martedì 26 novembre 2013

Il posto dove nessuno si sposa


L'incontro con il signor Ercument dell'associazione Fidem, che unisce gli abitanti di quattro quartieri confinanti: Fikirtepe, Dumlupınar, Eğitim, Merdivenköy, è stata un'esperienza molto particolare. Finisce che pare che finisco sulla Gazzetta di Kadıköy come ragazza italiana che fa la tesi su Fikirtepe. E tutto contro la mia volontà.
Il signor Ercument appare piuttosto occupato. Io arrivo vergognosamente in ritardo di mezz'ora, ma lui per fortuna lo era altrettanto. L'ufficio era però aperto, con la porta spalancata sulla strada, per chiunque volesse imbucare la testa dentro. Io mi accomodo, mi asciugo il sudore della corsa trovando finalmente utili quelle salviettine appiccicosissime che ti rifilano ovunque. Quando questo bel signore brizzolato con gli occhi azzurri arriva, mi spiega che era appena stato ad un incontro con il ministro dell'ambiente. Che era venuto a Fikirtepe. Ma è una cosa abbastanza normale, che qua sono costantemente di passaggio, le autorità istituzionali. “Ah,” dico io, ripensando a quello che mi aveva detto la pianificatrice urbana proprio ieri. Alla fine della chiacchierata mi mostra sulla loro pagina Facebook lo striscione con cui il popolo di Fikirtepe ringrazia il ministro dell'ambiente Bayraktar per il suo interesse mostrato per il quartiere.


Mi racconta, come aveva già fatto la pianificatrice, che chiamerò signorina S., che per ogni ada viene scelto un rappresentante dei proprietari, che deve interfacciarsi con le compagnie edilizie. Gli chiedo come viene scelto questo signore, se per caso diviene rappresentante in virtù di una sua posizione particolare. Lui mi spiega che non c'è una ragione esplicita, ma che per esempio lui essendo in pensione e avendo tanto tempo, era naturale che venisse scelto allo scopo. Gli chiedo se questa associazione è nata proprio in occasione dello sviluppo urbano nel quartiere o se si occupa d'altro. Lui dice che è nata in occasione della trasformazione ma che per esempio la settimana scorsa hanno promosso una campagna di donazione del sangue della KızılAy (la Croce Rossa), e che comunque i residenti entrano ed escono (come potrò di lì a poco vedere) dall'ufficio con ogni tipo di richiesta.
Parlando di cose che non capisco bene che riguardano la vendita dei terreni (e che probabilmente non ho neanche salvato perché il registratore è rimasto in pausa contro la mia volontà) si finisce per chiacchierare degli abitanti, di come è successo che mai si siano sposati fra di loro, perché sono l'un l'altro come fratelli e sorelle. Poi i presenti (una decina di uomini di mezza età) cominciano uno per uno a dire la loro sull'argomento. Io non capisco nulla, ma capisco che almeno è un argomento molto sentito e su cui ci sono centinaia di aneddoti su cui ridacchiare. Allora, chiedo io, che succederà a questo bel vicinato quando ogni componente verrà spostato altrove. Non sarà una perdita grande? Io a questo punto sono molto poco imparziale, e quasi mi arrabbio, perché loro hanno venduto le case nonostante amassero così tanto il loro quartiere. Oh, certamente, dice lui. Ma è il sintomo dei tempi che cambiano. L'abitato di Fikirtepe è stato costruito dai nostri nonni circa ottant'anni fa. Erano legittimi possessori dei terreni, ma le case erano sì kaçak, abusive. I nostri padri, vedendo aumentate le esigenze della famiglia, hanno incrementato un po' il volume delle loro case, aggiungendo un tetto qui, un terrazzino là..i presenti si lanciano un sorrisino. È questo che rende queste case un po' così, çarpık, storte! Io intervengo con il cuore gonfio: ma sono belle queste case, sono fatte con le proprie mani, etc. E qui arriva, illuminante, il commento di Ercument: ma hai provato a viverci? Mi racconta un aneddoto in cui un residente vende il suo terreno e si accorda con la compagnia edilizia per tenersi il ferro rimanente dall'abbattimento. La casa viene abbattuta, ma di ferro non ne esce neanche un po'. Era tutta fatta di mattoni. E ritorna la venerazione per il dio metallo. Il fatticello rivela però lo smacco fra la generazione dei padri e quella dei figli, dei nipoti, dei presenti: loro non conoscevano neanche la fattura delle loro case, non sapevano neanche che dentro non c'era il ferro. E loro quelle case volevano darle via, hanno chiesto: –Perpiacere mi distruggi 'sta casa che non la posso più vedere?– Secondo Ercument erano arrabbiati solo un po'perché il progetto di ricostruzione stava durando un po' troppo. Mentre parliamo arriva un giovanotto con una macchina fotografica enorme, un iPad e dice di essere il giornalista della Gazzetta di Kadıköy e vuole scrivere di me nell'articolo. A parte che penso che non hanno proprio niente da scrivere se la soglia di interesse è ridotta a questo. Io mi rifiuto vivacemente, nessuno capisce perché. Il damerino tecnologico finisce con il promettermi che non scriverà nulla di me, ma io non gli credo. Lui dice: –Ma certo, se ti ho dato la parola. Siamo a Fikirtepe, dopotutto!– quindi sarò sulla prossima uscita, se questo è il luogo delle promesse non mantenute. Oppure no, se questo è ancora il luogo in cui tutti sono fratelli e si fidano ciecamente l'uno dell'altro.

