martedì 21 settembre 2010

Dove si fa il çay

Eccoci finalmente al confine orientale della Turchia. Fra pochi chilometri inizia la Georgia, e precisamente l'Adjaristan, regione autonoma a maggioranza musulmana, con capitale Batum.
Siamo ad Arhavi, sul Mar Nero, uno centri della cultura Laz. A chiunque tu chieda, ti risponde di essere Laz. È incredibile la gioia e la facilitá con cui si inizia a chiacchierare; in un attimo siamo trasportati da un intera famiglia con il loro furgone in cima al loro villaggio, sulle montagne dove si coltiva il té.
Lassú incontriamo altri proprietari, come il vecchio dagli indescrivibili baffetti seduto davanti al suo deposito del té  aspettando che ''i russi'' tornino con il raccolto della giornata.
Qui tutti li chiamano russi, o addirittura sovietici, ma in realtá sono georgiani, e vengono da diverse cittá, da Batum, o addirittura da Tbilisi, attirati dal buon guadagno: 50 TL al giorno.
Sono tutti accovacciati in fila dal mattino presto in cittá e aspettano che qualcuno passi a raccoglierli e portarseli su in montagna, nelle piantagioni. Rimangono qui tre mesi, dormono in hotel. Non parlano turco, o molto poco. Il piú anziano di loro parla bene e ci racconta un po'. Uno di loro ci insegue e ci chiede quanto vogliamo per portarlo in Italia.
Qui c'é una grande serenitá, tutti si salutano cortesemente per la strada, anche salendo e scendendo dalla montagna. Si lamentano un po' dell'apertura dei confini con la Russia, e ne parlano come se si trattasse di un avvenimento recente. Da quel momento sono arrivate la prostituzione e i suoi mali, dicono. Eppure qui l'unica presenza straniera siamo noi e questi lavoratori. Certo la situazione é diversa in cittá come Hopa o Trabzon.
Vorremmo visitare la Çaykur, una delle fabbriche del té. Ma gli addetti alla sicurezza ci dicono che é vietato, come lo è per i georgiani lavorarci dentro. Per loro c'é solo la piantagione.

martedì 17 agosto 2010

Evet, perché yok yok.


''Hayır'' (No) al Nazim Hikmet Kültür Merkezi"
La riforma della giustizia promossa dal partito al governo è davvero nell'interesse dei cittadini o serve solo al partito di Erdoğan a imperare all'insegna dell'anti-secolarismo senza più scomode accuse e cavilli kemalisti? Ciò che mi interessa più di tutto in questa faccenda è osservare come avviene la comunicazione sul referendum, in che modo le informazioni arrivano al cittadino, qual è l'opinione che il cittadino è in grado di formarsi nel caos della propaganda, o per meglio dire, della pubblicità. Perché qui, come in Italia, la politica è un affare di tecniche di comunicazione, e quanto più il messaggio è subliminalmente violento, tanto più raccoglie consenso. Anche qui, come in Italia, mi chiedo come si faccia a votare e credere in una figura come l'attuale primo ministro.
Ho pensato di chiederlo al tassista, che alle 4 di notte ci portava a casa e mentre dentro l'auto sgusciavamo fuori dal ponte sul Bosforo, lui mi guardava e con gli occhi che gli brillavano –quindi non guardava la strada– mi dichiarava il suo amore per Istanbul, per questa città yok yok, questa città a cui non manca nulla: c'è il lavoro, ci sono i soldi, tutto è possibile a Istanbul. "Guarda, io lavoro di notte, sono malato, soffro d'asma, devo smettere di fumare, devo stare attento a tutto..ma questa città è un sogno, che cosa volere di più?"
Stupita da tanto entusiasmo e soddisfazione, ho inferito che allora anche politicamente avevo di fronte un cittadino soddisfatto (non ne avevo ancora incontrato uno). così mi sono azzardata a chiedere: "Ma il referendum?" e lui deciso "EVET" quasi stesse già apponendo il suo timbro sulla parola che significa SI' (e sì, qui i referendum si fanno coi timbri, mica matitine e crocette). E allora, resa coraggiosa dal suo impeto, ho chiesto: "Perché?" . E la risposta è stata: " Perché non vogliamo più colpi di stato. " Allora ho soggiunto di avere letto che in realtà si sarebbero potute fare modifiche più mirate alla Costituzione, se questo fosse stato il vero intento della riforma, ad esempio l'articolo... e il tassista: "Io non lo so, ma ogni cosa che fa Tayyip –dunque chiamandolo per nome– per me va bene, io mi fido, perché prima di Tayyip tutto era caotico, non funzionava niente, ma ora che c'è Tayyip è tutto perfetto" discorsi che hanno un certo eco nella mia memoria, e che mi hanno fatto pensare alle reazioni dei berlusconiani dopo il terremoto in Abruzzo. Allora gli chiedo se anche Berlusconi gli piace. E lui annuisce con veemenza. E ritorna a tessere le lodi di questo Berlusconi d'Oriente.

