martedì 14 giugno 2011

Lo sguardo gentile del Parlamento

Le tanto attese elezioni sono finalmente passate. La tensione nelle strade, dopo una domenica elettorale semideserta di autobus vuoti in attesa alle fermate, è scesa. Niente più pulmini, niente più musica a tutto volume né raduni di partiti estemporanei di cui finora ignoravo l'esistenza, come questo dell'Hepar a Kadıköy. I –per fortuna– pochi presenti recitavano in coro il discorso di Atatürk alla gioventù, tenendo entrambe le braccia alzate a mo' di saluto, e sembravano davvero un po' invasati.
Adesso ci sono le buone notizie. Vero che ha vinto l'Akp e se fossimo in Italia non mi augurerei la vittoria di una simile forza politica. Ma qui siamo in Turchia, e devo pensare con un altro cervello. La mancanza di scrupoli negli investimenti e nei progetti edilizi che caratterizza questo partito mi fa paura, come ho già scritto altrove. Ma forse questa mancanza di scrupoli, queste tigri anatoliche che assomigliano di più all'Europa di tanti altri sbandieratori, in virtù dell'interesse al guadagno forse possono davvero migliorare questo Paese, loro malgrado. Non sarà certo un cambiamento profondo e gravido di vantaggi per la democrazia, ma per il momento è quanto di meglio si possa augurare al Paese. Nel suo discorso a scrutini conclusi, Erdoğan si è rivolto alla nazione parlando ai fratelli Curdi, Aleviti, Laz, Sunniti, Circassi. Ha parlato di diritti delle minoranze. I curdi dal canto loro hanno festeggiato la loro piccola grande vittoria (36 candidati entreranno in Parlamento) e la disfatta del partito Repubblicano di Kılıçdaroğlu. Sui giornali sensibili ai diritti delle minoranze è stato molto apprezzato il discorso del capo del Governo: "Magari tutti parlassero dal balcone!". I discorsi di Erdoğan dal balcone sono ormai un appuntamento fisso: per la terza volta, dopo la sua vittoria, è uscito sul famigerato balcone della sede del suo partito e ha parlato alla nazione. Il compromesso con il Partito della Giustizia e dello Sviluppo  è visto come possibile, diversamente con il Chp, benché il suo segretario generale sia  curdo e alevita.

Ma le buone notizie non sono finite qui: ben 78 donne hanno conquistato una poltrona in Parlamento. Tra di esse, ci tengo a menzionare Leyla Zana, finora detenuta dopo che 17 anni fa, dopo la sua elezione a deputata, aveva pronunciato una frase in curdo durante il suo giuramento. Il suo giuramento è pertanto atteso con curiosità. Il Bdp, partito democratico della pace, filo-curdo, ha sostenuto l'elezione della candidata indipendente Sebahat Tuncel, eletta a Istanbul, nella foto qui sotto il giorno prima delle elezioni in una marcia a kadikoy.



Dedikodu

Con la mia solita incapacità diplomatica ho detto ai miei amici che rappresentavano in pieno il maschio turco, tutto-maschio, senza sfumature femminili. Diversamente da come avevo previsto, nessuno si è messo a ridere, e anzi, è calata su di noi un'atmosfera pesante e si stava quasi per consumare un piccolo litigio. Ho cercato di spiegare quello che intendevo, e cioè che ognuno di noi ha un lato femminile e un lato maschile, più o meno in armonia, con la prevalenza dell'uno o dell'altro. Uno teneva la bocca chiusa e continuava a mondare le carote, un altro fingeva di non essersela presa mentre il terzo insisteva nel dire che c'era stato un malinteso dovuto alla lingua.