Cosa c'entra Fikirtepe


Ho parlato con una pianificatrice urbana coinvolta nella trasformazione di Fikirtepe. La sua agenzia si occupa della mediazione fra gli abitanti e i developers. Mi ha raccontato le fasi di evoluzione del progetto di trasformazione urbana del quartiere e i soggetti coinvolti. Al principio c'era la municipalità (belediye), poi il tutto è passato al governo metropolitano e infine al ministero dell'ambiente. Poi tutto ad un tratto i soggetti istituzionali sono scomparsi e i residenti si sono ritrovati a dover contrattare con le sole compagnie costruttrici.
Con il solito piglio patriarcale il governo aveva deciso che il quartiere doveva cambiare, senza rispondere ad un bisogno rilevato o almeno immaginato. Che poi sulla capacità di rilevazione dei “bisogni della popolazione” ci sarebbe un bel po' da dire (l'ha già detto Olivier de Sardan, o forse qualche amico suo).
Poi ha passato il testimone alle compagnie edilizie che a loro volta hanno deciso che aspetto avrebbe dovuto prendere il quartiere, e chi ci avrebbe abitato. Il ministero è poi tornato un po' sui suoi passi, ha stabilito una serie di regole e limiti, e ha chiesto l'intervento di questa agenzia di pianificatori urbani affinché elaborassero una serie di modifiche ai progetti esistenti per ridurne la megalomania e far sì che mantenessero per Fikirtepe la misura di uno spazio abitato. Questo è chiamato dall'agenzia in questione “mediazione”. Le modifiche riguardano la salvaguardia dello spazio pubblico e si attuano in misure come attraversamenti dei diversi blocchi (ada, letteralmente: “isola”) accessibili a tutti, allargamento delle strade per renderle frequentabili e socializzabili (mi ha citato la Rambla) e vie di accesso, sbocchi, verso le due fermate della metropolitana che si trovano ai piedi della collina (mi ha mostrato una foto della scalinata di piazza di Spagna).
I limiti imposti dal ministero riguardano l'altezza degli edifici, che non devono superare gli ottanta metri (e lo chiamano limite) e i ventiquattro piani. La proposta dell'agenzia è di rallentare questa corsa all'altitudine e ammorbidire lo skyline alternando edifici più bassi, in un modulo di tre tipologie per blocco. L'arredo del verde deve essere tenuto presente. La comunicabilità tra spazi è importante per creare vicinato. Ad esempio una scuola (nel piano che mi ha mostrato, un rettangolo azzurro con sopra scritto “educazione”) non può non avere un parco giochi davanti. Le chiedo che senso ha tutto questo per i vecchi abitanti, che tanto non potranno permettersi di vivere in queste case lussuosissime. 

