"..metterci nei loro panni, un'impresa snervante che non riesce mai perfettamente." C.Geertz
mercoledì 29 febbraio 2012
martedì 28 febbraio 2012
Hebler, colui che imprigionò gli Ebrei
Valentina, Fatima e Giulia stanno giocando silenziosamente a "Nomi, cose, città..", ovvero il gioco per cui peschi una lettera e devi individuare un elemento con quell'iniziale per ognuna di alcune categorie stabilite. Sono calme, chine sul banco quadrato, vigilando compostamente che nessuna sbirci le intuizioni dell'altra. Ad un certo punto Giulia si volta verso di me e mi chiede a bassa voce: – Come si chiama quello che aveva imprigionato tutti gli Ebrei?– Io temo di non avere capito e penso che si riferisca a qualche episodio biblico, quindi inizio a scervellarmi tra nomi di faraoni e profeti. Giulia mi viene incontro e mi dà un altro indizio: – Quello che c'entra con il giorno della Memoria..–
La guardo e le appiattisco, con la voce che scappa giù per la gola, il nome che cercava: Hitler.
Lei esulta e si china a scrivere. Ma vedo che pasticcia; mi guarda con un leggero panico: non sa come si scrive, non si ricorda come si chiama; scrive Hebler, poi cancella, poi riscrive l'acca ed esita. Infine pressata dallo scadere del tempo, aggiunge una successione casuale di lettere. Mi accorgo che la categoria è "film" e che prima di quella parola che sta per Hitler c'è scritto "la lista di".
Conclusione: Giulia dalla Giornata della Memoria ha imparato che un uomo cattivo ha imprigionato tutti gli Ebrei, che questo signore ha un nome impronunciabile che inizia per acca, e che è per questo che si fa la giornata della memoria.
Ad un moto di sdegno segue una considerazione a favore della piccola: i suoi genitori avranno forse trentacinque anni, non sono nati in Europa e i loro genitori probabilmente sono nati dopo il '45. I miei nonni avevano vissuto la guerra, ed era stata un'esperienza dirompente nelle loro vite. Le maestre a scuola ci invitavano ad intervistare i nostri nonni riguardo alla guerra, al fascismo. Ne parlavamo con i testimoni diretti, diventava concreto anche per noi. L'idea che un pericolo così grande abbia sfiorato le vite dei miei cari. Il diario di Anne Frank era il mio libro preferito quando avevo più o meno i suoi anni, e da esso dipende forse la mia vocazione alla scrittura. Oggi, a disposizione degli alunni, ci sono: le fotografie. Ma nessuno che parli per loro. Sull'onda di quale commozione Giulia potrebbe sentire il desiderio di leggere il Diario di una coetanea Ebrea nell'Olanda occupata?
Ricordare la Shoah serve a creare l'humus per rimanere sensibili ad ogni olocausto. E' un'occasione di elaborazione di contenuti; se vogliamo, un pretesto. Per educare a non riporre che una limitata fiducia nell'essere umano, che può superare la sua natura e diventare mostruoso. Per educare a non abbassare mai la guardia e contribuire ogni giorno al miglioramento dell'umanità.
Ma se viene meno la vicinanza temporale, il contatto con i testimoni, può ancora essere efficace? Se in educazione è sempre auspicabile fare leva su esperienze conosciute, famigliari per chi apprende, perché questo proposito dovrebbe venire meno qui? Forse insegnare la Shoah così come è stata insegnata a noi non è più possibile. Siamo a una svolta: svicolando, questa generazione non può più vedere cosa c'è dietro l'angolo. Jonathan sgrana gli occhi quando apprende che la play station e affini sono un'invenzione solo recente. Chiedere a dei piccoli individui che non hanno il senso della Storia di comprendere il senso della Shoah senza averne nemmeno un'esperienza di seconda mano è forse davvero troppo.
D'altronde come servirsi della gran quantità di genocidi contemporanei e raggiungere la stessa astrazione, gli stessi contenuti universali che il discorso sulla Memoria permette, senza turbare troppo le giovanissime menti?
La guardo e le appiattisco, con la voce che scappa giù per la gola, il nome che cercava: Hitler.
Lei esulta e si china a scrivere. Ma vedo che pasticcia; mi guarda con un leggero panico: non sa come si scrive, non si ricorda come si chiama; scrive Hebler, poi cancella, poi riscrive l'acca ed esita. Infine pressata dallo scadere del tempo, aggiunge una successione casuale di lettere. Mi accorgo che la categoria è "film" e che prima di quella parola che sta per Hitler c'è scritto "la lista di".
Conclusione: Giulia dalla Giornata della Memoria ha imparato che un uomo cattivo ha imprigionato tutti gli Ebrei, che questo signore ha un nome impronunciabile che inizia per acca, e che è per questo che si fa la giornata della memoria.
