lunedì 30 dicembre 2013

Sopportate quest'ultima visione monoculare (parte 3 di 3)


Ma torniamo al nostro cristiano ad Altı Yol, che ci aspetta per finire di spiegarci come arrivare là. Il mio compagno gli chiede quanto tempo ci vuole per costruire una chiesa a Istanbul. Lui sorride di incredulità e dice che al massimo puoi fare domanda, ma magari se hai tempo puoi aspettare una quarantina d'anni. La domanda è sorta per via di una conferenza alla quale abbiamo partecipato la sera prima, a Karaköy, dal titolo “Moschee in Europa e in Turchia”, alla quale contribuivano la sociologa Nilüfer Göle e tre architetti: il turco-olandese Cihan Buğdacı, il tedesco Paul Böhm e il turco Emre Arolat. 
Sul contenuto di questa conferenza tornerò presto. Ciò che mi preme qui è riportare il lamento di Buğdacı circa il fatto che in Olanda per costruire una chiesa ci vogliano solo tre o quattro anni, mentre per una moschea bisogna aspettarne almeno venti. Non che mi prema più di tanto costruire una chiesa a Istanbul, e nemmeno penso che dovremmo misurare il comportamento dell'Europa verso le minoranze guardando al modo in cui le amministrazioni dei paesi da cui provengono trattano le loro minoranze. Ma mi sembra piuttosto normale non avere il diritto di costruire una chiesa in Turchia pari a quello che ha un turco di costruirsi la sua moschea. Non vado certo ad ammiccare ai miei connazionali in patria lasciando intendere che questi poverini non hanno il senso della democrazia e che noi deteniamo la scienza dell'Integrazione. 
Ora non lo so se il mio americano stesse ammiccando o no. Fatto sta che stavano cercando di convincermi ad andare in chiesa. E io ci sarei anche andata volentieri, almeno per curiosità. Il giorno dopo abbiamo rincontrato parte della compagnia sul battello e devo dire che mi ha fatto un certo effetto augurare “Merry Christmas” ad alta voce in mezzo alla spazio di fronte all'attracco. Ero davvero curiosa di fare l'esperienza di vivere il Natale in una città musulmana. E qualcuno obietterà che Istanbul è una città anche cristiana ed ebraica e.
Fra i mille progetti edilizi dal gusto terribile e dall'utilità pubblica dubbia, ci sono le restaurazioni del patrimonio storico della città. Non entro nel merito della qualità della restaurazione, che richiederebbe un'osservazione un po' oculata, e non un giudizio sommario che può derivare per esempio dall'esperienza di me che gratto via il sottile strato di cemento dalle mura di Teodosio che tiene insieme le pietre, per scoprire sotto terra secca. Medrese e moschee sono incappucciate in abito da cantiere, e sul loro mantello c'è scritto “Proteggiamo il nostro patrimonio storico”. E la firma della municipalità che sponsorizza l'operazione.
Però le chiese di Karaköy languiscono tristi come vecchi cimeli inutili, e per questo mi sono stupita come invece a Yeldeğirmeni stiano ristrutturando Notre Dame du Rosaire, cattolica chiesa e monastero e scuola.
In città non si sentono campanili suonare, è l'ezan delle sei a svegliarmi. Forse è abbastanza per dire che Istanbul è una città musulmana. Forse per questo i nostri auguri in piazza mi sono sembrati quasi una dichiarazione di identità. E ho capito come diventa facile all'estero identificarsi con qualcosa di forte come la religione. Io che in patria non partecipo alla vita che gira intorno alla parrocchia, qui mi viene quasi la tentazione di adottare l'azione di andare alla messa di Natale come statement. Mi trattengo, infine, sia la sera della Vigilia che la mattina del 25; la vince la stanchezza della settimana di giri matti con il mio fidanzato camminatore. Ma io, che qui sono un puntolino semi-invisibile, so che mi sentirei meno impotente se superassi il livello del mio essere cristiana semplicemente per formazione, per cultura e accedessi a quello dell'identificazione piena e affermativa. Per fortuna sono un'antropologa e non cado in tentazione.

sabato 28 dicembre 2013

Auguri di Buon Natale e di Felici Dimissioni (Monocolo parte 2 di 3)


Mi avvicino ad una coppia, mi dicono di essere di Hong Kong, in visita ad una loro ex-connazionale, ormai stabile in Turchia, sposata ad un americano. Spiego che la mia famiglia è credente, ma io, per quanto ami l'atmosfera natalizia, non vado in chiesa se non per sentire cantare il mio babbo. Lui mi guarda serio e dice: –Forse è arrivato il momento di fare visita ad una chiesa di nuovo.– con lei che annuisce alle sue spalle. In poco tempo mi ritrovo l'amico americano che mi spiega come arrivare là, a che ora sarà la messa, etc. La messa sarà nella cappella del consolato olandese, su una laterale di viale İstiklal. Ma, mentre mi spiega i dettagli, le nostre voci sono sommerse dal coro poderoso della manifestazione della Türk Gençlik Birliği (Unione della gioventù turca), che chiede a tutta voce le dimissioni del governo ladro. Il coro di bambini rimane ammutolito e in attesa. 