Nuhoğlu İnşaat- Yenitepe: Living Room
Lei mi fa notare che forse non ho capito bene, che qua i vecchi abitanti non entrano più di tanto nella “mediazione”, che ormai loro sono insoddisfatti e arrabbiati per i compensi inadeguati ricevuti alla vendita dei loro terreni, frustrati per non aver trattato direttamente con il governo, ma che non è compito dell'agenzia di trovare una soluzione a queste richieste.
In sintesi, ci sono diverse idee di “buon luogo”: quella dei residenti, che andrò ad ascoltare domani; quella del governo, che nemmeno conosco, ma dubito che sia qualcosa di distinto da quella delle compagnie; quella appunto delle compagnie, che consiste nello spazzare via gli inutili residenti morti di fame che vendono tutto quello che hanno per poche lire e rimpiazzarli con persone in grado di comprare un'abitazione in edifici che 1) non danno mai le spalle alla città, grazie alla loro forma triangolare 2) sono visibili da tutta la città e in ogni punto puoi indicare dove abiti 3) ti puoi rilassare dallo stress del giorno approfittando delle diverse facilities come massaggi e piscine 4) non importa quanto è grande il tuo appartamento, tutto è disegnato per il tuo lusso/lussuria 5) ti senti privilegiato ancora prima di entrare nel tuo quartiere (tratto dalla presentazione del progetto della compagnia Nuhoğlu, vedi link). Infine l'idea dei mediatori, che si propongono e si rappresentano come correttori della spavalda proposta dei costruttori, come elemento di ritorno alla normalità.
Sono idee di bellezza, di bontà di uno spazio che convergono, si scontrano, si concretizzano.
Una catastrofe, dal mio punto di vista. Come non se ne siano resi conto quelli di Gezi Parkı, per me ha ancora dell'incredibile. Parlando dei “fatti di Gezi” con due amici che abitano nell'ipercentro della città, in una via che praticamente sbocca su piazza Taksim, me ne faccio un'idea. Accanto a Taksim, alla scintillante Beyoğlu, c'è la distesa disordinata e storta di Tarlabaşı, abitata da Rom, interessata anch'essa da un progetto di trasformazione. Loro mi dicono che sarebbe meglio se la ricerca la facessi lì. Perché, dicono, è più centrale, più visibile, più accessibile. A parte che tutto ciò tradisce la relatività del loro punto di vista. Perché non c'è niente di così visibile come Fikirtepe, che pare offerta alla vista dei passanti. E poi tutta la vita di Istanbul non si consuma a Taksim, benché chi vi abita sia indotto a pensarlo. Il mio amico dice: “Io per esempio a Fikirtepe non ci vado. E neanche a Sulukule. Ma nemmeno a Tarlabaşı. E che ci andrei a fare?” L'arroganza, se così si può chiamare, in attesa di un termine migliore, di chi abita in centro, che stabilisce quale luogo vale la pena e quale no. Gezi Parkı è in centrissimo, e ha attirato e attivato la gente del centro. Poi naturalmente il movimento è cresciuto. Ma Gezi Parkı era un parco bruttissimo, fatto per la gente che sta per partire, una sosta. Eppure è stato capace di muovere i cuori e le coscienze. Che dire, la potenza del centro. O la sua pigrizia. Ma riprenderò questo discorso abbozzato male.

