Faccio anche fatica a parlarne. Mi dà
noia. La giornata è stata piacevole perché ero in compagnia di
gente piacevole. Assicuratevi di andarci con gente piacevole, con cui
vi sentite liberi di commentare senza filtri ciò in cui sarete
immersi per almeno otto ore. Un senso di panico sordo mi accompagnava
dalla sera precedente. Andavo ad Expo perché, da contestatrice,
dovevo andarci. Se no è troppo comodo, mi dico tuttora. Come puoi
denigrare il nemico, senza avere il coraggio di guardarlo in faccia?
Expo è, ai miei occhi, la valletta del neo-liberismo aggressivo,
quello che annulla i confini in nome della rapina di risorse e toglie
il diritto di coltivare (in senso lato) alle persone che abitano un
luogo.
Il timore cresce piano, quando, poche
ore prima di andare a letto, inizio a leggere qua e là il florilegio
di articoli-guida per evitare le code a Expo, su cui perfino tutti i
massimi giornali si sono spesi. Tutti convengono sull'evitare il
sabato (cioè il giorno in cui sarei andata) e di partire dal fondo,
ovvero dalla parte opposta da cui si entra. Maturo l'idea di entrare
dall'ingresso di Cascina Merlata, arrivando in bici, evitando la
folla della metrò e di assicurarmi un piano di fuga liberatorio per
l'uscita. Invece poi verso sera comincio a pensare al percorso
lunghissimo e sconosciuto, all'opzione di caricare la bici in metrò
ma all'insostenibilità della folla di passeggeri; la notte faccio
sogni sull'interminabilità delle cose e addirittura mi sveglio alle
tre incapace di riaddormentarmi fino a forse le sei. Il mattino
seguente non mi sveglio di buon'ora, rinuncio del tutto alla bici e
salgo in una metropolitana che si affolla via via, mi manca il
respiro, mi gira la testa e quando scendo mi devo appoggiare ad un
muro e lasciare scorrere l'incredibile fiumana. Trovo i miei amici
poco più tardi e insieme ci mettiamo in coda. Sotto al palazzone
della wind, verso il controllo dei metal detector, siamo molecole di
un corpo enorme che si muove per circa quaranta minuti, superando
scale e ponti che solcano autostrade e stazioni, finché siamo
dentro. Diamo uno sguardo all'ingresso successivo, sotto di noi.
Scatto questa foto:
Per me è l'Apocalisse, o qualcosa di
grande e brutto sta per accadere. All'uscita, poi, ore dopo, mentre
cammino dietro ad altri zainetti e bambini semi-disarticolati,
proverò un mordente senso di affetto e compassione per questi esseri
umani che hanno rinunciato a una quarantina di euro (io ne ho spesi
dieci) del loro patrimonio, si sono incamminati da chissà quale
parte d'Italia, si sono attrezzati con la loro merendina e il
necessario e sono venuti a questo Giubileo del Capitale, a dire la
loro preghiera, a vedere la grandezza.
Expo è un manipolo di brutti
padiglioni stagliati lungo l'unica cosa che era pronta sei mesi prima
dell'inaugurazione: la teoria di vele metalliche del cardo e del
decumano. L'albero della vita ci appare da dietro una sterpaglia di
transenne e auto parcheggiate, con le sue radici che traggono
nutrimento dal cemento, e dalla via d'acqua sottratta al Parco di
Trenno. L'albero della vita è una sanguisuga sgraziata e neanche
tanto grande. Tutti quelli che ci raccomandano di vedere l'albero
della vita ci sembrano dei disperati che cercano di autoconvincersi
di qualcosa.
Cerchiamo di battere sul tempo gli
altri visitatori e ci fiondiamo dall'altra parte del parco
esposizioni con il people mover, meglio
conosciuto nelle contrade della gente comune come navetta.
Ma forse l'idea che una scatola metallica con quattro ruote trasporti
persone è una delle migliori innovazioni in mostra.
Il padiglione
Italia è preso d'assalto, una coda di almeno due chilometri slingua
fuori dall'intrico di simil-elastici bianchi.
Tutto qui è
simil-qualcosa.
Dopo appena
quaranta minuti di coda al padiglione Austria, entriamo scarpinando
su trenta metri di sentiero in una riproduzione di microclima
“austriaco”, nella massificazione da crociera, dove l'Ecuador
sono le Galapagos e l'Austria le sue montagne. Troviamo anche Heidi,
che si è fatta fotografare insieme a questi visitatori.
Beh, chiaramente il
tempo passa per tutti, e anche i generatori d'ossigeno allestiti qui,
e l'invito a respirare, non hanno potuto fare un granché.
Alcune meduse di
plastica colorate col pennarello si gonfiano e si alzano con la
pressione dell'aria azionata da un bottone. Cosa ci fanno le meduse
in Austria, faccio appena in tempo a chiedermi.
Poi ad estinguere
ogni questione c'è il bar con i dolci (e io che cominciavo a
sentirmi come in alta montagna). Ne prendiamo tre: una sacher, uno
strudel e un non meglio specificato “dolce tipico”.