Siccome non avevo ancora letto le notizie (non dimentichiamoci che era la mia settimana di vacanza), non sapevo la ragione di quell'appellativo, “ladro”, così l'ho chiesto a un signore che mi stava accanto. Il governo sta rubando tutto, dice, a loro che lavorano nell'educazione, nel sociale, che sono insegnanti, psicologi, medici. Gli dico che maggior parte delle persone con cui parlo sostengono il governo e stimano il loro premier. Lui sostiene che le persone con cui parlo sono tutte ignoranti (cahil) e non capiscono nulla. Invece quelli che vedo sfilare davanti sono tutti loro, che vedono sparire le risorse e hanno studiato e capiscono. Sfilano con scatole di scarpe nelle mani, che sollevano in aria. In scatole di scarpe, come ho appreso poi, pare che il presidente della banca statale Halkbank nascondesse tangenti ricevute per rendere la vita facile ad un imprenditore iraniano di origine azera. Uno scandalo enorme, una Tangentopoli in cui sono coinvolti anche i figli di tre ministri, indagati per tangenti dalle compagnie edilizie nell'ambito dello sviluppo urbano (il nostro kentsel dönüşüm). La compagnia edilizia Ağaoğlu avrebbe scavalcato il divieto di espansione di uno dei suoi progetti, da parte dell'ufficio di pianificazione urbana del comune di Istanbul, rivolgendosi direttamente al figlio del Ministro dell'Ambiente e dell'Urbanistica, Erdoğan Bayraktar. Ora i tre ministri: ambiente, economia (il già citato Çağlayan) e affari Ue (Egemen Bağiş) hanno dato le dimissioni, mentre il premier ha ordinato la sospensione dal servizio di cento poliziotti e di un pubblico ministero che lavoravano all'indagine. Se tutto ciò fosse la verità, e non un complotto ordito dai sostenitori di Fetullah Gülen (si parla ormai di faida), io avrei già finito la mia tesi e me ne potrei tornare a casa. É stato perfino arrestato (ora rilasciato) il sindaco della municipalità di Fatih,  Mustafa Demir, accusato di aver dato il permesso di costruire su aree protette dall'Unesco (Sulukule?).