mercoledì 20 novembre 2013

A Sulukule erano distratti - Sulukule'de dalıp olmuşlar

Dal magazine del Toki. "Per i suoi sogni promuoviamo lo Sviluppo Urbano. Emlak Konut, in un approccio di responsabile coscienziosità, sostiene lo Sviluppo Urbano con i suoi progetti. Che i bambini del nostro futuro raggiungano condizioni migliori, e che i domani saranno migliori dell'oggi".
Più o meno dice così.
A Sulukule la bambina dai capelli sporchi non li ha inteneriti abbastanza.

venerdì 15 novembre 2013

Ritorno a Sulukule


Oggi ho scoperto le mille risorse della mia giovanissima coinquilina Zeynep. Mi ha accompagnato nel mio ritorno a Sulukule (quartiere a ridosso – esternamente – delle mura di Teodosio, che delimitano la città ottomana a sud del Corno d'Oro, sulla costa Europea) tre anni dopo che è stata completamente rasa al suolo, e cancellata. Dato che non esiste nemmeno più come toponimo ufficiale. Esistono però gli ex-abitanti. Zeynep si fermava ad ogni crocicchio, ad ogni büfe, per chiedere appunto che cosa ne fosse di loro, gli eski Sulukuleliler. Dove erano andati a vivere? Si erano trasferiti tutti in un posto? Erano andati ad abitare nelle nuove abitazioni, sorte al posto delle case di legno e dei gecekondu? Zeynep scatta veloce sulle strade in salita, e io, con il peso della mia trentina e la fotocamera e l'esigenza di guardarmi attorno, sono un po' ansimante. Sulla via vediamo parcheggiato un furgone della İnsani Yardım Vakfı, l'associazione che ha promosso il viaggio della Mavi Marmara nel 2010 per portare sollievo alle popolazioni della Striscia di Gaza, faccenda che è finita con l'uccisione di sette persone dell'equipaggio. Non è la prima volta che compaiono su questo blog, cliccando qui li si può apprezzare in una delle loro manifestazioni pacifiche, in questo strano connubio di gente di sinistra anticlericale e islamici fondamentalisti. Zeynep dice che in questi quartieri (Balat, Fener, Karagümrük, Fatih in generale) la presenza della tariqat è molto marcata. Certo, sono notoriamente fra i quartieri più poveri della città, e i poveri sono potenziali bravi miliziani. Prima di attraversare viale Fevzipaşa entriamo in un büfe in cui un uomo sulla quarantina sbuca da dietro una porticina, si avvolge una sciarpetta con fare modaiolo, io compro dell'acqua e Zeynep chiede. Quasi sempre io rimanevo in ascolto capendo più o meno i tre quinti e aggiungendo semmai piccole precisazioni alle domande della mia compagna; ci presentavamo come due studentesse che fanno una ricerca su come vivono i vecchi abitanti sgombrati, assicurando che non si trattava di televisione, che in questo quartiere non è ben accetta. Forse perché i reportages su Sulukule sono stati tanti, ma Sulukule non c'è più.
I vecchi abitanti si riconoscono per il colore della pelle e per alcuni tratti somatici. Sono Rom: sono scuri, hanno occhi grandi e profondi e hanno un accento delizioso. Anche il signore del büfe aveva la pelle scura e gli occhi come il mare, ma aveva questo sciarpettino annodato un po' così che aveva quel non so che di modaiolo e intellettuale. Ci indicava questa associazione, quel signore, questo caffé. Secondo me era lui stesso un attivista. Seguendo le sue indicazioni abbiamo trovato nell' O. Café M. Bey, che vuole restare anonimo, e, benché io non creda nella viralità di questo post, rispetto il suo volere. M. Bey accetta di farsi registrare la voce. Punto la fotocamera su un pacchetto di tovaglioli e registro. Gli eski Sulukuleliler non abitano certo in quelle case da un miliardo e mezzo di lire turche. A loro la municipalità, lo stato, aveva offerto, in cambio della distruzione della loro casa, un abitazione di pari valore, che certamente non poteva più essere lì. Alcuni hanno trovato casa nei distretti confinanti (Karagümrük, Ayvansaray), ma i meno fortunati sono finiti a Sultançiftliği, Taşoluk. Ad una trentina di chilometri verso l'entroterra. Come hanno ricostruito il loro quartiere, le loro abitudini, il loro paesaggio? Questo vorrebbe essere la mia ricerca. Inizio a chiederlo al guardiano della nuova Sulukule, dove stanno ancora costruendo queste belle casine di legno moderne (e acciaio) a due-tre piani, da cui escono sciabattando alcuni tipi che non sembrano proprio ricchi.