Questa cosa mi fa tremendamente incazzare -scusate la parolina non proprio delicata- questo continuo usare la differenza (di lingua, di abiti) per giustificare ogni incomprensione, perché definisce un ostacolo insormontabile e decreta l'impossibilità di proseguire oltre. Oltre a segnalare che l'altro non ha alcuna motivazione a stabilire un dialogo e procede a gradoni, saltando i dettagli. Dato che non se ne usciva, avevo quasi cominciato a chiedere scusa per le mie parole offensive, quando mi è venuta un'idea geniale: fare esempi pratici. In effetti, neanche porre sul piano dell'astrazione qualcosa di cui non si ha un terreno comune con l'interlocutore può considerarsi un tentativo di comunicare. Allora ho raccontato di questi uomini che camminano come dei rettangoli indeformabili, con le braccia penzoloni distanti dal bacino almeno venti centimetri, emettendo versi schifosi o sputando, sedendosi esponendo con fierezza la fonte della loro mascolinità, e che al passaggio di minute e raffinate signorine sostano vomitando loro addosso il loro sguardo ferino, come se fosse un diritto, quello di cercare in ogni angolo di carne.

Attenzione, non sto generalizzando a tutti gli uomini che incontro, sto parlando del maschio tuttormoni che solo risponde alle caratteristiche qui trattate. Quando ho a che fare con questi personaggi mi chiedo se loro sappiano quello che mi passa per la testa, che non è "Brutto orco, levami gli occhi di dosso", ma "Quanto è ridicolo e inutile questo personaggio per il progresso dell'umanità, il mio unico dispiacere è se in casa sua è una specie di re".

Badate bene, questo post è sì poco più di un inutile pettegolezzo femminista neanche troppo originale, ma mi piaceva menzionare questo piccolo aneddoto perché indirettamente sto discutendo del corpo, della sua funzione sociale nonché le conseguenze della sua emancipazione sulla decadenza della virilità. Una chance non da poco per l'uomo, che finalmente ha l'occasione di sbrigliarsi dal ruolo così rigido impostogli dalla tradizione e reinventarsi, miscelando a piacere yin e yang, non dovendo più per forza masticare e parlare  contemporaneamente. Tornando ai miei tre amici in cucina. Certo che eravamo in cucina e ognuno si dava da fare, ma non sono certo nè la cucina nè la romanticheria che compongono in me la prevalente parte femminile. Alla fine, con degli esempi un po' cretini, sono riuscita a riportare tutto su un piano ridanciano e la faccenda è morta lì. Il giorno seguente alla fermata del metrobus - dunque zona frequentatissima non solo da auto ma anche da pedoni in attesa - ho visto questo enorme manifesto e mi sono chiesta se quella povera ragazza non si sentiva un po' a disagio nel sapere che questi piccoli orsi nel scrutare il suo corpo sentano dentro di sé una specie di vittoria.

Cartolina post-elettorale

Una gita in un posto bellissimo, unico al mondo. In questo posto il mare diventa come un vasto fiume e si insinua nella terra, portando con sé navi imponenti, correnti portentose e delfini. La terra sta ferma lì, si affaccia, e non può fare altro che guardare, questo incessante trascorrere. La terra è verde e ventosa, lo spazio è enorme, cielo mare e terra che si sciolgono insieme in questa bellezza miracolosa. Questo posto è Istanbul, unico al mondo, irripetibile.

Da qualche decennio a questa parte il verde fisso della terra ha ceduto sempre più il posto al grigio di palazzi brutti, le gru mangiano gli alberi a colazione a pranzo e a cena. Ma da dove mi trovo ora, dall'alto di Anadolu Kavağı, posso vedere che c'è ancora una linea che non è stata sorpassata, che il grigio finisce ad un certo punto e tutto concentrato sembra spingere per invadere il resto. Ma per ora non è passato da qui. Ma se qui dovesse passare il terzo ponte, che fa parte del programma elettorale dell'Akp, non so quanto il fronte verde riuscirà a tenere. E allora questo angolo di mondo unico, questo scorcio incredibile, sarà ricordato come oggi la vecchia Istanbul sulle ristampe delle vecchie cartoline, quando Istanbul era Costantinopoli ed era un sogno arabo.


