mercoledì 14 ottobre 2015

All'Expo.


Faccio anche fatica a parlarne. Mi dà noia. La giornata è stata piacevole perché ero in compagnia di gente piacevole. Assicuratevi di andarci con gente piacevole, con cui vi sentite liberi di commentare senza filtri ciò in cui sarete immersi per almeno otto ore. Un senso di panico sordo mi accompagnava dalla sera precedente. Andavo ad Expo perché, da contestatrice, dovevo andarci. Se no è troppo comodo, mi dico tuttora. Come puoi denigrare il nemico, senza avere il coraggio di guardarlo in faccia? Expo è, ai miei occhi, la valletta del neo-liberismo aggressivo, quello che annulla i confini in nome della rapina di risorse e toglie il diritto di coltivare (in senso lato) alle persone che abitano un luogo.
Il timore cresce piano, quando, poche ore prima di andare a letto, inizio a leggere qua e là il florilegio di articoli-guida per evitare le code a Expo, su cui perfino tutti i massimi giornali si sono spesi. Tutti convengono sull'evitare il sabato (cioè il giorno in cui sarei andata) e di partire dal fondo, ovvero dalla parte opposta da cui si entra. Maturo l'idea di entrare dall'ingresso di Cascina Merlata, arrivando in bici, evitando la folla della metrò e di assicurarmi un piano di fuga liberatorio per l'uscita. Invece poi verso sera comincio a pensare al percorso lunghissimo e sconosciuto, all'opzione di caricare la bici in metrò ma all'insostenibilità della folla di passeggeri; la notte faccio sogni sull'interminabilità delle cose e addirittura mi sveglio alle tre incapace di riaddormentarmi fino a forse le sei. Il mattino seguente non mi sveglio di buon'ora, rinuncio del tutto alla bici e salgo in una metropolitana che si affolla via via, mi manca il respiro, mi gira la testa e quando scendo mi devo appoggiare ad un muro e lasciare scorrere l'incredibile fiumana. Trovo i miei amici poco più tardi e insieme ci mettiamo in coda. Sotto al palazzone della wind, verso il controllo dei metal detector, siamo molecole di un corpo enorme che si muove per circa quaranta minuti, superando scale e ponti che solcano autostrade e stazioni, finché siamo dentro. Diamo uno sguardo all'ingresso successivo, sotto di noi. Scatto questa foto:

                        

Per me è l'Apocalisse, o qualcosa di grande e brutto sta per accadere. All'uscita, poi, ore dopo, mentre cammino dietro ad altri zainetti e bambini semi-disarticolati, proverò un mordente senso di affetto e compassione per questi esseri umani che hanno rinunciato a una quarantina di euro (io ne ho spesi dieci) del loro patrimonio, si sono incamminati da chissà quale parte d'Italia, si sono attrezzati con la loro merendina e il necessario e sono venuti a questo Giubileo del Capitale, a dire la loro preghiera, a vedere la grandezza.
Expo è un manipolo di brutti padiglioni stagliati lungo l'unica cosa che era pronta sei mesi prima dell'inaugurazione: la teoria di vele metalliche del cardo e del decumano. L'albero della vita ci appare da dietro una sterpaglia di transenne e auto parcheggiate, con le sue radici che traggono nutrimento dal cemento, e dalla via d'acqua sottratta al Parco di Trenno. L'albero della vita è una sanguisuga sgraziata e neanche tanto grande. Tutti quelli che ci raccomandano di vedere l'albero della vita ci sembrano dei disperati che cercano di autoconvincersi di qualcosa.
Cerchiamo di battere sul tempo gli altri visitatori e ci fiondiamo dall'altra parte del parco esposizioni con il people mover, meglio conosciuto nelle contrade della gente comune come navetta. Ma forse l'idea che una scatola metallica con quattro ruote trasporti persone è una delle migliori innovazioni in mostra.
Il padiglione Italia è preso d'assalto, una coda di almeno due chilometri slingua fuori dall'intrico di simil-elastici bianchi.
Tutto qui è simil-qualcosa.
Dopo appena quaranta minuti di coda al padiglione Austria, entriamo scarpinando su trenta metri di sentiero in una riproduzione di microclima “austriaco”, nella massificazione da crociera, dove l'Ecuador sono le Galapagos e l'Austria le sue montagne. Troviamo anche Heidi, che si è fatta fotografare insieme a questi visitatori.

                          

Beh, chiaramente il tempo passa per tutti, e anche i generatori d'ossigeno allestiti qui, e l'invito a respirare, non hanno potuto fare un granché.
Alcune meduse di plastica colorate col pennarello si gonfiano e si alzano con la pressione dell'aria azionata da un bottone. Cosa ci fanno le meduse in Austria, faccio appena in tempo a chiedermi.
Poi ad estinguere ogni questione c'è il bar con i dolci (e io che cominciavo a sentirmi come in alta montagna). Ne prendiamo tre: una sacher, uno strudel e un non meglio specificato “dolce tipico”.
Poi passiamo all'Ecuador. Ancora quaranta minuti di coda sotto gli occhi austeri dei visitatori affacciati sulla terrazza del padiglione Usa, e gli ordini del guardiano che di tanto in tanto ci urla, fra i suoi unici due denti inferiori, di andare avanti e riempire gli spazi vuoti. Posso capire che sia una sua ossessione. Oggi sono piena di compassione, dev'essere l'idea di nutrire il pianeta. In Ecuador ci accolgono parlandoci, e questo mi piace. Ci accompagnano a sfogliare questo depliant virtuale fatto di odori e video e immagini che scorrono.
           