E poi la frase lampante, la freccia infuocata: "Perché Tayyip è un bravo musulmano"

Ho provato a chiedere che cosa intendesse, ma forse il tassista felice si è reso conto di aver espresso un concetto tabù (il partito di Tayyip era già stato sul punto di essere sciolto dalla Corte Costituzionale che ora si propone di riformare, proprio per essere in contrasto con la laicità dello Stato) e ha provato a correggere il tiro.
Di fronte a casa il tassista felice tutto ad un tratto smette i suoi abiti cortesi e ci intima di spicciarci e toglierci dalle scatole che un cliente lo ha chiamato e lo aspetta e lui non ha tempo.

lunedì 2 agosto 2010

Danza democratica contro la lombalgia

Da giorni vado raminga trascinandomi questo bacino semi-immobilizzato dal pudore, e il conseguente dolore di schiena – direi importante – ripetendomi che l'unica cura sarebbe quella di ballare, muovendo ripetutamente e in varie direzioni le anche. Ma non avendo il budget né il tempo per permettermi una serata stravagante a Beyoğlu, ed essendo Kadıköy non adatta al mio scopo, disperavo sul da farsi danzando in camera mia per i tre minuti che ci vogliono per sentirmi una poveretta. E invece mi sbagliavo solamente, perché la danza è dappertutto, e volendo si può anche oscillare leggermente il bacino quando si cammina. Così oscillando mi sono ritrovata in una Kadıköy travolgente e musicale, la Kadıköy della domenica: decine di persone si ritrovano di fronte al molo per Beşiktaş e danzano, allacciati con le braccia, in grandi cerchi, l'horon, la danza tipica del Mar Nero. E ballano tutti insieme, uomini e donne, velate e non; e si suda tutti insieme, e gli uomini urlano, e i loro vocioni che in coro danno le istruzioni sulla danza incutono timore. Parlando con un astante osservo che questa danza è molto simile all'halay curdo, ma prima di poter pronunciare la parola “assomiglia” lui mi precede e dice “evet, farklı”, sì, è diverso. Io ci riprovo e gli dico che secondo me sono davvero simili, ma non continuo oltre. Solo che si balla in cerchio anziché in fila e con uno in testa che guida con un fazzoletto in mano.

Si balla al suono della cornamusa, alcuni ragazzi si sono isolati e suonano in riva al mare.

Languendo al tramonto il primo cerchio si sfalda, mi sposto a rimirare un cerchio più piccolo ma non meno rumoroso, seguita dall'astante, piena di buone notizie per la mia lombalgia.

domenica 20 giugno 2010

Picnic fuori porta. Vietato fotografare

Questo fine settimana abbiamo provato l'esperienza di prendere l'auto e guidare fino a che non siamo usciti fuori da Istanbul. Vomitati fuori dalla metropoli che credevamo interminabile, ci siamo trovati a salterellare su strade inusitate e malridotte a salutare le mucche acquatiche dal finestrino, per poi approdare in questo centro abitato da polizia, educatori e militari; un centro di riabilitazione per giovani e bambini in cui non ci siamo fermati per raggiungere subito i ragazzini al pic-nic organizzato sulla riva di uno stagno in una foresta protetta; uno spazio in cui i ragazzini erano controllati a vista dalle guardie. I bambini avevano numerose cicatrici sulle braccia. L'ho realizzato quando una di loro si è presa la briga di salutarci uno ad uno con due baci sulle guance e un hoş geldiniz, pantaloni bianchi maglietta bianca, capelli neri con un ciuffo maschile, un sorriso di pace e tutti quei tagli, piccoli, ordinati, uno sotto all'altro. Poi ho guardato altre braccia e ho capito perché appena arrivati la prima cosa che gli educatori ci hanno detto è stata di fare attenzione ai taglierini che ci eravamo portati per il laboratorio di creta.

