"..metterci nei loro panni, un'impresa snervante che non riesce mai perfettamente." C.Geertz
lunedì 5 aprile 2010
Yabancı
“Yabancı” è la prima parola di turco che ho udito quando quattro anni fa sono entrata con il treno nella prima stazione decorata con le sfavillanti bandiere rosse con la luna e la stella bianca, dopo aver passato il confine con la Grecia ed essere piombata in un mare di girasoli e verde brillante. Tutti i backpackers provenienti dall'Europa erano stati a loro volta impacchettati nell'ultimo vagone del treno, lontano dai turchi, lontano dai greci. Alla prima stazione turca, un gruppo di uomini in divisa, i capistazione. Dal loro gruppo si levò una voce, e una parola: “yabancı” (si pronuncia yabangi, con la g dolce). Dopo un breve momento di esultanza per aver compreso il significato della prima parola udita, mi resi conto della situazione: un vagone ghetto di stranieri e una punta di disprezzo in quel modo di indicarci: gli stranieri, eccoli là, come in un gabbione da circo, scorrere tra le varie stazioni e quei girasoli, con quella curiosità, sempre uguale, già vista mille volte, quella faccia schiusa, il mento ammorbidito dallo stupore, subito catturato da una macchina fotografica esibita con vergogna. E poi eccoli in giro per la città, a voltare la faccia dappertutto, camminando come papere. E invece guarda questi turchi che eleganza, guardali saltare su e giù dagli autobus alle fermate ai lati della tangenziale, con l'autista impaziente che non aspetta che anche il secondo piede sia a terra. Guardali appoggiare le valigie vicino alla porta dell'autobus lasciata aperta per il caldo, senza timore che possa cadere fuori, e poi davvero non cade. Guardali girare con i vassoi sul traghetto a distribuire çay e ricordarsi alla perfezione di chi doveva ancora pagare. Guardali con quelle lunghe scarpe a punta ballare al ritmo dell' erbane ed è come se si accomodassero sull'immenso sofà del mondo, guarda come si chiamano da una parte all'altra della strada e si intendono immediatamente. E questi yabancılar che vanno in crisi con le loro valigie, che vogliono pagare subito e si fanno fregare come allocchi. Yabanci è la parola prima, ma mi accompagna fino ad oggi, per la seconda volta a İstanbul, per un altro mezzo anno. Ancora qui a dimenticarmi di tutto, del mio bagaglio, della forma che ho preso, delle cose che ho imparato, per trovarmi intirizzita, goffa e indifesa seduta in autobus dopo aver risposto alla telefonata di mia madre, riagganciare e riscoprire, invece del silenzio attutito dell'autobus, le risatine dei ragazzini che occupano i posti dietro di me e delle due studentesse trentenni davanti a me. E fra una risatina e l'altra riecheggia una parola. Yabanci.
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