giovedì 26 dicembre 2013

Passeggiata con monocolo / Parte 1 di 3


Mi sento continuamente ripetere che in Turchia ci sono due sinistre: una ispirata alle idee di Atatürk, e una filo-comunista, giusto per ridurre all'osso. Io mi sorprendo ogni volta perché ero stata abituata da esperienze precedenti, ovvero da un'intensa esposizione all'altra sinistra, a non considerare Atatürk come propriamente un uomo della sinistra. Anzi, piuttosto, il nemico. Ma ogni volta che torno qui ho un'esperienza diversa e mi ritrovo continuamente a rimettere in discussione tutto ciò che davo per certo. E naturalmente scopro che non si tratta di una distinzione binaria, ma di una ben più articolata. Ma poiché non sono un'analista politica non mi dilungherò troppo su osservazioni che dette così sono solo noiose, per chi scrive e per chi legge.
A volte però, mentre cerco di liberarmi di questa visione manicheista, mi scontro con quelli che, stando ben saldi con un piede sul male e uno sul bene, hanno ben chiaro come debbano essere fatte le cose, e si aspettano che basta che te lo spieghino perché anche tu ti convinca a seguirli.
Facendo finta di essere una di queste persone, racconterò una giornata in questa città osservata da un monocolo, certa che ogni dispositivo è limitante ma informativo, come anche una semplice reklam può esserlo, benché non si tratti esattamente di un dispositivo scientifico. Per esempio la campagna pubblicitaria del quotidiano Zaman mostra coppie di personaggi, opposti nel discorso sociale (manicheista) turco. Il poliziotto e il manifestante, la ragazza velata e quella con i capelli e le unghie tinte. Certamente si tratta di una semplificazione, ma rende esplicita una divaricazione sentita, e io mi informo e ricevo conferma.
A Yeldeğirmeni, Kadıköy, nel centro sociale occupato (il primo in Turchia) Don Kişot, si preparano i pankart (striscioni) per la manifestazione del giorno successivo, per l'occupazione, per l'appropriazione della città. Una ragazza ci spiega un po' timidamente, un'altra ci chiede gentilmente di infilarci nello scantinato che loro stanno spostando le sedie e siamo in mezzo a dare fastidio. Noi preferiamo salire a dare un'occhiata all'edificio che stanno mettendo a posto ad una velocità stupefacente: hanno messo le finestre, hanno iniziato ad intonacare l'esterno. Di fronte c'è una casina azzurra a due piani con terrazzo e divano dove forse abitano. L'impressione è di una catena di luoghi affiliati, sparpagliati nel quartiere, che la ciurma frequenta. Passeggiamo a zonzo a Yeldeğirmeni e li ritroviamo di tanto in tanto. Yeldeğirmeni è anche la sede di Tasarım Atölyesi Kadıköy (TAK), Atelier di Design per la municipalità di Kadıköy, dove i cittadini possono proporre degli interventi migliorativi di design urbano ad una squadra di giovani architetti e pianificatori, che scelgono i progetti e li realizzano. I cittadini ricevono anche un premio in denaro per la loro idea. Una di queste è stata per esempio di dipingere di colori pastello le casine a due piani della strada che corre oltre la ferrovia cittadina (fuori uso dopo l'incendio di Haydarpaşa). Un mese fa, mentre percorrevo estasiata questo vicolo delle meraviglie e scrutavo ogni angolo, ogni finestra, ogni giaciglio per i gatti, avevo notato in fondo alla fila di case una signora che aspettava fuori dalla porta e guardava verso di me. Arrivata al suo cospetto, mi fa segno di avvicinarmi, mi mette in mano un telefono cellulare e mi chiede di riaccenderglielo perché la teize (signora anziana) che c'è lì dentro (la scorgo nella semioscurità) gliel'ha spento e non è più capace di riaccenderlo. Eseguo, ringrazia, saluto. E me la ritrovo lì un mesetto dopo che si lancia fuori dalla porta arrabbiandosi con una macchina che passa; si dirige al prospiciente cassonetto dell'immondizia dove noi ci siamo fermati a guardare ed inizia a parlare, senza smettere per i dieci minuti successivi. Dice di essere circassa ma il nonno era armeno, cristiano, la madre bosgnacca. Lei, fiera musulmana dall'età di quattro anni, ci avvisa che nel giorno del giudizio (kiyamet) non ci scapperà nessuno, tanto meno quegli Ebrei che nemmeno riconoscono Gesù come profeta; però anche voi, dai, Allah lo ha detto che non era figlio suo! La signora parla anche qualche parola di inglese ma poi ha freddo e deve tornare dentro, che ha pulito la stufa ed è stanca e odia il traffico, che poco tempo fa una macchina l'ha presa in pieno, ma adesso è passato, alhamdulillah. Ci volta la gobba e si rintana dietro la porta di casa sua.
Riprendiamo il giro a zonzo per il quartiere e decidiamo di rifugiarci nel Komşu Café, dove troviamo un bel giovane papà e il suo bambino capricciosissimo, a cui si aggiunge di lì a poco una bella giovane mamma che ci propone volantinando il suo corso di yoga. Beviamo due tè e mangiamo un dolce e quando chiedo quant'è il conto, il ragazzo che sta ancora masticando la polpetta che stava cucinando mi dice: –Non lo so!– dice di non sapere i prezzi, e mi informa che i prezzi li decidono i clienti, a seconda di quanto si sentono di dare. È un furbo sistema, penso, e mollo 1TL di più rispetto al prezzo di listino. Perché un listino c'è. –E' per chi non riesce a prendere una decisione.–
Poi ci imbuchiamo nella sede della Karşı Radio (Radio Contro) dove al momento stanno girando un documentario sulla Radio ma possiamo tornare un altro giorno e ci potranno offrire in tutta calma un caffé e raccontarci un po'. Nello stanzino scorgiamo la ragazza che al Don Kişot ci spiegava timidamente.
Continuiamo fino ad arrivare ad Altı Yol (Sei Strade), dove ci sono dei bambini in tenuta coro angelico multiculturale che augurano buon Natale ai passanti, sotto gli occhi vigili dei genitori. Sono cristiani. 


mercoledì 25 dicembre 2013

Sospensione


Questo post è uscito già qualche giorno fa su Q Code Mag, che ospiterà i miei scritti a intervalli di una decina di giorni. Vi invito ad esplorare altri interessantissimi contributi fornendovi il link: www.qcodemag.it. Kız Reporter è nella sezione dedicata ai blog.