Ci siamo seduti sui tavoli e abbiamo mangiato dei fagioli, dell'insalata di yogurt e aneto, del pane e dell'anguria, guardandoci attorno sull'attenti come animaletti, nel caos dei tamburelli dei canti e dei balli. Delle ragazzine Rom fieramente ballando marcavano la loro appartenenza etnica e la loro superiorità nel canto, nel ballo nel ritmo, nei suoni con le mani, nella sensualità. Le ragazzine volevano le sigarette, volevano baciare, volevano sposare. Volevano scappare nel bosco. Gli psicologi, uno biondo che pare fosse un turco-russo, una donna con i capelli perfetti castano chiaro occhi azzurri, guardavano seri dai lati del marasma; talvolta partecipavano alle danze. Una ragazzina dallo sguardo triste e gli occhi verdi e grandi ha deciso che sarei stata io la sua mascotte e mi trascinava ovunque: dal bagno al banco con le angurie alla danza. Lo stesso è successo ai miei compagni: ognuno di loro era stato adottato. Lo yabanci-pet, cosa piuttosto diffusa tra i bimbi di qui. Abbiamo iniziato il nostro laboratorio di danza ma è durato pochissimo: tre esercizi di raffinata ricercatezza non potevano competere con Kazim Koyuncu e altre popolarissime canzoni da ballare. Le ragazze hanno apprezzato, i giochi di fiducia, di contatto, di abbandono del corpo, ma poi via a sgambettare in riga e schioccare le dita.

Un'esperienza indimenticabile, importante, con la quale ho incontrato da vicino una realtà di cui sentivo solo parlare. I bambini che hanno problemi con la giustizia, ma che ritirano la pagella, ma che a differenza dei bambini di un qualunque dove, quando commenti i voti ti rispondono “Ma tu non crucciarti, che questo è un mio problema, non il tuo!”.

giovedì 6 maggio 2010

Gegen die Wand-Contro le mura di Teodosio


Lo Stato prenderà misure per venire incontro ai bisogni dell'abitazione nel contesto di un piano che tiene conto delle caratteristiche delle città e delle condizioni ambientali e porterà avanti progetti abitativi di massa.” Così recita l'articolo 57 della Costituzione Turca, citato orgogliosamente sulla versione inglese del sito del TOKİ, Toplu Konut İdaresi, l'ente governativo che si occupa della promozione dell'edilizia sociale. Secondo quanto riferisce Rroma, sul proprio sito dedicato alla cultura e alla vita dei Rom di tutto il mondo, il TOKİ ha un ruolo predominante in quello che sta accadendo a quartieri come Sulukule (Fatih), abitati da un millennio dalla popolazione Rom.

A Sulukule io e Jahela siamo state ieri a cercare di capire che cosa significa materialmente spostare gli abitanti da un quartiere all'altro. Meglio di tutto parlano le foto (v. galleria fotografica). Ma anche le persone a cui abbiamo chiesto informazioni su come arrivare là: il gestore di un giardino del tè che dice in una risata amara che sì, Sulukule era dietro alla moschea, ma adesso sedetevi e bevete un çay, povere care.

Ma noi proseguiamo e troviamo una guida, che ci scorta fra quello che rimane di Sulukule: tanto poco da rendere difficile immaginare come poteva essere. Kayhan enumera ad uno ad uno: qui c'era il bar, qui la piazza, là la sala da ballo (Sulukule era famosa per questo). Ma io non vedo niente. Solo ruderi eretti qua e là in mezzo al niente seminascosti dalle recinzioni di un immenso cantiere. Sembra di assistere ad un funerale, al funerale di una vita collettiva, non di un solo individuo. Ho davvero il groppo in gola.

La distruzione delle abitazioni è cominciata due anni fa, e l'intento era di finire in tempo per il 2010, anno di Istanbul capitale europea della cultura. Il piano edilizio per quest'area prevede la costruzione di nuove case, probabilmente inaccessibili per i vecchi abitanti del quartiere. Che riceveranno 500 Lire (250 €) per ogni metro quadrato abbattuto. Soldi con i quali forse potranno permettersi un alloggio nelle penosissime periferie della metropoli, forse a una quarantina di km da qui. Sempre secondo quanto riporta Rroma, questi soldi non verranno pagati tutti in un'unica soluzione. E come potrebbe, la Turchia, con un bilancio tanto malandato. A coloro che adesso non hanno più la casa, a coloro che le ruspe hanno portato via l'attività, non rimane altro che sperare che si ricordino di pagare fino all'ultimo kuruş. Questa suggestiva zona della città, a ridosso delle mura di Teodosio, non sarà più sporca e dedita alla prostituzione, dice Kayhan, che è un agente immobiliare ed è molto ottimista su quella che chiama la riqualificazione di Sulukule.