In Ecuador si sta benissimo: ci sono gli animali più belli del mondo, si va sott'acqua e si studia per realizzare i sogni, tutti pensano al futuro e c'è solo natura. Anche l'agricoltura non è estensiva, ma alternativa. E male che vada c'è il cioccolato più buono del mondo.


Poi decidiamo di andare in Turkmenistan, che avevamo sentito essere figo, in realtà ci saremmo resi conto presto di averlo confuso con l'Azerbaijan. In compenso abbiamo scoperto che anche in Turkmenistan si usa il detersivo, ci si disinfetta con le garze e che gli allestitori hanno svuotato i loro musei ottomani per abbellire un po', ché i fiori finti non facevano bene il loro dovere e non si riusciva più a spolverarli bene.



L'immancabile vanto del mattone accumulato all'inverosimile, nello stile tipico orientale.

Decidiamo allora di andare dai ricchi qatarioti, affascinanti nelle loro stole bianche. Questa coda è un prova di amore e fiducia: due ore di resistenza in arzigogolata processione. Una tavola imbandita splendidamente, una valletta – che sembra Raffaella Bragazzi di Ok il prezzo è giusto – che spiega rapidamente la cucina qatariota e subito dopo ingiunge di togliersi dalle palle, che deve ripetere tutto per il prossimo scaglione di visitatori. Eh ma, abbiamo aspettato due ore.. Cazzi tuoi, dice lei, nel dialetto di quelle regioni rese floride dalla tecnologia, che sorridono fra le rughe delle guance degli schiavi che lavorano nelle serre in mezzo al deserto. In questo posto meraviglioso gli sceicchi si preoccupano di questioni delicate come la cittadinanza globale e fondano addirittura un think-tank allo scopo di risollevare il mondo dalla fame.




Poco oltre, in una specie di caravanserraglio rivisitato, alcuni esseri umani sono in mostra come nella migliore tradizione delle esposizioni universali. Da antropologa non posso non fotografare. Da due prospettive: da evoluzionista (foto1) e da post-modernista (foto2).

foto 1


foto 2


Fotografare la gente che fotografa mi piace molto, scopro dopo. Mi piace immortalare ciò che piace alla gente immortalare. Ad esempio, corro divertita e incuriosita verso questo porcilaio in mezzo al decumano, poi mi accorgo con immensa delusione che sono porci finti, di plastica. Mi risollevo quando vedo persone che fotografano questi porci finti.

                          


Penso con tristezza alle fiere del bestiame a cui mi portavano mamma e papà da piccina. A tutto quel buon odore di buascia e di animale e a quei versi, quei corpi caldi e alieni. Qui è finto anche il maiale, e nutro qualche dubbio sul prosciutto del toast che ho appena mangiato. Sono finte anche le cose architettoniche, sono fatte per finta, non sono costruite veramente. Perché il mega cesto che fa da cappello al padiglione Qatar non è di vera paglia? Ero curiosa di vedere, anche solo da fuori, il padiglione Messico, perché fatto come un involucro dischiuso di una pannocchia di mais. Una volta al suo cospetto, però, mi è sembrato così povero, poco pretenzioso; e che diamine, siamo ad un'esposizione universale, dopotutto! Finti erano anche questi cosi lungo il decumano, finto il pane e le verdure.


La banalità è in fiera. Un orto viene messo in mostra. Ma è tale il distacco dell'Uomo dalla Terra?
Colpevole da parte mia di essere venuta di sabato, di non aver potuto visitare tutto, leggere i pannelli, parlare con gli addetti..sono andata via con la forte perplessità sul vero tema della fiera. Il livello sembrava quello che si può trovare in qualunque agenzia di viaggi. L'elenco degli sponsor sembra troppo simile a quello che si consulta quando si aderisce ad un boicottaggio. Ma davvero mi devo rivolgere a Coca-Cola, che affama i contadini e si mangia lo stato di diritto dei paesi in cui produce, per avere un parere su come risolvere la fame nel mondo?
Che l'aria in tal senso puzzasse un bel po' mi è stato confermato dall'eccezionale incontro con l'azienda di piadine ambulante per cui in giovinezza avevo lavorato, che in Expo gestiva l'importante padiglione di una famosa bevanda ambrata. Me ne andai da loro perché mi facevano lavorare anche tredici ore di seguito e a fronte delle mie proteste consigliavano antibiotici. Le piastre erano lavate con candeggina e risciacquate dalle prime trenta piadine del giorno successivo.
Viva il cibo di strada, nobilitato per l'occasione perché questo ci spetta mangiare, a noi povere molecole di questo gregge che se ne va a casa, con gli occhi ciondolanti sui sedili della metrò.