Mulime si vergogna un po' ma ci fa entrare volentieri; si scusa sorridendo e dicendo: “È una casa di poveri”. Mesut, che fa il guardiano per la compagnia edile di questo cantiere, dice sarcasticamente che questi hanno vinto la lotteria. Da poveri e ignoranti abitanti semi-abusivi di gecekondu si ritrovano proprietari di appartamenti lussuosissimi in una di quelle che stanno per diventare le zone più pregiate della città. Alcuni ricevono anche più di un appartamento in funzione della grandezza del terreno e della famiglia.
Orhan però venderà gli appartamenti che gli spettano e se ne andrà a vivere ad Adapazarı, fuori Istanbul, dove vivono i parenti della moglie, Şefika. Là c'è la casa che assomiglia a quella in cui immagina di poter vivere: unico piano (terreno), un giardino con alberi da frutta, dove si può bere il tè e ricevere gli ospiti. Dove può tenere i suoi canarini (ne ha due nel soggiorno) e anche un cane. Nella nuova Fikirtepe non potrebbe mai vivere. La moglie è velata e loro sono molto religiosi. Come fanno ad abitare in un posto dove la gente va in piscina mezza nuda e si vanno a far fare i massaggi. “Ci vergogneremmo. Inoltre da qui alla fine della strada saluto e scambio due parole con almeno cinquanta persone. Con questi appartamenti, ognuno il suo, con chi parlo? Io ho bisogno di una casa che apro la porta e sono subito in strada, vicino alla gente.”
Orhan ha le idee così chiare e questo mi aiuta molto. In molte delle persone che intervisto c'è quella sospensione, quell'incapacità di raccontare di sé, della propria casa e del proprio quartiere come era prima, e di immaginare quello che sarà dopo. Mulime, dalla sua casa che si affaccia sul vuoto creato dalle ruspe, in riga con le altre case a cui tocca la prossima demolizione, non sa nemmeno di preciso quando inizieranno i lavori, né dove andrà temporaneamente in affitto. Ha circa sessantacinque-sessant'anni e vive con il marito Hasan.
Il padre di Orhan ha novant'anni, non capisce bene, ma conosce l'espressione kentsel dönüşüm (trasformazione urbana), usata dal figlio per spiegare cosa ci facciamo in casa sua. La casa l'ha costruita lui, che ha partecipato alla “guerra tedesca” e di cui nel salotto c'è una foto di quando aveva ventidue anni con il fez e i calzari e gli şalvar.
Me lo immagino nei diversi spostamenti: da casa sua a chissà dove in affitto per due o tre anni, poi nella lussuosa casa del suo quartiere trasfigurato in attesa di essere venduta, poi finalmente ad Adapazarı, nel suo grande giardino a bere tè e sgridare il cane. Me lo immagino chiedere lentamente con un filo di voce, come aveva fatto di fronte a me e a un amico fotografo di passaggio a Fikirtepe, seduti di fronte a lui con i nostri apparecchi neri in mano: “Ne için? Per che cosa?”
Invece Husein proprio non capisce la mia domanda quando gli chiedo: “Ma non sarà un po' difficile per le persone anziane?” Riformulo tre volte pensando che sbaglio qualcosa con la lingua, poi mi rendo conto che non riesce proprio a capire quale possa essere il problema. Eppure racconta che, essendo lui stesso costruttore ed essendosi costruito da sé la propria casa, non è riuscito a guardare mentre la demolivano, perché sarebbe stato troppo doloroso.
Lui non vuole guardare indietro, e nemmeno sa bene cosa aspettarsi. Non riesce a descrivermi il suo quartiere, non capisce le mie domande. Ma ha fede in Dio e sembra sicuro che ciò che Dio vorrà dargli lo soddisferà.