Pare che adesso la distruzione della zona abbia subito un arresto dovuto al ritrovamento di importanti reperti archeologici. Gli operai che abbiamo incontrato lì dicono che si tratta di una bugia e che qui si continua. Vedremo, se laddove la protesta e l'indignazione civile non hanno potuto, potranno vecchi oggetti rovinati dal tempo, pitali e anfore.

Il sito del TOKİ pubblica in inglese i discorsi che il premier Recep Tayyıp Erdoğan ha rilasciato sulle politiche abitative. In uno di questi si vanta di come la Turchia sia stata trasformata in un grande sito in costruzione, di come i progetti del TOKİ permetteranno, attraverso emolumenti vantaggiosi, alle persone meno abbienti di mescolarsi al tessuto cittadino, accedere allo stato sociale, passare dalla periferia al centro.

sabato 24 aprile 2010

Infanzia sovrana

Ieri in Turchia correva la Festa Nazionale del Bambino. A Istanbul viene celebrata con una grande sfilata in Istiklal Caddesi, e diverse manifestazioni hanno luogo in tutte le scuole. Nel pomeriggio ero seduta sulla scalinata dell'associazione per cui lavoro tentando di strimpellare una chitarra, quando tre chiassose ragazzine sui 13 anni passano lì davanti al ritorno da scuola. Una delle tre interrompe il chiacchiericcio forsennato e intima alle altre di fermarsi perché c'è una che suona la chitarra. Io replico che in realtà non so suonare, ma pare che a loro vada bene così. Indossano un gonnellino bianco a pieghe su collant bianche e scarpe bianche, una maglietta un po' meno uniforme e una casacchina azzurra appesa al dito e lasciata cadere dietro le spalle. Chiedo loro se è la divisa della scuola. Loro rispondono che è quella speciale per la festa del bambino. Mi dicono che l'hanno festeggiata a scuola partecipando ad uno spettacolo e suonando. Adesso sono stanche e festanti si dirigono verso casa, portandosi dietro il cicaleccio tipico di quell'età.

La giornata del bambino, che più precisamente si chiama la Festa della Sovranità Nazionale e del Bambino (Ulusal Egemenlik ve Çocuk Bayramı), è stata voluta dal padre della nazione Mustafa Kemal, per commemorare la fondazione della grande assemblea nazionale avvenuta lo stesso 23 aprile del 1921. La festa è stata poi in seguito dedicata al bambino. L'apoteosi della nazione giunge a livelli altissimi, in accordo con la tendenza tutta turca a fare le cose in grande. Ogni anno alcuni bambini vengono selezionati e sostituiscono le alte cariche dello stato nelle loro funzioni. E non si tratta di una sostituzione solo nominale, in quanto i figli della nazione hanno il potere di promulgare leggi. Naturalmente non sono eletti dal popolo e provengono dagli alti ranghi della società.

Tutto questo mi fa venire in mente i carnevali medievali in cui venivano capovolti i ruoli sociali per vivere un giorno alla rovescia: i ricchi facevano i poveri e i poveri governavano la città. Ma certo, non è la stessa cosa: qui c'è di mezzo l'orgoglio di una nazione.

mercoledì 14 aprile 2010

Barış hemen şimdi!

Cosa ci faccio seduta per terra in piazza Taksim a scandire slogan per la causa curda?



Lunedì Ahmet Türk è stato vittima di un attacco fascista. Allora eccomi con l'aiuto del dizionario a decifrare i motti. E a ripeterli a mia volta. Donne voluminose sollevano un braccio e distendono indice e medio e danno del fascista allo Stato, all'AKP e ai lupi grigi. Urlano “indipendenza”. Stefania è di fianco a me e dice: “Guardare queste donne qui in questo momento e ripensare a quello che possono aver passato mi mette i brividi”. Stefania ha partecipato ad un'inchiesta sociologica in giro per le famiglie curde del quartiere di Kayışdağı, e ha ascoltato troppe volte i loro racconti di arresti, soprusi, torture e uccisioni. “In ogni famiglia c'è un dramma.”

Gli uomini orgogliosi che rigirano il tasbih oggi chiedono le dimissioni del governatore di Samsun.

Perché non ha fatto niente per evitare che un gruppo di esaltati riuscisse a raggiungere con un pugno il naso di Ahmet Türk rompendoglielo. La polizia stava a guardare.

La gente è in piazza e chiede la pace, subito! E intanto, una simile protesta, in un'altra città, ha portato alla morte un ragazzino di 14 anni. L'immagine della madre che tiene in una mano le scarpe del figlio sembra aver colpito particolarmente i quotidiani che riportano tutti la stessa foto.

