Non mi importa di parlare di niente.
Non mi piace come scrivo, la scrittura cambia la realtà, non voglio
fare l'antropologa né la giornalista nella vita. E in questo c'entra
anche Yasin, che mi chiede di fargli vedere le note che prenderò
dopo la nostra conversazione. E mi chiede che idea mi sono fatta di
Fikirtepe, e mi annuncia che mi farà un'intervista “per conoscere
il punto di vista di una straniera su Fikirtepe”, a me che ogni
parola di questo annuncio mi dà ai nervi. “Conoscere” è una
grande parola, da una conversazione con una studentessa di
antropologia un po' sprovveduta non vedo che tipo di conoscenza possa
discendere. “Fikirtepe” è un argomento? Si può avere un “punto
di vista” su Fikirtepe? E perché il punto di vista di “una
straniera” dovrebbe avere un'importanza in senso assoluto? Dalla
mia fatica di vedere Fikirtepe come argomento, segue la mia
difficoltà a farmi un punto di vista. In visita a dei famigliari
della mia coinquilina, quest'ultima spiega che sto facendo una
ricerca sul kentsel dönüşüm
etc. E la zia, in modo del tutto spontaneo: –E che cosa hai
scoperto?–
Sono
rimasta bloccata e ho sparato la prima cosa che mi è venuta in
mente. Non che non fosse vera, ma non era nulla in assoluto. Non era
Fikirtepe in toto. Il
fatto è che guardando sempre più da vicino qualcosa, come sempre è
difficile vederne l'insieme. Provate ad immaginare di dover
rispondere a una domanda del tipo “ Cosa pensi di Sesto San
Giovanni?”
Chiaramente nella
domanda di Yasin, giornalista amatoriale che ha la redazione del suo
quotidiano on line su Fikirtepe sul banco del suo negozio di
ferramenta, non c'era l'intenzione di sapere se trovo Fikirtepe bella
o brutta, chiaramente si riferiva allo sviluppo del quartiere come un
problema, e la mia impressione su di esso.
Che cos'è
successo? Ha ristretto il campo, ha chiuso la visuale, ma non ha
semplificato la composizione dell'immagine, non ha semplificato la
domanda. Io non so rispondere. E se non so rispondere ho fallito. Ma
nemmeno voglio. Eppure era quello che mi prefiggevo di fare. “Gli
antropologi devono parlare alla gente” mi dicevo. Devono aiutare ad
aprire gli occhi alle persone, renderli consci del cambiamento
antropologico in atto, dare loro gli strumenti per farsi un'idea, per
pensarlo.
Sono andata a
Poyrazköy, per vedere la costruzione del terzo ponte sul Bosforo e
la trasformazione del paesaggio che ne consegue. Ho preso un autobus
da Ümraniye, due rioni più in là rispetto a dove abito. Ci sono
rimasta sopra un'ora esatta. Avevo aspettato l'autobus per mezz'ora,
accanto a una ragazza che insieme a sua madre andava a Kavacık, da
dove dovevo salire su un altro autobus fino a Poyrazköy. Si ferma
l'autobus con il numero che aspettavamo ma l'autista ci dice che
abbiamo sbagliato lato, di aspettare sul marciapiede opposto.
Un'altra mezz'ora. Dopo aver percorso lungamente Çavuşbaşı yolu,
in un'Istanbul ancora rurale e lontana, l'autobus arriva a Kavacık.
Scendiamo e noi tre donne ridiamo, pur senza conoscerci. Ma quanto
era lungo?! E adesso dove va? A Poyrazköy. E lei? Anche noi! A
trovare una zia. E lei da chi va? Da nessuno, solo per fare un giro.
Smettono di sorridermi. Non mi parlano più. Che cosa ci va a fare
una ragazza da sola a Poyrazköy? Un'altra ora di bus. Di cui un
quarto d'ora sulla costa, a Beykoz; un quarto d'ora fra colli coperti
di boschi, qualche casa isolata e piloni della corrente. Un'altra
mezz'ora nella foresta incontaminata e verdissima, colli e valli e
un'unica strada. In cima ad un'ultima incredibile discesa-salita,
appare una striscia rasata dalle ruspe, piloni dell'autostrada in
costruzione, e a lato, il villaggio Poyraz, sopra e sotto, fino alla
spiaggia.
Inequivocabili, nel
cuore del panorama, i piloni del ponte in costruzione, di qua e di là
del Bosforo. Le navi quando passano in mezzo fanno “Pooooo”.
Salutano qualcosa che ancora non c'è. Però c'è. Faccio mille
riprese a questo paesaggio incredibile. Non ho voglia di parlare con
le persone, di cercare di capire. Capire cosa? Come cambia il mondo
con il terzo ponte?
Solo al termine di
una camminata gelida dal monte fino alla marina, fra mucche e
galline, risalgo ed esco sulla rocca, guardo verso il mare. Alla
sinistra ho il Bosforo, davanti il Mar Nero, costa buia e ventosa.
Rimango ad inumidirmi i capelli all'incrocio dei mari. Poi mi rifugio
in un caffè, sorpassando un matto con la faccia tutta rossa, un
ghigno e gli occhi spalancati che urla – No, non uscire, non
chiudere la porta, è pericoloso!–
Allora mi accorgo
che hanno tutti l'accento del Mar Nero, e mi sento altrove. Mi
chiedono da dove vengo. Rispondo: –Da Istanbul.–
Ridono. –Anche
qui è Istanbul.–
Mi chiedono una
lira per il té; protesto; mi fanno pagare 75 kuruş. Costava 50.
Vado all'autobus.
Diamine, è appena passato. Il prossimo è fra un'ora. Ho fame. C'è
un negozietto lì vicino. Il negoziante ha voglia di parlare. Io no.
Gli chiedo pigramente se è contento del terzo ponte. Lui dice
sbottando: –E che si vincono le guerre senza ponti e senza
strade?! Un paese per vivere deve sacrificare le foreste.– Ha due
stampelle e insiste per raccontarmi delle sue avventure amorose
quando ha lavorato in Germania negli anni Sessanta. Preferisco il
freddo e i cani randagi alla fermata. Finalmente arriva l'autobus. Di
nuovo un tuffo nel verde scuro. Poi la città.
Il Mar Nero è alle mie spalle, guardo verso l'interno del Bosforo |