I ritorni sono traumatici. Tutte le
volte che sono tornata dall'unica città estera in cui abbia abitato,
lo sconvolgimento del ritorno era temibile. Così temibile che l'idea
che si realizzasse mi aveva fatto tremare prima di quest'ultima
partenza, e sciolto in lacrime all'aeroporto.
La prima volta che sono tornata non
ricordavo più i nomi delle strade della mia città, i percorsi degli
autobus e i nomi delle persone. Un giorno avevo incontrato per la
strada una conoscente, ci avevo parlato per dieci minuti buoni
credendo che fosse ( non che si chiamasse)
Paola e invece era Valeria.
La seconda volta
non riuscivo più a parlare la mia lingua, non sapevo che musica
ascoltare e di che cosa parlare con le persone con cui avevo parlato
fino ad allora.
Sì, assomiglia ad
un'afasia, ad un morbo di Alzheimer, ad una dislessia.
In realtà erano
gli effetti di un mondo che ti circonda, che all'improvviso, con un
colpo d'ala d'aereo, scompare. Come un silenzio alla fine di una
festa chiassosa.
Forse anche dietro
a quelle malattie, a quei disordini, c'è un trauma, di cui non si sa
parlare, o si ritiene non ne valga la pena.
Assomiglia molto a
quello che cercavo qui, il trauma, lo spaesamento, il perdersi a
seguito di una trasfigurazione di paesaggio. Scorre in parallelo.
In effetti non ho
mai scritto niente di come mi sentivo quando tornavo. Forse perché
era difficile, forse perché per esempio adesso non ho intorno il mio
café con le discussioni ad alta voce, con il rumore così
denso che ti protegge e che puoi ritagliarci una poltrona d'intimità
dentro e sederti e scrivere. All'improvviso non c'è più, e io non
posso scrivere.
La
stessa cosa succede con la vita, con l'abitare. Cu abbita
abbita e cu nun abbita mmore.
Per due anni
milanesi ho abitato in un posto che non mi faceva stare bene. Era
brutto. Scomodo. Dannoso.
Se mi guardo
indietro, in quei due anni ho vissuto come nella condizione che
appare talvolta nei miei incubi: andare al lavoro in accappatoio,
oppure non potersi lavare e dover andare ad un incontro importante.
In quei due anni l'incontro importante era la vita di tutti i giorni,
e la sensazione di non potersi lavare era la condizione di non
potersi adagiare mai, di non avere mai un rifugio.
Conosco una persona
che ha vissuto per molto tempo ad Istanbul così. Non riusciva ad
uscire di casa, pur abitando in una zona molto centrale e piena di
stimoli. Ma si sentiva atterrita dalla selva urbana e i suoi
pericoli. Ora si è trasferita sul Mar Egeo, a undici ore di autobus
verso sud, in un villaggio per turisti. Ha dei vicini che hanno fatto
come lei, giovani pensionati in fuga. Sono i suoi nuovi vicini, con i
quali si suonano alla porta per scambiarsi torte e far assaggiare
manicaretti. “Il nostro villaggio è tutto qui.”
(“Bizim köyümüz bu kadar.”). Mi fa sorridere questo
accenno ad una presunta vita di villaggio, soprattutto se confronto
la grande fattoria poco più in basso, seguendo la strada, che si
trova su una curva e il mare lambisce qualche metro di terra prima
dell'ingresso. Loro mungono le loro capre ogni mattina da decenni, e
si organizzano ogni fine estate per la raccolta delle olive. I
villeggianti trasformati in villagers, invece, fanno la spesa
di fattoria in fattoria con i soldi della pensione che arriva dal
centro.
Questa volta sono
tornata ma lo spaesamento non è stato così forte. Mi ricordavo i
nomi di quasi tutte le strade, avevo solo una leggera depressione
come da ritorno dalle vacanze.
Sono uscita la sera
stessa, e nei giorni seguenti, bevendo, fumando, lavorando,
studiando. Potente come una nave col vento in poppa. Poi il collasso,
l'immobilità. Mi sono accorta che non pensavo più a Istanbul, se
non agli aspetti più da banchetto, gioviali, goderecci, balotta,
baldoria, g.. confraternite...GOLIARDICI! Ecco, non mi veniva la
parola. Non rispondevo al telefono che squillava da Istanbul. Oggi
l'ho preso in mano, ho riparlato quella lingua, l'ho riascoltata. Ho
appreso delle costruzioni iniziate a Fikirtepe. Ho riaperto i
giornali turchi. Ho scritto a tutti gli amici e conoscenti che volevo
sentire o invitare a cena. Adesso mi faccio una partita a solitario e
poi mi addormento piano piano.
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