Ad un certo punto dalla moschea adiacente la piazza, il muezzin, che fino a pochi attimi prima sedeva quieto accanto alla finestrella ad osservare la folla, intona il suo richiamo alla preghiera. Allora i manifestanti si siedono, in silenzio, e aspettano che finisca. Finalmente riesco a guardare la dimensione dell'assembramento, per un attimo, prima che qualcuno mi tiri per un braccio e mi ordini di sedermi. Poi l'idea dell'adunata sediziosa pare piacere e il servizio d'ordine gira fa i manifestanti invitandoli a mantenere seduti. Di fronte alla folla ci sono una quindicina di cameramen e fotografi. Dietro di loro i poliziotti. Molti. E due panzer. Uno di loro ad un certo punto accende il motore e si muove verso la folla. Poi si ferma e rimane lì, a sporcare l'aria, col motore acceso. “Siamo tutti curdi, siamo tutti Ahmet Türk”, rispondono loro. Incontriamo un amico, Yakup, appena uscito dall'università. Si siede con noi e ci aiuta a capire gli slogan. Gli chiediamo: “Come stai?” e lui serissimo: “Bene, ma arrabbiato.”

Nel Dicembre dello scorso anno, a Bulanık, nella regione del lago di Van, due uomini furono uccisi dai colpi d'arma da fuoco di un negoziante esasperato dalla folla in protesta per la chiusura del DPT Demokratik Toplum Partisi, partito filo-curdo accusato di avere contatti con il PKK.

In questi giorni si sta svolgendo a Samsun, sul mar Nero, il processo mosso nei suoi confronti. Ahmet Türk, leader del disciolto partito, si trovava lì come osservatore e aveva appena rilasciato una dichiarazione alla stampa.

lunedì 5 aprile 2010

Yabancı

“Yabancı” è la prima parola di turco che ho udito quando quattro anni fa sono entrata con il treno nella prima stazione decorata con le sfavillanti bandiere rosse con la luna e la stella bianca, dopo aver passato il confine con la Grecia ed essere piombata in un mare di girasoli e verde brillante. Tutti i backpackers provenienti dall'Europa erano stati a loro volta impacchettati nell'ultimo vagone del treno, lontano dai turchi, lontano dai greci. Alla prima stazione turca, un gruppo di uomini in divisa, i capistazione. Dal loro gruppo si levò una voce, e una parola: “yabancı” (si pronuncia yabangi, con la g dolce). Dopo un breve momento di esultanza per aver compreso il significato della prima parola udita, mi resi conto della situazione: un vagone ghetto di stranieri e una punta di disprezzo in quel modo di indicarci: gli stranieri, eccoli là, come in un gabbione da circo, scorrere tra le varie stazioni e quei girasoli, con quella curiosità, sempre uguale, già vista mille volte, quella faccia schiusa, il mento ammorbidito dallo stupore, subito catturato da una macchina fotografica esibita con vergogna. E poi eccoli in giro per la città, a voltare la faccia dappertutto, camminando come papere. E invece guarda questi turchi che eleganza, guardali saltare su e giù dagli autobus alle fermate ai lati della tangenziale, con l'autista impaziente che non aspetta che anche il secondo piede sia a terra. Guardali appoggiare le valigie vicino alla porta dell'autobus lasciata aperta per il caldo, senza timore che possa cadere fuori, e poi davvero non cade. Guardali girare con i vassoi sul traghetto a distribuire çay e ricordarsi alla perfezione di chi doveva ancora pagare. Guardali con quelle lunghe scarpe a punta ballare al ritmo dell' erbane ed è come se si accomodassero sull'immenso sofà del mondo, guarda come si chiamano da una parte all'altra della strada e si intendono immediatamente. E questi yabancılar che vanno in crisi con le loro valigie, che vogliono pagare subito e si fanno fregare come allocchi. Yabanci è la parola prima, ma mi accompagna fino ad oggi, per la seconda volta a İstanbul, per un altro mezzo anno. Ancora qui a dimenticarmi di tutto, del mio bagaglio, della forma che ho preso, delle cose che ho imparato, per trovarmi intirizzita, goffa e indifesa seduta in autobus dopo aver risposto alla telefonata di mia madre, riagganciare e riscoprire, invece del silenzio attutito dell'autobus, le risatine dei ragazzini che occupano i posti dietro di me e delle due studentesse trentenni davanti a me. E fra una risatina e l'altra riecheggia una parola. Yabanci.