Il guardiano è subito molto scontroso, ma intanto parla, e Zeynep lo ammansisce, mentre io stavo già per voltargli le spalle e andarmene. Alla fine ci mostra le ultime case della vecchia Sulukule che verranno abbattute prossimamente.
Anche lui abita non lontano da lì. Prima lavorava come mercante al Gran Bazar, adesso fa il guardiano per il governo. Il governo, nella figura dell'istituto Toki, ha costretto queste persone a lasciare le loro case per fare posto a questo gioiellino elegante, che si vende a persone che se lo possono permettere. Ma siccome il Toki è dopotutto un organismo statale, che dovrebbe produrre edilizia sociale, allora cosa fa? Ci fa andare i rifugiati siriani, in queste case di lusso. Così salva la propria immagine e sostituisce i poveri con i poveri. E intanto fa un sacco di soldi. Il Toki, ribadisco, è un organo dello Stato, e dipende direttamente dal primo ministro, ovvero Recep Tayyip Erdogan, dell'Akp, partito islamico progressista, i “progressive conservatives”(cfr. Demir, Açar, Toprak: Anatolian Tigers or Islamic Capital). Il guardiano ci dice che tutto è finito, non ci sono nemmeno più le associazioni, i sindacati dei residenti (io non gli credo). Ci accompagna in giro per la nuova Sulukule, che ci dice verrà completamente recintata (gated community), ci fa scattare le foto che all'inizio ci aveva proibito, ci chiede dei soldini (sigara parasi) come ricompensa, ci saluta e torna al suo posto. Ottimo per un servizio per il tg della sera, ma devo ritornarci con tutta la calma della mia trentina e del mio turco stentato. Ma adesso so da dove partire.