giovedì 12 dicembre 2013

Attraversare la strada


Questa mattina mi ha telefonato S. ağabey e mi ha molto rallegrato. Mi ha detto di passare a fare due chiacchiere che l'ultima volta gli ha fatto molto piacere. La sua sala da tè, ormai un rudere nei miei primi giorni a Fikirtepe, ora definitivamente abbattuta, è temporaneamente trasferita nel campo sportivo della scuola di calcio del Fenerbahçe, proprio all'altro lato della strada, dove serve tè e toast ai lavoratori del cantiere. È un uomo timido, sincero, limpido. Da pochi mesi è uscito dalla sua proprietà, un edificio che comprendeva la sua casa e la sua çay ocağı, che si trovava al piano terra.
Gli chiedo a che ora iniziava a lavorare e lui risponde che non c'era orario: era casa sua, bastava che scendesse.. Chi arrivava chiamava e lui scendeva.
Adesso si muove incerto e tentennando non sa se unirsi al gruppo di operai che chiacchierano là fuori. Lo immagino sicuro dietro al suo banco da lavoro, mentre serve gli avventori e ascolta le loro chiacchiere.
Gli avventori erano coloro che lavoravano nei negozi e nelle officine circostanti. Alcuni vengono ancora lì e si scaldano al fuoco improvvisato sulla strada tra il cantiere e il campo sportivo. Il fuoco è fatto con pezzi di legno fuoriusciti dalle demolizioni. Sono tutti seri e rivolgono il sedere al fuoco, mentre intorno è tutto bianco di neve e tempesta, in riga verso il cantiere. Arrivo e saluto, ricambiano ma nessuno sorride. Mi appaiono scontrosi, non oso chiedere cosa ci fanno lì.
S. ağabey inizia tutti i giorni alle 8:30, si sveglia alle 7 e prende ogni giorno il taxi da casa sua, che il tassista ormai non gli chiede più niente, e spende ogni giorno venti lire fra andata e ritorno. No, non ci sono altri mezzi, oppure non ho voglia di prenderli.
A volte se ne va prima di cena, a volte aspetta un po' dopo l'inizio dell'ultimo allenamento.
Mi accoglie nell'angusto retro del suo angolo di lavoro dove ha sistemato un tavolino con tre sgabelli, un portacenere e un calorifero elettrico. Pochi giorni fa alcuni operai erano venuti a reclamare questo angolino, come suppongo facessero ormai d'abitudine, per il namaz. S. abi li ha mandati via dicendo “Ma non vedete che c'è seduta una signora?”.
Gli chiedo se quando tornerà qui ad abitare riaprirà la sua çay ocağı. Lui dice che fra tre anni va in pensione e chi se frega.
Prima di fare questo lavoro aveva lavorato in Libia. Ma faceva troppo caldo laggiù, non ha resistito. S. ha un by-pass e non può più fumare. Ogni tanto ruba gli ultimi due tiri dalla sigaretta della sua amica S. Gli ho chiesto cosa ha provato quando hanno demolito la sua casa e lui: “Ho fumato una sigaretta”.
È arrabbiato perché nella casa in cui sta temporaneamente in affitto, nell'attesa che gli venga assegnata la nuova casa a Fikirtepe, la caldaia dà problemi e la sua richiesta al proprietario si è risolta in un litigio durissimo. Gli chiedo se la compagnia edilizia in questo caso non intervenga e lui risponde che la compagnia si interessa solo delle faccende di soldi (le compagnie edilizie pagano fino a circa 850 lire mensili per l'affitto dei vecchi abitanti del quartiere), e non di queste cose.
Del suo vecchio edificio è rimasta solo la vecchia insegna, che adesso è appesa alla ringhiera di cinta del campo sportivo, vicino all'ingresso.

