanti e evito
la scena penosa fingendo che si tratti di quello.
Mi raccontano della loro vita sociale
distrutta. Come tutto sia cominciato con la chiusura forzata delle
eğlence evleri, il cuore
della musica Rom di Istanbul. Il 75% degli abitanti di Sulukule
trovava la propria fonte di guadagno là dentro. Il restante
venticinque era impiegato nel commercio di pelli, scarpe e simili.
Sono iniziati i controlli da parte del governo, con l'imposizione di
chiudere perché privi del permesso. Alla loro disponibilità di
mettersi in regola (Şükrü racconta che pagavano già tremila lire
al mese) esso ha risposto con la polizia e la chiusura forzata. Lo
smantellamento di Sulukule comincia da qui. Gli abitanti si ritrovano
privi del lavoro e indeboliti socialmente.
Poi
inizia il vero e proprio kentsel dönüşüm,
promosso dalla municipalità metropolitana e da quella del quartiere
Fatih (Akp), a cui Sulukule appartiene.
L'incredibile
storia di Sulukule porterà Şükrü in tutta Europa, fino al
Parlamento Europeo. Solo in Turchia l'espressione kentsel
dönüşüm però fa pensare
immediatamente alla demolizione. A Bruxelles per esempio
rigenerazione urbana significa risolvere i problemi sociali,
lavorativi, di istruzione degli abitanti, ma consentendogli di
rimanere nelle proprie case. “Solo in Turchia non sappiamo cosa
vuol dire kentsel dönüşüm”,
dice Şükrü.
Qui è
stato infranto uno stile di vita, una cultura dell'abitare (non sono
parole mie e nemmeno imboccate da me, forse da qualcun altro, ma non
da me). Loro erano sei fratelli e tutti vivevano nella stessa casa,
felicemente, condividendo. Noi amiamo condividere, dice. Noi amiamo
essere liberi, andare a letto tardi per stare insieme, svegliarci
tardi. Lavorando, certo. Adesso per comunicare usiamo il telefono.
Ognuno vive a casa sua, separatamente. C'era una cultura di quartiere
(sempre parole sue), ci si ritrovava nelle eğlence evleri,
adesso nei caffé (e la divisione di genere che comporta, aggiungo
io: vedi penultimo post). Uno sviluppo urbano per chiamarsi così
deve guardare alle persone, ai loro bisogni, alle loro capacità
lavorative, costruire case secondo il loro modo di vivere. È
necessaria una ricerca sia sociologica (tutte parole sue, scatta il
monumento) che geologica –a causa del rischio terremoto– per
capire veramente cosa non funziona e cosa c'è da fare. E soprattutto
non qualcosa di generico che vada bene per tutti, ma una ricerca che
si occupi di ogni caso separatamente.
Özkan
racconta della loro identità di cittadini: “Noi siamo più
Istanbulioti di tanti altri che abitano qui, noi siamo qui dal 1490,
siamo nati e cresciuti qui. Qui ci sono i nostri cimiteri. I nostri
ragazzi sono musicisti, artisti. Io lavoro nel tessile. Come faccio a
vivere a Taşoluk, in mezzo alla natura e alle mucche? I nostri
bambini si annoiano, si arrabbiano. Quello non è il nostro habitat
(sic)”. Infatti da
là sono tornati quasi tutti, tranne quattro famiglie. Tutti hanno
cercato di sistemarsi nei quartieri adiacenti: Karagümrük,
Ayvansaray, Balat, Fener. Ma il tessuto sociale è irrimediabilmente
perso. E quando guardano alla loro terra (chi più di loro può dirlo
con più certezza?) alla loro Sulukule, e non possono più neanche
entrarci, dato che sarà una gated community,
e quando vedono che i rifugiati siriani che ci vivono ora possono
pagare affitti che si aggirano fra le 700 e le 1000 lire, e prendono
una pensione dallo stato turco di 400 dollari, mentre i loro reduci
(gaziler) meno della
metà: 390 lire; e la loro mamma anziana prende ogni tre mesi 300
lire, allora pensano che c'è qualcosa che non va. Certo che sono
nostri fratelli di religione, noi che siamo prima di tutto musulmani,
poi cittadini turchi, poi Roman. Ma non è giusto. È un sopruso
troppo grande.
E
ancora senza che io li abbia nemmeno nominati, inizia a parlare delle
rivolte di Gezi Parkı, contro cui si schiera fermamente. Perché, si
chiede, pochi alberi abbiano attirato tutta quella gente agguerrita e
motivata, mentre Sulukule no? Là ci sono alberi, ma qui ci sono
uomini. Qui c'è la Storia. Non solo la nostra, ma quella di tutti.
Sulukule è la pancia di Istanbul.
Nonostante
una simpatia che non comprendo per il premier Erdoğan, che a quanto
pare avrebbe riconosciuto apertamente che Sulukule è stato un
errore, Şükrü riconosce il torto dell'Akp, del partito al potere
allora, all'inizio del progetto di annientamento di Sulukule, e oggi.
Per questo non capisce come mai il popolo di Gezi non si sia
interessato a loro, in questo terreno di scontro così netto, così
centrale. Inoltre, dice, è lo stile che non condivide: “Noi non
abbiamo tirato una sola pietra contro la gente della municipalità.
Non abbiamo fatto scorrere sangue. Abbiamo protestato con la musica.
E la danza.”
E
adesso, del quartiere dove i bambini non si perdono, perché trovano
sempre qualcuno che li ripesca e li riporta a a casa, non è rimasto
nulla. Ma loro, i Sulukuleliler,
vogliono che quel nuovo agglomerato di case porti ancora il suo
antico nome, il suo vero nome.
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