Ho parlato con una pianificatrice
urbana coinvolta nella trasformazione di Fikirtepe. La sua agenzia si
occupa della mediazione fra gli abitanti e i developers.
Mi ha raccontato le fasi di evoluzione del progetto di trasformazione
urbana del quartiere e i soggetti coinvolti. Al principio c'era la
municipalità (belediye),
poi il tutto è passato al governo metropolitano e infine al
ministero dell'ambiente. Poi tutto ad un tratto i soggetti
istituzionali sono scomparsi e i residenti si sono ritrovati a dover
contrattare con le sole compagnie costruttrici.
Con il solito
piglio patriarcale il governo aveva deciso che il quartiere doveva
cambiare, senza rispondere ad un bisogno rilevato o almeno
immaginato. Che poi sulla capacità di rilevazione dei “bisogni
della popolazione” ci sarebbe un bel po' da dire (l'ha già detto
Olivier de Sardan, o forse qualche amico suo).
Poi ha
passato il testimone alle compagnie edilizie che a loro volta hanno
deciso che aspetto avrebbe dovuto prendere il quartiere, e chi ci
avrebbe abitato. Il ministero è poi tornato un po' sui suoi passi,
ha stabilito una serie di regole e limiti, e ha chiesto l'intervento
di questa agenzia di pianificatori urbani affinché elaborassero una
serie di modifiche ai progetti esistenti per ridurne la megalomania e
far sì che mantenessero per Fikirtepe la misura di uno spazio
abitato. Questo è chiamato dall'agenzia in questione “mediazione”.
Le modifiche riguardano la salvaguardia dello spazio pubblico e si
attuano in misure come attraversamenti dei diversi blocchi (ada,
letteralmente: “isola”) accessibili a tutti, allargamento delle
strade per renderle frequentabili e socializzabili (mi ha citato la
Rambla) e vie di accesso, sbocchi, verso le due fermate della
metropolitana che si trovano ai piedi della collina (mi ha mostrato
una foto della scalinata di piazza di Spagna).
I limiti imposti
dal ministero riguardano l'altezza degli edifici, che non devono
superare gli ottanta metri (e lo chiamano limite) e i ventiquattro
piani. La proposta dell'agenzia è di rallentare questa corsa
all'altitudine e ammorbidire lo skyline alternando edifici più
bassi, in un modulo di tre tipologie per blocco. L'arredo del verde
deve essere tenuto presente. La comunicabilità tra spazi è
importante per creare vicinato. Ad esempio una scuola (nel piano che
mi ha mostrato, un rettangolo azzurro con sopra scritto “educazione”)
non può non avere un parco giochi davanti. Le chiedo che senso ha
tutto questo per i vecchi abitanti, che tanto non potranno
permettersi di vivere in queste case lussuosissime.
Nuhoğlu İnşaat- Yenitepe: Living Room |
Lei mi fa notare che forse non ho capito bene, che qua i
vecchi abitanti non entrano più di tanto nella “mediazione”, che
ormai loro sono insoddisfatti e arrabbiati per i compensi inadeguati
ricevuti alla vendita dei loro terreni, frustrati per non aver
trattato direttamente con il governo, ma che non è compito
dell'agenzia di trovare una soluzione a queste richieste.
In
sintesi, ci sono diverse idee di “buon luogo”: quella dei
residenti, che andrò ad ascoltare domani; quella del governo, che
nemmeno conosco, ma dubito che sia qualcosa di distinto da quella
delle compagnie; quella appunto delle compagnie, che consiste nello
spazzare via gli inutili residenti morti di fame che vendono tutto
quello che hanno per poche lire e rimpiazzarli con persone in grado
di comprare un'abitazione in edifici che 1) non danno mai le spalle
alla città, grazie alla loro forma triangolare 2) sono visibili da
tutta la città e in ogni punto puoi indicare dove abiti 3) ti puoi
rilassare dallo stress del giorno approfittando delle diverse
facilities come
massaggi e piscine 4) non importa quanto è grande il tuo
appartamento, tutto è disegnato per il tuo lusso/lussuria 5) ti
senti privilegiato ancora prima di entrare nel tuo quartiere (tratto
dalla presentazione del progetto della compagnia Nuhoğlu, vedi link). Infine l'idea dei
mediatori, che si propongono e si rappresentano come correttori della
spavalda proposta dei costruttori, come elemento di ritorno alla
normalità.
Sono idee di
bellezza, di bontà di uno spazio che convergono, si scontrano, si
concretizzano.
Una
catastrofe, dal mio punto di vista. Come non se ne siano resi conto
quelli di Gezi Parkı, per me ha ancora dell'incredibile. Parlando
dei “fatti di Gezi” con due amici che abitano nell'ipercentro
della città, in una via che praticamente sbocca su piazza Taksim, me
ne faccio un'idea. Accanto a Taksim, alla scintillante Beyoğlu, c'è
la distesa disordinata e storta di Tarlabaşı, abitata da Rom,
interessata anch'essa da un progetto di trasformazione. Loro mi
dicono che sarebbe meglio se la ricerca la facessi lì. Perché,
dicono, è più centrale, più visibile,
più accessibile. A parte che tutto ciò tradisce la relatività del
loro punto di vista. Perché non c'è niente di così visibile come
Fikirtepe, che pare offerta alla vista dei passanti. E poi tutta la
vita di Istanbul non si consuma a Taksim, benché chi vi abita sia
indotto a pensarlo. Il mio amico dice: “Io per esempio a Fikirtepe
non ci vado. E neanche a Sulukule. Ma nemmeno a Tarlabaşı. E che ci andrei a fare?”
L'arroganza, se così si può chiamare, in attesa di un termine
migliore, di chi abita in centro, che stabilisce quale luogo vale la
pena e quale no. Gezi Parkı è in centrissimo, e ha attirato e
attivato la gente del centro. Poi naturalmente il movimento è
cresciuto. Ma Gezi Parkı era un parco bruttissimo, fatto per la
gente che sta per partire, una sosta. Eppure è stato capace di
muovere i cuori e le coscienze. Che dire, la potenza del centro. O la
sua pigrizia. Ma riprenderò questo discorso abbozzato male.
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