domenica 8 dicembre 2013

Le demolizioni

Il link al mio post sul blog del Laboratorio di Antropologia Visuale dell'Università di Milano Bicocca.
http://lamaetnografia.blogspot.it/2013/12/primi-girati-da-fikirtepe.html
(contiene video delle demolizioni più interviste)

Il sistema-Islam. Nella tana del lupo.


Mi sveglio di buon'ora, dopo una notte agitata di solo dormiveglia e mi premo dentro un minibus strapieno in cui non credevo sarei mai potuta entrare (ne passano tre o quattro prima di convincermi). A Üsküdar prendo il battello per il Corno D'oro, uno spettacolo di ponti mobili rimasti aperti, e strade sospese, che scorgo fra le palpebre che si aprono, e si chiudono. Faccio un conteggio delle cose che indosso e mi chiedo se non sarò troppo riconoscibile e fuori luogo. I miei stivaletti verdi un po' consunti, con le stringhe avvolte intorno alle caviglie e poi allacciate, pantaloni aderentissimi, dolcevita e grande maglione fino a metà coscia pieno di pirulini di lana, giacca nera, berretto e coda di cavallo semispettinata. Due occhiaie profonde.
Si tratta del congresso dei giovani uomini d'affari della Müsiad, la confederazione indipendente (leggi: musulmana) dell'industria istanbuliota. Nel programma di apertura è prevista la partecipazione del premier Recep Tayyip Erdoğan, e io sono veramente curiosa di verificare la sua aura di persona, la portata della sua presenza.
Mi ero iscritta al congresso in qualità di “studente”, non mi era stato chiesto nient'altro. Il congresso era internazionale e l'Italia era uno dei paesi d'interesse elencati. Dunque la mia presenza era più o meno legittima. Se avessi potuto, ecco, sì, mi sarei messa un po' più in ghingheri, ma il mio bagaglio è piuttosto ridotto.
Il centro congressi di Haliç, a Sütlüce è un bell'edificio che si affaccia sul mare accanto all'attracco del battello. Mi metto in coda per ritirare il mio pass. Ma presto la procedura viene annullata per la troppa folla e un addetto alla sicurezza invita tutti a lasciar perdere ed entrare che inizia il programma. Ci sono tanti giovani, ragazzi e ragazze, barbuti e non, velate e non. Ci sono pulmini dei vari kolej privati e delle università che portano i loro studenti. Ci sono persone che parlano arabo e nessuno in tenuta da sceicco. Appena varco la porta dell'auditorium mi prende un brivido: “Ecco, sto entrando nella pancia del lupo” penso. Nella semioscurità, solo il grande palco è illuminato, e un motivetto ottomano fa da sottofondo (ripetuto fino allo sfinimento). Sulle due facciate laterali è proiettato il logo della Müsiad, con sotto scritto Müsiad. Prendo posto immediatamente vicino al corridoio di ingresso: non si sa mai chi entra e vale la pena fotografare, mi dico. Mi provvedo di cuffie per la traduzione simultanea, disponibile in inglese e in arabo.
Dopo quaranta minuti buoni di assestamento, finalmente si comincia. Sale sul palco l'Imam Abdullah (okay, non ho preso nota del nome). Si siede e comincia a cantare. Poi viene proiettato un video di presentazione della associazione di industriali, riassuntivo della loro filosofia e della loro proposta identitaria. Il congresso è giocato sul tema Rizq-Risk (rızk-risk in turco).
Rizq nel Corano dovrebbe più o meno essere (invito gli informati a commentare e ad aggiungere informazioni) il livello di vita concesso da Allah, previsto già prima della nostra nascita e che siamo necessariamente chiamati a portare a compimento prima della nostra morte. Riguarda tutto ciò che possediamo e che ci procuriamo per sopravvivere. La conseguenza è che se viene accumulato più di quanto Allah abbia previsto per noi, cadiamo nel peccato. America, Unione Europea e Israele si trovano attualmente in questa situazione. Ma come conciliare questa legittima accumulazione di capitale con la realtà del mercato e degli investimenti, risk appunto? L'accumulazione di capitale fatta secondo l'Islam deve avere come scopo il benessere generale della Ummah, deve guardare ai poveri, a chi non ha niente. Chi accumula troppo in questo mondo, non avrà niente nell'altro. Murat Kalsın, della Camera di Commercio di Istanbul cita a questo proposito le parole della moglie del Sultano Fatih: “Per capire quali sono le nostre possibilità, bisogna guardare a quelli che non hanno possibilità”.
La differenza con il capitalismo di fattura occidentale è che questo non tiene conto della responsabilità sociale dell'attività bancaria, perché alla fin fine è l'economia umana che conta nel lungo termine, dice Khaled M. Al-Aboodi, direttore generale di ICD, Islamic Corporation for the Development of the Private Sector (che così, per curiosità, ha un comitato per la Shari'a). Sono gli emarginati che bisogna tenere in considerazione. E mi vengono in mente Sulukule e Fikirtepe, in particolare la seconda, con tutti i discorsi che si fanno sullo Stato che viene in soccorso dei poveri abitanti di quelle case vecchie, piene di buchi e di infiltrazioni, dove si consuma droga e la criminalità e all'ordine del giorno; dove gli abitanti ringraziano, con un grande striscione esposto sulla tangenziale, per l'interesse dimostrato per il quartiere. E come dice il presidente della Müsiad, Nail Olpak, la crisi dell'economia occidentale è istituzionale. È il settore privato che può farsi carico di questa responsabilità, e a Istanbul è in forte sviluppo. Con un accento di entusiasmo popolano il concetto è chiarito meglio dal ministro dell'economia Zafer Çağlayan (venuto per sopperire all'assenza del premier): “Tutti vogliono essere come Istanbul, tutti ci imitano! Noi siamo una grande forza che sta crescendo, e se quelli là (Eu e Usa e Israele) non vogliono riconoscerlo, fatti loro!”. Questo ministro è molto goffo, e parla a lungo, a lungo, per slogan. Mi fa pensare a Silvio Berlusconi e i suoi. Solo che questi se la prendono con i comunisti e la magistratura, quello con l'Europa. In più la traduzione simultanea in inglese non funziona, dietro alle cuffie c'è una ragazzina in preda al panico che poveretta non ci riesce e traduce una parola ogni tanto. Quella in arabo è fluida e funziona benissimo. Arriva il momento della preghiera del venerdì a cui tutti siamo invitati a partecipare. In preda alla noia, alla frustrazione per non capire bene, alla sensazione di essere fuori posto e la voglia di scappare via, ma soprattutto al sonno, mi dirigo verso il battello su cui mi addormento procacemente spalancando le fauci e forse russando.
È il sistema-Islam: tutto racchiuso nella piccola fiera dei giovani imprenditori nella hall del centro congressi. Una scuola islamica, dove si insegna turco, inglese, arti visive, educazione del corpo, recitazione del Corano (Kur'an-i Kerim), cultura religiosa e musica, in prima elementare, per esempio. Poi un sistema di produzione secondo i dettami religiosi. Un luogo dove abitare: i progetti edilizi del gruppo Akyapı erano presenti in mostra (uno è quello che ho fotografato in questo post). Un modo per vestirsi: la famosa azienda tessile Armine esponeva i suoi fazzoletti. Un modo di mangiare: aziende alimentari esponevano, solo su volantini, purtroppo, i loro prodotti. E via dicendo.