Nella Istanbul di oggi l'industria edilizia è popolare tanto quanto le merendine: le pubblicità che passa la tv sono per la gran parte merendine e costruzioni di lusso, dove le agenzie immobiliari sono come dei piccoli imperi, delle dinastie, che portano il cognome dei loro fondatori, e che nelle reklam regalano sogni di lusso e il lusso come un diritto di tutti. E' davvero un momento d'oro per l'industria edilizia turca, dalle autostrade che divorano le montagne nella valle del Çoruh al terzo ponte gettato sull'intemperanza di questo stretto. E che cosa può fermare un partito che ha preso il 50% delle preferenze dei cittadini (stessa percentuale nella stessa Istanbul)?

lunedì 6 giugno 2011

Il partito della felicità

Sostenitori del Saadet Partisi mentre si recano al palco da cui parlerà il segretario generale Mustafa Kamalak

Non è solo il terzo ponte sul Bosforo

Un film che ogni turco dovrebbe vedere è Ekümenopolis. Un documentario di Imre Azem, produzione turca-tedesca nuova di zecca, stupendo. L'esempio di come un documentario che parla di cose terribili può anche essere un film bellissimo. Ottimo lavoro giornalistico, ottima la scelta delle persone da intervistare, ottimo il lavoro di post-produzione, la colonna sonora, la parte di animazione, i testi. Finiti i complimenti, veniamo al dunque: si tratta di un argomento che ho già toccato in questo blog, parlando di Sulukule. Parlo del binomio terrificante ditruzione-costruzione e di chi sta in mezzo e ne fa le spese: le persone. Parlo di una catastrofe culturale imminente. Una catastrofe sociale, una catastrofe ecologica. Una perdita senza ritorno. Che ci fosse un disegno generale lo sapevo con certezza, ma avendo lasciato la Turchia mentre facevo le mie ricerche, non ero riuscita a mettere insieme le evidenze di questo disegno. E poi, quasi per caso, questo documentario, che mette in fila: il problema della distruzione dei cosiddetti insediamenti illegali dei gecekondu, la costruzione spropositata di grattacieli-mostri, la sconsideratezza nel distruggere patrimoni storici e culturali irripetibili, la potenza dell'istituto per l'edilizia Toki, che lavora come un ente statale, pianificando la città e approvando progetti, ma in realtà è un ente privato che fa felici tutti i giganti dell'edilizia. Il potere del mattone; è qualcosa di cui abbiamo esperienza diretta anche noi in Italia, su cui la camorra accresce il proprio prestigio, il capitale e ricicla denaro. Solo che qui è tutto più o meno legale.

www.ekumenopolis.net

L'handicap del capitalismo

Tra un negozio di casalinghi e un büfe, tra un marciapiede rotto e una macchina parcheggiata male, ecco comparirmi davanti agli occhi una galleria d'arte, con dei lavori rettangolari in bianco e nero che mi attirano come una calamita. Entriamo. E' la mostra di un certo Turgut Yüksel.


I lavori, tele bianche con sagome nere simili a stencil raffinati che danno l'idea di scene in controluce, in giornate molto assolate, sono il suo augurio di felicità (Saadetler dilerim). I dipinti traboccano di ironia e acutezza semiotica; intendo dire con questo che ogni segno è pertinente ed è evidente che l'artista ne è consapevole, sapendo miscelare e selezionare gli elementi grafici in modo sintetico e diretto. Cosa che mi stupisce, dato che sono abituata alla propensione piuttosto narrativa dell'estetica turca. Di  fronte a molti quadri ci è partita di slancio la risata. Ogni pezzo aveva un titolo, parte grafica integrante dell'opera. Davanti a "Kapitalizm" mi sono lasciata andare ad una avvincente riflessione.