mercoledì 13 novembre 2013

Un mezzo di trasporto lentissimo


Oggi sono andata a fare un giro di ricognizione (l'espressione non mi piace, ma si addice) in uno dei tre luoghi in cui si svolgerà la mia ricerca: il quartiere di Fıkırtepe. È un mahalle che fa parte della municipalità di Kadıköy, si dispiega su un'altura dalla moderata pendenza che si affaccia sulla tangenziale di Istanbul (çevreyolu). Tutto ciò lo rende ben visibile, è in mostra. É un'ottima vetrina, oserei. Il quartiere è interessato da un progetto di rinnovamento che prevede l'acquisizione dei terreni dai più o meno legittimi proprietari da parte di alcune imprese di costruzione (sto studiando i dettagli del chi e del come) per la costruzione di abitazioni moderne, antisismiche e alte, che andranno a sostituire le case abusive (kaçak), i cosiddetti gecekondu. Il modo in cui viene gestita, vissuta, subita questa privazione di abitazione sarà oggetto della mia ricerca.
Ho deciso di andarci a piedi. Da casa mia (Ümraniye) Googlemaps indicava un percorso di circa sette chilometri, che prevedeva l'attraversamento di due autostrade e due volte la tangenziale (ci sono i ponti pedonali). Ho deciso di usare i piedi perché 1) volevo sperimentare questo mezzo di trasporto a Istanbul, dove l'ho usato più che altro in modalità passeggiata 2) volevo ripetere il percorso dell'autobus dandomi l'opportunità di adeguare l'andatura all'interesse suscitato dai luoghi 3) volevo entrare in unione mistica con la strada, soffrendo sopra i miei calcagni della distanza che mi iniettava (questa davvero non è da prendere sul serio) 4) volevo arrivare lentamente a Fikirtepe perché mi sembrava poco opportuno piombare lì scendendo da un autobus e iniziare a camminare, come si fa oggi con gli aerei, e volevo che arrivando lì avrei assorbito bene lo status della camminatrice (ma la prossima volta prendo l'autobus e scendo un po' prima).
Abituata alla logica dell'autobus, la prima parte della passeggiata è stata principalmente uno strisciare lungo le muraglie dei nodi stradali principali, con la fastidiosa sensazione di rischiare di morire. Poi per fortuna mi sono persa (mi ero scritta delle indicazioni, non avevo una mappa) e ho cominciato a chiedere la direzione (chiedevo sempre tappe intermedie, per non destare sconcerto). “Trovare un indirizzo in una città significava trovare la contrada, il cortile, il campo, e poi domandare ancora. Domandare faceva parte dell'ingresso, dei riti d'ingresso di un estraneo in una contrada non sua” (La Cecla, Perdersi, pag 32). Ho così dato accesso allo stupore. Fino a ritrovare la strada che mi ero prefissata. Sono salita fino a Küçük Çamlıca, dove ho scattato queste foto. 




Poi sono ridiscesa al di là della collina passando per Acıbadem, quartiere borghese e benestante (ci sono perfino disegnate le strisce che delimitano la carreggiata). Sono scesa giù per la strada del Ceceno 

e mi sono trovata in questo posto qua.
La qualità della foto rivela la mia inquietudine