lunedì 2 dicembre 2013

La pancia di Istanbul/İstanbul'un göbeği


Şükrü e Özkan mi confermano che quello che sto cercando non importa solo me, e davvero ad un certo punto mentre raccontano mi commuovo e mi salgono le lacrime agli occhi, ma per fortuna mi passa del fumo di sigaretta davanti e evito la scena penosa fingendo che si tratti di quello.
Mi raccontano della loro vita sociale distrutta. Come tutto sia cominciato con la chiusura forzata delle eğlence evleri, il cuore della musica Rom di Istanbul. Il 75% degli abitanti di Sulukule trovava la propria fonte di guadagno là dentro. Il restante venticinque era impiegato nel commercio di pelli, scarpe e simili. Sono iniziati i controlli da parte del governo, con l'imposizione di chiudere perché privi del permesso. Alla loro disponibilità di mettersi in regola (Şükrü racconta che pagavano già tremila lire al mese) esso ha risposto con la polizia e la chiusura forzata. Lo smantellamento di Sulukule comincia da qui. Gli abitanti si ritrovano privi del lavoro e indeboliti socialmente.
Poi inizia il vero e proprio kentsel dönüşüm, promosso dalla municipalità metropolitana e da quella del quartiere Fatih (Akp), a cui Sulukule appartiene.
L'incredibile storia di Sulukule porterà Şükrü in tutta Europa, fino al Parlamento Europeo. Solo in Turchia l'espressione kentsel dönüşüm però fa pensare immediatamente alla demolizione. A Bruxelles per esempio rigenerazione urbana significa risolvere i problemi sociali, lavorativi, di istruzione degli abitanti, ma consentendogli di rimanere nelle proprie case. “Solo in Turchia non sappiamo cosa vuol dire kentsel dönüşüm”, dice Şükrü.
Qui è stato infranto uno stile di vita, una cultura dell'abitare (non sono parole mie e nemmeno imboccate da me, forse da qualcun altro, ma non da me). Loro erano sei fratelli e tutti vivevano nella stessa casa, felicemente, condividendo. Noi amiamo condividere, dice. Noi amiamo essere liberi, andare a letto tardi per stare insieme, svegliarci tardi. Lavorando, certo. Adesso per comunicare usiamo il telefono. Ognuno vive a casa sua, separatamente. C'era una cultura di quartiere (sempre parole sue), ci si ritrovava nelle eğlence evleri, adesso nei caffé (e la divisione di genere che comporta, aggiungo io: vedi penultimo post). Uno sviluppo urbano per chiamarsi così deve guardare alle persone, ai loro bisogni, alle loro capacità lavorative, costruire case secondo il loro modo di vivere. È necessaria una ricerca sia sociologica (tutte parole sue, scatta il monumento) che geologica –a causa del rischio terremoto– per capire veramente cosa non funziona e cosa c'è da fare. E soprattutto non qualcosa di generico che vada bene per tutti, ma una ricerca che si occupi di ogni caso separatamente.
Özkan racconta della loro identità di cittadini: “Noi siamo più Istanbulioti di tanti altri che abitano qui, noi siamo qui dal 1490, siamo nati e cresciuti qui. Qui ci sono i nostri cimiteri. I nostri ragazzi sono musicisti, artisti. Io lavoro nel tessile. Come faccio a vivere a Taşoluk, in mezzo alla natura e alle mucche? I nostri bambini si annoiano, si arrabbiano. Quello non è il nostro habitat (sic)”. Infatti da là sono tornati quasi tutti, tranne quattro famiglie. Tutti hanno cercato di sistemarsi nei quartieri adiacenti: Karagümrük, Ayvansaray, Balat, Fener. Ma il tessuto sociale è irrimediabilmente perso. E quando guardano alla loro terra (chi più di loro può dirlo con più certezza?) alla loro Sulukule, e non possono più neanche entrarci, dato che sarà una gated community, e quando vedono che i rifugiati siriani che ci vivono ora possono pagare affitti che si aggirano fra le 700 e le 1000 lire, e prendono una pensione dallo stato turco di 400 dollari, mentre i loro reduci (gaziler) meno della metà: 390 lire; e la loro mamma anziana prende ogni tre mesi 300 lire, allora pensano che c'è qualcosa che non va. Certo che sono nostri fratelli di religione, noi che siamo prima di tutto musulmani, poi cittadini turchi, poi Roman. Ma non è giusto. È un sopruso troppo grande.
E ancora senza che io li abbia nemmeno nominati, inizia a parlare delle rivolte di Gezi Parkı, contro cui si schiera fermamente. Perché, si chiede, pochi alberi abbiano attirato tutta quella gente agguerrita e motivata, mentre Sulukule no? Là ci sono alberi, ma qui ci sono uomini. Qui c'è la Storia. Non solo la nostra, ma quella di tutti. Sulukule è la pancia di Istanbul.
Nonostante una simpatia che non comprendo per il premier Erdoğan, che a quanto pare avrebbe riconosciuto apertamente che Sulukule è stato un errore, Şükrü riconosce il torto dell'Akp, del partito al potere allora, all'inizio del progetto di annientamento di Sulukule, e oggi. Per questo non capisce come mai il popolo di Gezi non si sia interessato a loro, in questo terreno di scontro così netto, così centrale. Inoltre, dice, è lo stile che non condivide: “Noi non abbiamo tirato una sola pietra contro la gente della municipalità. Non abbiamo fatto scorrere sangue. Abbiamo protestato con la musica. E la danza.”
E adesso, del quartiere dove i bambini non si perdono, perché trovano sempre qualcuno che li ripesca e li riporta a a casa, non è rimasto nulla. Ma loro, i Sulukuleliler, vogliono che quel nuovo agglomerato di case porti ancora il suo antico nome, il suo vero nome.

