Oggi sveglia alle cinque, per essere
alle sette alla fermata dei taxi di Fetih Mahallesi, dove mi
aspettava S. per prendere insieme il taxi che lo avrebbe portato al
lavoro. Avevo pensato che fare un'intervista in taxi avrebbe reso
l'idea della distanza, del cambiamento delle abitudini di una persona
dopo la demolizione della sua casa e del suo posto di lavoro. Per
paura di non riuscire ad arrivare in tempo parto con troppo anticipo
e arrivo mezz'ora prima dell'appuntamento. È completamente buio.
Faccio qualche ripresa della stazione dei taxi. Mi avvicino. Dico che
aspetto un amico e mi siedo su una panchina all'aperto. Parlo con i
tassisti, che mi invitano ad entrare nella stanzetta in cui si danno
il cambio e bevono tè. Insistono perché non vogliono che prenda
freddo. Mi dicono: –Guarda che da noi è buono il tè!–
Sono curiosi di sapere che cosa ci
faccio lì con una macchina fotografica alle 6:30 del mattino. Uno di
loro mi chiede se sono giornalista o simili –“gatezeci,
mazeteci”– io mi limito a
dire che faccio una ricerca all'università sul kentsel
dönüşüm. Lui
fa: – Ooo! –
Poi quando arriva S. mi dicono: –Ah, a lui dovevi fare
l'intervista!!– lo conoscono bene, dato che sono nove mesi che fa
avanti e indietro tutti i giorni in taxi, domenica compresa.
S. è molto fiducioso, soddisfatto e grato. Certo c'è l'ombra del
dispiacere per la distruzione di una comunità di vicinato, della
libertà di chi possiede la casa in cui abita. Ma veramente non
sembra sconvolto dalla trasfigurazione del suo paesaggio personale.
Che
faccio? La mia tesi non viene confermata, perlomeno nel semplice
incontro verbale. Se faccio un filmato di S. che va in taxi al
lavoro, è chiaro che voglio mostrare quanto si è fatta difficile
per lui la vita. Ma se lui sembra contento? Ok, faccio vedere che è
contento, che dice bene del progetto di sviluppo del suo quartiere.
Ma lo stravolgimento del suo paesaggio personale, che gli consentiva
di abitare il mondo e non perdersi, non viene rilevato, non l'ho
rilevato, non esiste. O forse esiste ma non è così che viene fuori.
Franco La Cecla, nel suo libro “Perdersi” arguisce che
l'attitudine dell'abitare un luogo, e quindi anche il suo opposto, il
perdersi, appunto, appartenga alla sfera dell'inconscio (non posso
riprendere esattamente il testo perché l'ho dimenticato sull'autobus
– ho perso “Perdersi”) e che di conseguenza non può essere
spiegata,
quindi indagata con i normali strumenti di ricerca. Per questo avevo
pensato che il filmico avrebbe potuto rivelare qualcosa che sfuggiva.
Ma come?
La mia preoccupazione non è solo di tipo “detectiva”, ma anche
militante: il mio scopo è fare rendere conto dei pericoli, per la
qualità della vita degli esseri umani, legati a questo processo di
normalizzazione delle forme dell'abitare. Lo voglio fare osservando
da vicino cosa una comunità si trova a vivere quando viene
interessata da un progetto di sviluppo di tali dimensioni.
Allora
le ragioni della mera ricerca etnografica e quelle politiche si
sovrappongono. Ma sono davvero distinte? Cos'è un'etnografia? È la
storia del mio rapporto con un luogo, per il tempo che mi prefiggo di
studiarlo. É la storia della mia visione del mondo applicata ad un
luogo. È la storia del mio abituarmi a quel luogo, del mio fare
habit,
del mio iniziare ad abitarlo. Non sono sicura che esista, nella
ricerca, qualcosa di diverso. La realtà etnografica è questo. Se
voglio qualcosa di diverso devo smettere di fare l'etnografa e
cercarmi un lavoro a Fikirtepe, cercare di farmi degli amici, etc.
Allora la mia preoccupazione circa il riuscire o meno a mostrare la
realtà etnografica con questo viaggio in taxi viene meno, ed è
tutta una questione di onestà intellettuale non dare a pensare,
magari con il montaggio, che le cose stiano diversamente.
La sera ho incontrato gli attivisti di Pangea Ekoloji, in particolare
una ragazza, Eda (nome fittizio), che si è dimostrata molto
disponibile e interessata al mio argomento di ricerca.
Le ho detto che mi stupisco continuamente del fatto che le persone
con cui parlo siano mediamente contente delle conseguenze del
progetto di sviluppo, perché anche se un po' sballottate, alla fine
ricevono uno o più appartamenti di lusso. Lei mi guarda con
espressione di sfiducia e dice: – Sì, ma non lo sai che non è
proprio così, che col piffero ricevono la casa.–
Io
rispondo che anche a me sembra fin troppo bello per essere vero, però
dalle testimonianze raccolte finora sembra proprio così. Ho parlato
con abitanti, con le compagnie edilizie e con un'associazione di
cittadini, benché appaia un po' di parte, un soggetto ambiguo che
forse riceve dei benefici dal suo assumere il ruolo di
“rappresentante dei cittadini”, facendo gli occhi dolci alle
compagnie di costruzione, assicurando che non ci sono problemi e sono
tutti felici.
Eda mi parla come se io poverina fossi persa senza contatti. In
realtà i contatti che mi mancano sono quelli “contro”, i
detrattori del progetto di sviluppo del quartiere e le loro
motivazioni. Uno dei motivi per cui avevo deciso di interessarmi a
Fikirtepe è che sapevo dell'entusiasmo dei suoi abitanti, quindi
questa mancanza di contestazione è stata un po' una conferma. Eda
era lì a garanzia del fatto che un fronte “contro” esiste, e
siamo d'accordo che presto ne sarò anch'io a conoscenza. Quella è
la sua visione di Fikirtepe, che esclude i consenzienti, le compagnie
edilizie, gli operai dei cantieri e i sogni degli abitanti di una
casa più moderna. La vera Fikirtepe per lei è quella che lotta, e
io, che di questa sua Fikirtepe non so niente, sono “persa senza
contatti” e non so ancora nulla su Fikirtepe.
Inizialmente avevo contattato Eda per effettivamente allargare i miei
contatti. Vale a dire Eda sarebbe stata fuori dalla mia ricerca o
avrebbe occupato la posizione che occupo io, quella di chi osserva.
Invece questo suo atteggiamento la rende immediatamente interessante
anche in un altro modo, perché essa stessa è promotrice di una
pratica sul luogo, quella di investire il luogo della propria
ideologia (comunismo militante, Gezi Parkı). Tra parentesi anche se
tra parentesi non è, questo contraddice la mia impressione iniziale
circa il disinteresse degli abitanti del centro che hanno partecipato
alle rivolte di maggio per quello che succede nella periferia. Eda
dice: –A Tarlabaşı non abbiamo potuto organizzare granché perché
quelli sono tutti nomadi, non sono attaccati al luogo, per loro non
fa differenza abitare qui o là.–
Nomino Sulukule, ma non si sofferma molto. Ma c'è anche la fretta
che sta per cominciare la riunione degli attivisti. Ne riparleremo
presto.
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