Ciò che mi ha colpito immediatamente era il silenzio. Poi la mancanza di segni per gli umani, come strisce pedonali, fermate dell'autobus, ponti pedonali. Il luogo era immenso e vuoto, e non sapevo davvero come potermici muovere. Ho domandato all'addetto alla sicurezza di questo grande complesso come fare per arrivare a Fıkırtepe, che ormai vedevo dispiegato sulla sua bella collina. Anche lui ha dovuto chiedere al suo collega. Ho dovuto tornare indietro di un bel pezzo e ridiscendere per un sottopassaggio davanti ad un centro commerciale in costruzione.

Tutto era mastodontico, muto e mi ammutoliva. Mi ha fatto venire in mente la parola che ha usato il mio professore turco per descrivere questa architettura, azman, enorme, e che mi ha spiegato in inglese prendendo come esempio le proporzioni di un bebè fra il corpo e la sua testa. Mi ha detto: “Immagina che quel bambino diventi adulto mantenendo queste proporzioni. Sarebbe mostruoso.” Io stessa mi ero riferita a questa architettura parlando di proporzioni: essa non è proporzionata alla misura dell'uomo e dello spazio che può avere a sua disposizione. Questi spazi sono troppo grossi, sono sovradimensionati. Almeno per l'uomo che va a piedi. Forse va bene chi va con il suv (esso stesso sovradimensionato). Sbucata fuori dal tunnel ho visto un minareto. Il muezzin stava chiamando. Questo è stato di sollievo dalla mia inquietudine. Ero tornata nel mondo degli uomini. Tra l'altro ho riconosciuto un luogo, quello dove il martedì si svolge lo storico mercato del martedì, appunto (Sali Pazar), che quando è vuoto come lo era oggi viene usato e attraversato in modo molto attivo: bambini che giocano, motociclisti che provano uno slalom. Ho circumcamminato l'area, ho svoltato a sinistra, ed eccomi a Fıkırtepe. Erano ormai le 18 circa. Contando una mezz'ora di pausa, ci ho messo circa tre ore. Era buio. Ho deciso di rimanere sulla strada principale. Ho apprezzato i microspazi, le locande ricavate in un angolo fra una scala e un garage, i balconi, le salite, i muretti, i giardini. Dei bambini giocavano a calcio in uno spiazzo davanti ad un negozio chiuso, con le vetrine ricoperte dalla pubblicità dei nuovi grattacieli, dove probabilmente ci saranno campi da gioco dietro a cancelli e non saranno più visibili. La vita della strada verrà risucchiata all'interno, nei cortili funzionali, nei salotti moderni, nei garage sotterranei. I büfe saranno al piano terra di questi grandi palazzi, fatti di cemento e acciaio. Non ci saranno più queste case che oggi in un articolo ho trovato definite çarpık, storte. Chissà poi perché a me piacciono tanto, che cos'è questo scarto estetico, cosa mi sfugge. Cerco di capire l'estetica promossa. Il mantra è quello della prevenzione anti-sismica. I terremoti qui hanno lasciato ferite indelebili e sono materiale emotivo facile da manovrare.
I negozi espongono le mercanzie sul marciapiede. Vedo una sedia stile anni '50 riparata con due tubi d'acciaio, d'accurata fattura. Ma il legno sostenuto dall'acciaio sembra un vecchietto con due stampelle nuove di zecca. L'acciaio dovrebbe impreziosire il legno, invece lo immiserisce. Cemento e acciaio. Legno e acciaio. L'acciaio è la chiave della modernità.
Svolto per una via laterale che mi conduce verso Göztepe, da cui prendo un autobus che mi riporta a casa.