Antropologa lungo le mura di casa


Esiste il blocco dell'antropologo? Se esiste, corrisponde a quell'incapacità di prendere la decisione di uscire e andare a casaccio nel luogo dove farò la ricerca, per vedere se vedrò quello che sto cercando, se ha senso quello che sto cercando per qualcun altro all'infuori di me. E con chi parlerò di preciso e da quale posizione? Quasi sempre, quando dico cosa faccio, la gente non capisce, oppure, se sorprendevolmente dice “Ah, sì, l'antropologia!” poi aggiunge poco dopo qualcosa come “C'entra con l'anatomia, no?”.
Io decido allora di spiegare nel dettaglio cosa mi interessa: come cambia lo stile di vita, il modo di abitare in una casa delle persone, quando sono costrette a cambiare dall'alto, da un attore istituzionale, quando il loro paesaggio cambia senza che possano detenere il controllo di questo cambiamento. Oppure più semplicemente dico “Un po' come la sociologia”. Ma naturalmente non è così immediato come presentarsi in modo chiaro e scevro da dubbi con qualcosa come “Lavoro per la Trt (tv) e faccio un documentario su Fikirtepe e Sulukule” o “Sono una giornalista” o “Sono l'ispettrice governativa per i lavori di demolizione dell'area”.
Insomma, sarà anche per una mia indole un po' introversa, quella mattina non ce la facevo proprio a decidermi. Come arrivo lì, quando scendo dall'autobus dove vado, cosa chiedo. Avevo deciso di fare visita alla Roman Kültürünü Geliştirme ve Dayanışma Derneği (l'Associazione di Solidarietà e Sviluppo della Cultura Rom), nella persona del suo presidente Şükrü Pündük, al quale avevo già scritto un'e-mail ma non mi aveva risposto. Indirizzo in tasca, registratore in borsetta, trovavo mille scuse per non staccarmi dalla sedia. Intanto si faceva tardi e il ritardo aggiungeva un motivo in più per non muovermi. Alla fine, alle 14:10, riesco finalmente a varcare la porta di casa. In due ore potrei essere là, se non trovo più nessuno nell'ufficio, almeno saprò dov'è e sarà più facile ritornarci, mi sono detta. Questo aveva funzionato per Fikirtepe: dopo una visita veloce e anonima, avevo imparato la strada principale ed è stato facile e disinvolto tornarci per incontrarmi con Ercument di Fidem.
Una nota sul modo di dare l'indirizzo in Turchia: si va in ordine incrociato di precisazione di un luogo: la strada principale, la strada secondaria, il numero civico, il quartiere, la municipalità, la città. La strada secondaria si chiamava semplicemente “viale Lungo le Mura” (Kaleboyu caddesi). Scesa dall'autobus a Edirnekapı, dunque è stata questa la prima cosa che chiedevo. Naturalmente tutti mi mandavano verso le mura di Teodosio, ma la strada non si chiamava così! Un'altra nota di campo: cercavo di chiedere e interagire con le donne, perché mi sono accorta che parlo quasi sempre con uomini, e questo è strano nella storia dell'etnografia. Mi sono chiesta perché e mi sono resa conto di avere un certo timore nei confronti della donna velata, totalmente irrazionale, mi rendo conto, e della gioventù femminile o maschile in generale. Per questo spesso mi rivolgo agli uomini sopra i quaranta, ed è con loro che per la maggior parte avvengono i miei scambi. Forzandomi su questo punto dunque, ho scoperto quanto invece dietro quegli sguardi severi si schiuda immediatamente solidarietà: le donne a cui ho chiesto la direzione hanno preso a cuore la mia quête e si preoccupavano che la trovassi, o che potessero indirizzarmi presso qualcuno che potesse aiutarmi. Il mio cuore indurito si riscaldava e cominciavo a sentirmi a mio agio nell'ambiente. Mi ritrovo comunque accompagnata da un signore affabile a cui tutti porgono i loro omaggi e rispetto. Gli chiedo se per caso sia il muhtar, lui mi risponde con una battuta che non capisco e non insisto. Alla fine, dato che nessuno sembrava saperne niente di questa Kaleboyu caddesi, avevo chiesto direttamente dove si trovasse l'associazione. Allora tutti mi mandavano “dove ci sono i Rom”. Arrivata alla Sulukule infranta e ricostruita, sono “dove ci sono i Rom”. Chiedo di nuovo a una donna, che chiama la vicina e insieme collaborano per indicarmi la strada giusta. Ma loro non sono Rom e non ne sanno granché. Scendo per la strada, trovo un angolo vivace con una piccola moschea e due kahvehane, e la gente tutta riversata di fuori. Un simpatico vecchietto mi urla mentre parla perché sono straniera, e crede che stia cercando i Rom perché fanno la musica. Allora mi indica una casa dove ci sono dei ragazzini che suonano. Ma pare che io adesso mi metta a suonare alle case della gente? Fingo di andare un po' su, riparlo con le due donne di prima, ritorno giù. Il signore è lì che mi aspetta e urla “Trovato?”. Io replico che non è quello che sto cercando, lo ringrazio e vado oltre. Si forma come una catena di persone che mi indicano la strada, attraverso le quali passo e arrivo ad un negozietto, il cui proprietario telefona a Şükrü Pündük, me lo passa e mi dice che posso andare a trovarlo nel caffé tal dei tali, che si trova proprio in quell'angolo, era una delle due kahvehane, davanti a cui il signore di prima mi urlava, signore che ritrovo, mi lascia vagare ancora un po', poi dice “Lo chiamo, Şükrü?”. Mi stupisco che tutti abbiano il suo numero di telefono. Ho trovato Şükrü. Mi aspetto quasi che tutto il vicinato esulti insieme a me in un applauso, e io ringrazi tutti per la collaborazione. Şükrü e Özkan sono immediatamente accoglienti. Mi fanno sedere, mi ordinano un té. Sono ancora nello spazio maschile, in una kahvehane. Lo so che non è normale, che sono fuori dal tessuto sociale, dalla logica degli abitanti. Ci sediamo sul retro, dove il mio registratore può agire senza troppi disturbi e parliamo per un'ora e mezza. Quando esco mi viene in mente che forse l'indirizzo “viale Lungo le Mura” non è un toponimo ufficiale, che risulta dalla cartografia della città, ma un modo semplice, logico per chiamare una strada che corre effettivamente lungo le mura. Mi delizia il pensiero che quel toponimo sia stato fornito in un contesto più o meno ufficiale (sito internet della rete di associazioni Rom europee), ma che in realtà presuppone un'interazione con chi abita il luogo o forse solo un po' più intuito di me.