Un uomo aspetta sulla sua sedia a rotelle di fronte ad una scalinata, che termina su un patibolo per l'impiccagione, con il cappio pronto. Significa che per tutta la vita ci sentiamo come se ci mancasse qualcosa, come se avessimo un handicap, e cerchiamo di salire quella scala con tutte le nostre energie, affaticandoci e soffrendo, per poi scoprire che quello a cui ambivamo altro non è che questa brutta fine. Mentre cercavo di spiegare tutto ciò in turco all'amico al mio fianco mi sono resa conto di una cosa interessante della parola turca engelli, che sta per handicappato. Engelli è l'aggettivo che si forma da engel, che significa "ostacolo", così la persona handicappata è la persona che ha un ostacolo, ostacolata. Lo stesso verbo engellemek significa ostacolare ma anche impedire, contrastare, e si usa per esempio negli articoli di giornale per raccontare di come la polizia ferma i manifestanti. Questo per dire che secondo me la sensazione di inadeguatezza a cui ci spinge il sistema capitalistico descritta perfettamente dall'artista è verbalizzabile in modo precipuo solo in turco, o almeno a me non è venuta nessun'altra idea migliore.

Garofani e rivoluzione

A quarantotto anni dalla morte di Nazim Hikmet i suoi seguaci si sono raccolti davanti al Galatasaray Lisesi per commemorarlo, stendendo le sue gigantografie sul selciato, coprendole di garofani rossi, distribuendo fogli con le sue poesie e suonando canzoni. Io li ho colti nel momento in cui suonavano çav bella, la versione turca di bella ciao. Perché, per chi non lo sapesse, Hikmet, oltre ad essere un grande poeta, era anche un grande comunista, che continua a ispirare giovani masse di rivoluzionari come quelli del Tkp, il partito comunista turco, appunto.
Lo stesso partito ha fra i suoi punti di riferimento principali proprio il Nazim Hikmet Kültür Merkezi (centro culturale), dove si trovano libri su ogni rivoluzione e le magliette con il logo "Boyun eğme" -non chinare la testa- che spunta ormai ovunque, muri, manifesti e persone. Nei volantini che distribuiscono, fra le altre, si può trovare una suggestiva immagine del capo del governo Erdoğan che divora una coscia di pollo, accanto a quella di una rissa parlamentare.
Nella foto qui sotto, dopo aver cantato çav bella tutti si sono alzati e i bambini che vendono i cappelli ai passanti hanno distrutto una decina di garofani e calpestato le fotografie.

giovedì 2 giugno 2011

La sorpresa della vita

E' iniziato il festival del documentario (Documentarist- Istanbul Belgesel Günleri). La mia prima visione è stata un film di una regista al suo debutto: Tülin Dağ, con il suo Bir adım ötesi... (Un passo oltre...). Il passo è quello che si fa quando si esce da una prigione dopo dieci anni, il passo che viene dopo e quello dopo ancora. In realtà non è solo questione di mettere un piede in fila dietro all'altro, ma l'inizio di un dramma, di una voragine esistenziale che si apre tra una donna e il mondo, tra la sua mente e il suo corpo. Il film non si sofferma sulle storie personali che hanno portato tre donne in prigione, ma su quello che hanno da dire circa il loro modo di riprendere a vivere, dopo una sospensione di dieci anni. Una delle protagoniste esce, si iscrive all'università, si sposa. La stessa autrice invece, a trent'anni si iscrive all'università e si stupisce di comportarsi esattamente come una diciottenne, cioè l'età in cui è stata allontanata dalla vita e il suo sviluppo emotivo, sentimentale e quello della sua corporeità sono rimasti congelati. Nei loro occhi lo stupore, l'entusiasmo per le cose quotidiane quando accadono davvero. La sorpresa per la vita, che io stessa collegherei a qualcosa che assomiglia molto alla felicità. Raccontano con gli occhi che luccicano come stelle. La prigione è in pieno centro a Istanbul, le voci della vita arrivano da fuori, è tutto così vicino. Ma alle detenute, della vita, non rimane altro che la lettura, l'approfondimento intellettuale, la raffinatezza delle loro discussioni. La donna che è in loro è una ragazzina che quando esce non sa bene cosa assaggiare, non sa come raccontare il proprio disagio e si deprime. Solo lentamente la ragazzina cresce ed è finalmente in grado di portare un vestito da ragazza, di acconciarsi i capelli. Ogni gesto è un'impronta scavata su un terreno vergine, mai calpestato da nessuno, nuovo e fresco.