domenica 10 novembre 2013

La riscossa dei laici


Sono a Istanbul per la mia ricerca di tesi che ha come tema l'Islam e l'edilizia, il capitalismo islamico e la produzione di nuove forme di abitare, di nuovi stili di fare città. L'abitare è uno snodo che chiama in causa molti aspetti della vita degli esseri umani, fra i quali non credo – e non pretendo – di poter stabilire un ordine; ciò che mi interessa è piuttosto la possibilità stessa di indagare questi aspetti della vita urbana. Quanto sono visibili? Quanto possono essere indagati attraverso gli strumenti video-fotografici? Nella mia ricerca ha infatti molta importanza l'ambiente, il paesaggio, inteso come riferimento per l'orientamento, per l'abitare (cfr. La Cecla).
Prenderò in considerazione tre interventi edilizi: il terzo ponte sul Bosforo, il quartiere tradizionalmente Rom di Sulukule, ormai raso al suolo, e il progetto di rinnovamento di Fikirtepe, ora in atto.

E allora perché ho ritenuto importante andare alla commemorazione della morte di Mustafa Kemal Atatürk, il padre della patria turca laica e progressista, repubblicana e intellettuale, avvenuta 75 anni fa? Per verificare 1) chi ci sarebbe andato 2) per mostrare che cosa, con che intenzione 3) con quale atteggiamento e infine 4) quante persone ci sarebbero andate. Avevo ritenuto che in un momento della politica turca in cui il laicismo così come è inteso tradizionalmente qui sembra divenire sempre più obsoleto, questa fosse un'occasione per riaffermare un'ideologia che sfuma, mortificata dal crescente progressismo islamico, moderno e produttivo. Uno scontro che appare subito esplicito prendendo un qualunque autobus, facendo una qualunque passeggiata: la città, i ponti, le autostrade, gli edifici sono tappezzati di immagini del premier Recep Tayiip Erdogan, la sua faccia sollevata a mezz'aria che realizza i sogni e le favole degli abitanti della città: la metropolitana, il tunnel sotto il Bosforo..Fa il verso all'egualmente onnipresente (prima l'unica) immagine di Atatürk, che adesso appare un po' invecchiata. E allora mi aspettavo del vigore per riaffermarne la vitalità, oggi, nel giorno della sua morte. Infatti è stato così, benché tra la folla qualcuno immagino sia venuto solo per entrare gratis nel palazzo di Dolmabahce. Bandiere, bandane, coccarde, canti. Una fiumana di gente che tornava dalla visita al sancta sanctorum del palazzo: la stanza dove il Padre dei Turchi è spirato. Un'altra fiumana entrava, e io con loro. Sarebbe bello dilungarsi sull'aspetto sacrale e – oserei – religioso delle cerimonie (alle 9:05 suonano le sirene e la città si blocca, i passanti con il passo sospeso, o un automobilista che ferma la macchina e si mette in piedi accanto alla portiera; mentre una ragazza velata cammina con forse ostentata indifferenza). È magico, fa correre un brivido. Un'unione mistica della nazione a cui mi è concesso partecipare. Ma non è più nell'argomento della mia tesi. Invece trovandomi lì, e dovendo decidere cosa riprendere ho deciso che valeva la pena riprendere cosa facevano le persone, come vivevano questa sacralità, quanto spazio le davano, come si rapportassero con la specialità del luogo. E ho visto (e ripreso): che, una volta dentro le sale del palazzo, parlavano e bisticciavano (per esempio si lamentavano del fatto che si facessero le pulizie proprio in quel momento), facevano le foto prima di guardare, non guardavano (mentre lo studiolo di Mustafa Kemal è stato preso d'assalto dai telefonini, il suo bagno è passato completamente inosservato); ho visto che rifacevano volentieri una coda, dopo tutta quell'estenuante precedente, per lasciare una firma; che facevano fotografie con i reduci di guerra; che cantavano e applaudivano. Erano presenti, per dire qualcosa sulla politica attuale. Ma questa è solo una mia interpretazione.


Tezim için İstanbul'a geldim. Tez konusu kentsel dönüşme ve İslam-İnşaat kombinasyonudur, ayrıca ne türlü bir şehir yapıldı, hangi yaşam tarzi seçildi ve sonunda kim tarafından? Tahliye edilen insanların nasıl yeni evlerini yapacaklarını ile ilgileniyorum. Mekan, ev yaşamak, hep insanlarınla ilgilenilen konuların kesiştiği noktadadır. Bu konuların arasında hiç düzenlemek istemiyorum fakat sadece görünen bir tarafın olup olmadığını ispat etmek istiyorum. Araştırmamda manzara çok önemli, kişisel manzarası ve paylaşımlı, toplumsal manzarası. Fisiksel çevrenin çok hızlı değiştiği zaman sakinlerine ne oluyor, kendi oryantasyon kaybolmadılar mı? Bir tanınan mekanı yaşanlar kaybolmuyorlar mı? Üç tane inşaat projelere bakıyorum: üçüncü köprü, Sulukule ve Fikirtepe.

O zaman neden Dolmabahçe'de yer alan 75. Atatürk'ün ölümü anma töreniye gitmeye karar verdim?
Çünkü, Akp'nın ve Cemaat'in iktidarın yükseldiği zamanda, bu törene 1) katılımcılar kim 2) ne göstermek için, hangi tutumla gittiğini 3) hangi davranış göstereceklerini ve son 4) kaç katılımcılar olacağıni ispat etmek istedim. Şimdiki siyasal durumda laikliğin önemini sağlamlaştırmaya itihyacı hissedilebildiğini düşündüm. Bu karşılaşma daha sokaklarda, duvarlarda, otoyollarda görülebilir: başbakanın kafasi Atatürk'ün yüzü ile yarışıyor. Eskiden tek görülebildi ikon Atatürk'ündü. Ama bügün, Erdoğan'ın her yerden Türkler'in arzuları ve hikayeleri gerçekleştirdiğinden övünen kafası diğeri karşılaştırmada biraz demode çıkıyor. Bu yüzden siyasal diyaloğunda Atatürkculer tarafından bir mesaj atmak için Dolmabahçe'deki simgesel bir fırsat olduğunu zannettim.