Ad un moto di sdegno segue una considerazione a favore della piccola: i suoi genitori avranno forse trentacinque anni, non sono nati in Europa e i loro genitori probabilmente sono nati dopo il '45. I miei nonni avevano vissuto la guerra, ed era stata un'esperienza dirompente nelle loro vite. Le maestre a scuola ci invitavano ad intervistare i nostri nonni riguardo alla guerra, al fascismo. Ne parlavamo con i testimoni diretti, diventava concreto anche per noi. L'idea che un pericolo così grande abbia sfiorato le vite dei miei cari. Il diario di Anne Frank era il mio libro preferito quando avevo più o meno i suoi anni, e da esso dipende forse la mia vocazione alla scrittura. Oggi, a disposizione degli alunni, ci sono: le fotografie. Ma nessuno che parli per loro. Sull'onda di quale commozione Giulia potrebbe sentire il desiderio di leggere il Diario di una coetanea Ebrea nell'Olanda occupata?
Ricordare la Shoah serve a creare l'humus per rimanere sensibili ad ogni olocausto. E' un'occasione di elaborazione di contenuti; se vogliamo, un pretesto. Per educare a non riporre che una limitata fiducia nell'essere umano, che può superare la sua natura e diventare mostruoso. Per educare a non abbassare mai la guardia e contribuire ogni giorno al miglioramento dell'umanità.
Ma se viene meno la vicinanza temporale, il contatto con i testimoni, può ancora essere efficace? Se in educazione è sempre auspicabile fare leva su esperienze conosciute, famigliari per chi apprende, perché questo proposito dovrebbe venire meno qui? Forse insegnare la Shoah così come è stata insegnata a noi non è più possibile. Siamo a una svolta: svicolando, questa generazione non può più vedere cosa c'è dietro l'angolo. Jonathan sgrana gli occhi quando apprende che la play station e affini sono un'invenzione solo recente. Chiedere a dei piccoli individui che non hanno il senso della Storia di comprendere il senso della Shoah senza averne nemmeno un'esperienza di seconda mano è forse davvero troppo.
D'altronde come servirsi della gran quantità di genocidi contemporanei e raggiungere la stessa astrazione, gli stessi contenuti universali che il discorso sulla Memoria permette, senza turbare troppo le giovanissime menti?
giovedì 9 febbraio 2012
Kaku il blog analogico
Se tornassimo indietro con l'immaginazione a che cos'era il mondo senza blog –volendo anche senza Facebook– riusciremmo di nuovo a stupirci della bellezza di pubblicare una frase, una riflessione, un articolo, ossia dire qualcosa che diventi immediatamente pubblico. La bellezza è data dalla facilità, dal mancato frapporsi di ostacoli. Un po' come se si fosse realizzato quel sogno segreto che la propria vita sia un film, bello da mostrare, interessante da osservare.
Non è vero che non ci fossero, prima dell'era 2.0, media per esporre il proprio io direttamente al mondo: non c'è forse bisogno di questo elenco sommario: arte visiva, cinema, fotografia, letteratura.. Teoricamente i mezzi ci sono sempre stati. Ma ognuno di questi elementi appena nominati è un'istituzione, non ha molto di quella immediatezza di accesso e uso che compone la bellezza di cui sopra. E poi io stavo parlando di scrittura. E per quanto possiamo essere caritatevoli e ammettere che anche un disegno è scrittura, io continuo ad aver bisogno della parola scrittura usata nel suo senso più stretto e proprio. Ho appena imparato che in giapponese scrivere si dice kaku, parola che ha un'estensione a molte altre azioni tutte legate all'incisione, al tracciare segni, etc. Quindi comprende anche il significato di disegnare. Rientrerebbero da questo punto di vista nella serie di atti indicati dalla parola 'scrivere' anche le scritte politiche sui muri e i graffiti.
Nel senso stretto che intendo usare qui invece, includerei le prime e lascerei fuori i secondi. I graffiti sono arte (visiva) murale. Le frasi politiche sui muri sono spesso delle trovate retoriche altamente raffinate, vengono lette da molte persone e provocano una reazione. Ma difficilmente si susseguono con regolarità o sono collegabili ad un autore.
Il blog –o facebook, twitter..– ha un autore, non esaurisce in una volta ciò che vuole dire e ha una continuità periodica nel tempo.
Posso concludere che prima della rivoluzione 2.0 non esisteva questa forma di scrittura. Avvallando la posizione di chi ritiene che la scrittura plasmi la nostra forma mentis, però, posso dire che dopo questa rivoluzione è possibile un percorso a ritroso: adattare media obsoleti (nel senso di Luhman: cambia il rapporto con lo sfondo) a tecniche di espressione nuove: è ciò che ha fatto un blogger analogico di via Padova, che tiene aggiornato il suo blog analogico quotidianamente, usando come piattaforma le pensiline delle fermate dell'autobus, imperterrito incurante delle pulizie periodiche che rimuovono i suoi post. Vedere per credere: lo stile è quello del blog, l'interesse è il pubblico, l'autore è riconoscibilissimo.
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