Poi
passiamo all'Ecuador. Ancora quaranta minuti di coda sotto gli occhi
austeri dei visitatori affacciati sulla terrazza del padiglione Usa,
e gli ordini del guardiano che di tanto in tanto ci urla, fra i suoi
unici due denti inferiori, di andare avanti e riempire gli spazi
vuoti. Posso capire che sia una sua ossessione. Oggi sono piena di
compassione, dev'essere l'idea di nutrire il pianeta. In Ecuador ci
accolgono parlandoci, e questo mi piace. Ci accompagnano a sfogliare
questo depliant virtuale fatto di odori e video e immagini che
scorrono.
In
Ecuador si sta benissimo: ci sono gli animali più belli del mondo,
si va sott'acqua e si studia per realizzare i sogni, tutti pensano al
futuro e c'è solo natura. Anche l'agricoltura non è estensiva, ma
alternativa. E male
che vada c'è il cioccolato più buono del mondo.
Poi decidiamo di
andare in Turkmenistan, che avevamo sentito essere figo, in realtà
ci saremmo resi conto presto di averlo confuso con l'Azerbaijan. In
compenso abbiamo scoperto che anche in Turkmenistan si usa il
detersivo, ci si disinfetta con le garze e che gli allestitori hanno
svuotato i loro musei ottomani per abbellire un po', ché i fiori
finti non facevano bene il loro dovere e non si riusciva più a
spolverarli bene.
L'immancabile vanto del mattone accumulato all'inverosimile, nello stile tipico orientale. |
Decidiamo
allora di andare dai ricchi qatarioti, affascinanti nelle loro stole
bianche. Questa coda è un prova di amore e fiducia: due ore di
resistenza in arzigogolata processione. Una tavola imbandita
splendidamente, una valletta – che sembra Raffaella Bragazzi di Ok
il prezzo è giusto – che
spiega rapidamente la cucina qatariota e subito dopo ingiunge di
togliersi dalle palle, che deve ripetere tutto per il prossimo
scaglione di visitatori. Eh ma, abbiamo aspettato due ore.. Cazzi
tuoi, dice lei, nel dialetto di quelle regioni rese floride dalla
tecnologia, che sorridono fra le rughe delle guance degli schiavi che
lavorano nelle serre in mezzo al deserto. In questo posto
meraviglioso gli sceicchi si preoccupano di questioni delicate come
la cittadinanza globale e fondano addirittura un think-tank
allo scopo di risollevare il
mondo dalla fame.
foto 1 |
foto 2 |
Fotografare la
gente che fotografa mi piace molto, scopro dopo. Mi piace immortalare
ciò che piace alla gente immortalare. Ad esempio, corro divertita e
incuriosita verso questo porcilaio in mezzo al decumano, poi mi
accorgo con immensa delusione che sono porci finti, di plastica. Mi
risollevo quando vedo persone che fotografano questi porci finti.
Penso con tristezza
alle fiere del bestiame a cui mi portavano mamma e papà da piccina.
A tutto quel buon odore di buascia e di animale e a quei
versi, quei corpi caldi e alieni. Qui è finto anche il maiale, e
nutro qualche dubbio sul prosciutto del toast che ho appena mangiato.
Sono finte anche le cose architettoniche, sono fatte per finta, non
sono costruite veramente. Perché il mega cesto che fa da cappello al
padiglione Qatar non è di vera paglia? Ero curiosa di vedere, anche
solo da fuori, il padiglione Messico, perché fatto come un involucro
dischiuso di una pannocchia di mais. Una volta al suo cospetto, però,
mi è sembrato così povero, poco pretenzioso; e che diamine, siamo
ad un'esposizione universale, dopotutto! Finti erano anche questi
cosi lungo il decumano, finto il pane e le verdure.
Colpevole da parte
mia di essere venuta di sabato, di non aver potuto visitare tutto,
leggere i pannelli, parlare con gli addetti..sono andata via con la
forte perplessità sul vero tema della fiera. Il livello sembrava
quello che si può trovare in qualunque agenzia di viaggi. L'elenco
degli sponsor sembra troppo simile a quello che si consulta quando si
aderisce ad un boicottaggio. Ma davvero mi devo rivolgere a
Coca-Cola, che affama i contadini e si mangia lo stato di diritto dei
paesi in cui produce, per avere un parere su come risolvere la fame
nel mondo?
Che l'aria in tal
senso puzzasse un bel po' mi è stato confermato dall'eccezionale
incontro con l'azienda di piadine ambulante per cui in giovinezza
avevo lavorato, che in Expo gestiva l'importante padiglione di una
famosa bevanda ambrata. Me ne andai da loro perché mi facevano
lavorare anche tredici ore di seguito e a fronte delle mie proteste
consigliavano antibiotici. Le piastre erano lavate con candeggina e
risciacquate dalle prime trenta piadine del giorno successivo.
Viva il cibo di
strada, nobilitato per l'occasione perché questo ci spetta mangiare,
a noi povere molecole di questo gregge che se ne va a casa, con gli
occhi ciondolanti sui sedili della metrò.